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Autore: Marge    25/02/2014    6 recensioni
Ogni sera, Filippo porta Oliver a fare la passeggiatina notturna. Peccato che il cane sia un gran curioso, e non può fare a meno di trascinarlo nella vita di due persone molto diverse, ma che lo colpiscono al cuore. Scritta per il Contest “Il Buio…e le scarpe” indetto da OriginalConcorsi.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TUTTA COLPA DEL CANE



Oliver era veramente uno stronzo.
Filippo lo pensava ogni sera, alla stessa ora. Mentre rientravano dalla passeggiatina serale, la pisciatina obbligatoria perché poi Filippo non gli poteva aprire la porta del terrazzo fino a nove ore dopo, Oliver si fermava davanti il portone del palazzo, lo guardava scodinzolando per un momento e poi inarcava la schiena.
Cagava.
E mentre era lì a sforzarsi, in punta di zampe, e lo guardava con le orecchie tirate verso dietro per la fatica, aveva uno sguardo furbo. Aveva imparato bene, quello stronzetto. Filippo sbuffando si chinava con il sacchetto in mano, raccoglieva il frutto caldo e maleodorante del suo intestino e rassegnato tornava indietro: l’unico bidone della spazzatura sulla strada era a centro metri di distanza, in direzione del metro quadrato di erba che Filippo si ostinava a chiamare parchetto e dal quale ritornavano ogni sera.
Oliver non voleva tornare a casa; non subito, almeno. Per lui quei due passi a meno cinque erano il massimo del divertimento, ed orgoglioso sventolava la coda pelosa per tutto il tragitto. E proprio sulla via del ritorno, proprio davanti al portone, la faceva, perché sapeva perfettamente che questo avrebbe significato tornare indietro: altri cinque minuti in strada. Per un cane che aspetta per tutta la giornata quel momento, può essere molto.
“Sei davvero uno stronzo” commentava Filippo tornando indietro, in una mano il guinzaglio e nell’altra il sacchetto pieno. “Non potresti farla davanti al bidone? O al parchetto? No, tu proprio lì, davanti al portone di casa.” Filippo già sentiva le lamentele della signora del terzo alla prossima riunione di condominio, se per una sera sola avesse deciso di derogare alla legge dell’educazione di rimuovere i bisogni del proprio cane.
“Se non la smetti ti riporto al canile, hai capito? E ti ci lascio. Stavolta sul serio.”
Oliver lo guardava con le orecchie tese e la lingua penzoloni, mentre saltellava al suo fianco soddisfatto. Dava un’annusatina ancora per qualche minuto, zompettava allegro, e poi, più soddisfatto di prima, permetteva a Filippo di rientrare. Aveva perfino la faccia tosta di tornare a casa contento, precipitarsi alla porta mentre l’uomo armeggiava con le chiavi, entrare e guardarsi attorno come a dirsi: “Bene, anche oggi sono tornato in questo luogo meraviglioso, non devo preoccuparmi più.”
“Sei proprio scemo” diceva di solito Filippo a quel punto, e gli grattava le orecchie, intenerito.

Quella sera Oliver aveva ripetuto lo stesso rituale.
“Sei un figlio di puttana, ecco cosa sei. Del resto sei un bastardo: tutto torna.”
Ma aveva deciso di insegnarli le buone maniere, una volta per tutte: quella sera niente passegiatina extra per il cane. Lo legò all’inferriata della finestra a livello del suolo, e tornò indietro da solo per gettare il sacchetto pieno. Oliver, stupito dal cambiamento, lo guardò andar via a orecchie basse.
Quando tornò, di Oliver Filippo riuscì a vedere solo la coda, che frustava felice l’aria, ed il fondoschiena. Tutto il resto spariva nella finestra infilato tra due sbarre.
“Cosa stai facendo con la testa infilata lì dentro?” esclamò. “Fatti gli affari tuoi, non sta bene” lo rimbrottò poi.
“Ehi” udì Filippo. Olivero scodinzolò. “Ehi, cane!”
Era la voce di un bambino. “Ci sei ancora?”
Oliver uggiolò, e Filippo lo guardò sorpreso, perché non lo faceva mai; non abbaiava neanche: puzzone sì, ma rumoroso no.
“Allora ci sei!”
“Sì” rispose Filippo. “Siamo ancora qui!”
“E tu chi sei?”
“Io sono Filippo” rispose. “E tu?”
“Marco. E lui come si chiama?”
“Oliver.”
Il bambino si mise a ridere, ma Filippo non capì perché. Si accucciò e cercò di guardare dentro: due occhietti ridenti erano esattamente dietro le sbarre, in uno spiraglio di vetro aperto.
“Non dovresti tenere aperte le finestre” disse, “fa freddo. È notte.”
“Ma io mi annoio” si lamentò lui, con le vocali strascicate. “Non ho nulla da fare.”
“Gioca.”
“Da solo mi stono stufato.”
“E allora esci” disse ancora Filippo, ma si sentì immediatamente stupido: se era solo, dove sarebbe potuto andare un bambino così piccolo?
“Sei solo in casa?” chiese dunque. Marco annuì.
“Ma se voi rimanete qui, posso parlare ancora con Oliver.”
“In realtà è piuttosto tardi e dovrei andare. Domani mi alzo alle cinque.”
“Va bene” disse il bambino strascicando le vocali. “Però domani tornate?”
“Sì sì” rispose Filippo, infastidito che, nonostante la nuova tattica, stesse perdendo comunque così tanto tempo. “Oliver, andiamo!”
A quella parola solitamente il cane balzava verso il portone del palazzo, impaziente. Ma si limitò a scodinzolare.
“Allora, cosa stai facendo?” si spazientì Filippo. Strattonò il guinzaglio, ma il cane non venne via.
“Ma porca…”
Infilò le dita tra le sbarre ed afferrò il collare: niente da fare.
“Si è incastrato” disse. “Tu da lì riesci a vedere qualcosa?”
“Non ci arrivo così in alto” rispose il bambino, e aveva un tono più allegro.
“Ma che palle!”
“Non si dicono le parolacce.”
“I bambini non devono dirle, gli adulti fanno come cazzo gli pare, soprattutto in queste occasioni!”
“Quando il loro cane si incastra?”
Filippo alzò gli occhi al cielo, sconfitto. “Devo venire dentro” disse.
“Non posso far entrare gli estranei se la mamma non c’è.”
“Sei il figlio di quella signora rumena?”
“Sì.”
“Bene, tua mamma mi conosce. Io abito all’ultimo piano dello stesso palazzo. E poi è colpa tua se il mio cane si è incastrato, quindi ora fammi entrare.”
Senza aspettare la risposta entrò nel palazzo e scese di corsa le scale per il seminterrato. Individuò la porta e bussò con forza.
“Sei tu?”
“Sì, sono io, apri.”
Scattarono due chiavistelli. Quando fu entrato il bambino scappò via.
“Voglio solo liberare il mio cane!” urlò Filippo, poi scrollò le spalle. Si guardò intorno: un monolocale, un tempo adibito a cantina, umido e pieno di oggetti, tra cui un tavolo rotondo coperto da un’incerata a fiori gialli, un cucinotto pieno di piatti sporchi impilati, un letto matrimoniale sfatto e vestiti appoggiati ovunque.
“Oliver, stai buono, ora ti libero” disse al cane. La finestra era alta rispetto al pavimento: persino lui dovette alzare le braccia per arrivare al collare, che si era impigliato nel perno della finestra. Tentò di sganciarlo, ma l’operazione non era facilissima a causa dell’angolazione.
In quel momento, la lampadina vacillò e si spense con un gracchio.
“Oh no!” esclamò il bambino da dietro una porta.
“Si è fulminata?”
“Lo fa sempre. Ora mi tocca stare al buio fino a domani.”
“Non hai una torcia?” chiese Filippo con irritazione crescente. “Senza luce non riuscirò mai a sganciare Oliver.”
“Ho una lumânare.”
“Una cosa?”
“Una lumânare. Come si dice in italiano?”
Finalmente venne fuori. Nella penombra l’unica fonte di luce era quella del lampione su strada, filtrata dal corpo grassottello di Oliver, dalla grata e dalla finestra. Tuttavia Filippo riuscì a distinguere il bambino, che doveva avere circa dieci anni.
“Quella che si accende con il fuoco.” Non aveva affatto il forte accento rumeno.
“Una lampada ad olio?”
“Ma no, più facile! Quella bianca che si scioglie. Ma io non posso usarla da solo, mamma dice che è pericoloso. Dice che quando resto al buio devo andare a dormire e basta, ma io non ho sonno. Mi annoio.”
“Candela.”
“Esatto, candela. Non mi veniva.”
“E dove sarebbe, questa candela?”
Dopo svariate ricerche al buio, il bambino tornò con una scatola di fiammiferi e un cero rosso da chiesa. Filippo rabbrividì nel prenderlo.
“Senti” disse poi, quando finalmente Oliver venne liberato. “Ora torno su, porto lui a casa e poi torno qui con una lampadina nuova, va bene? Ne ho sempre qualcuna di scorta.”
“Non so se la mamma vuole.”
“Vuoi restare al buio?”
“No no!” si affrettò Marco. “Però porta qui con te Oliver, per favore!”
E così, mentre Filippo si arrampicava su una instabilissima sedia per cambiare la lampadina, sperando di non rimanere fulminato, Marco fece amicizia con Oliver.

Di solito, quando Oliver combinava una marachella – e lo faceva spesso –, era facilmente individuabile: si appiattiva per terra, nascondeva il muso tra le zampe e faceva sparire le orecchie a forza di stirarle all’indietro. Il suo atteggiamento colpevole non passava inosservato, ma quella mattina saltellava allegro nel terrazzo, inseguendo una mosca.
Filippo non riusciva dunque a spiegarsi dove fosse finita la sua scarpa sinistra da ginnastica: la sera prima le aveva messe entrambe a prendere aria sul davanzale della finestra del bagno, ed ora ve n’era una sola. Oliver amava le sue scarpe e spesso ne prendeva una per giocare, ma, richiamato all’ordine, confessava spudoratamente il peccato. Invece quella mattina, pur messo di fronte alla prova del delitto, e cioè la scarpa destra solitaria, non aveva mostrato nessun senso di colpa, ed era tornato invece ad occuparsi dei suoi insetti.
Filippo si era perfino sporto a guardare giù, nel cortile interno, ma non aveva scorto nulla.
Una scarpa non va mica in giro da sola.
Mentre, con un sospiro, si accingeva a lasciare la scarpa destra in un angolo, destinata ben presto ad essere cestinata, suonò il campanello.
“Signore Filippo?” disse la voce al di là della porta. “Sono Adina, signora dal seminterrato.”
Lui le aprì. L’aveva incontrata sporadicamente per le scale, senza mai guardarla attentamente.
“Sì?” disse piuttosto sorpreso.
“È sua questa?” chiese lei e gli porse la scarpa mancante.
“Come fa ad averla?”
“Caduta nel mio terrazzo. Marco mi ha detto che è sua.”
Aveva un forte accento.
“Mi spiace di averla fatta salire fin quassù” disse Filippo prendendola.
“No problema. Marco mi ha detto che lei ha un cane molto simpatico.”
Rimaneva sulla soglia a sorridere, e Filippo si sentì in dovere di invitarla a prendere un caffè. Non poté fare a meno di vergognarsi un po’, dopo aver visto il loro monolocale, nel mostrarle il suo attico luminoso. Vergognarsi di che, poi?, si chiese. Lei si guardò attorno con curiosità, ma non disse nulla. Non disse nulla finché il caffè non fu pronto.
“Forse lei pensa che io sono una pessima madre” esordì quando furono seduti entrambi al tavolino della cucina, Oliver tra le gambe che frustava gioioso l’aria con la coda.
Veramente non penso nulla, ragionò lui, ma sorrise: “Si figuri!”
“Perché lascio così tanto tempo Marco da solo. Sa, signore Filippo? Faccio tre lavori diversi. Alcune notti dormo da una signora anziana” cominciò ad elencare mostrando le dita, “faccio pulizie, aiuto al mercato.”
Filippo soffiò sul caffè, come d’abitudine.
“Lei pensava io faccio lavoro di strada?” ridacchiò ed alzò le spalle. Filippo spalancò gli occhi.
“Normale, Marco sempre da solo la sera. Ma non è così.”
“Non l’ho mai pensato!” si affrettò a precisare lui, sputacchiando. Aggiunse con energia zucchero nella tazzina.
“Comunque volevo ringraziarla, signore Filippo. Marco parla sempre di Oliver” e gli grattò la testa. “So che vi incontrate al parco nel pomeriggio. Grazie davvero, Marco è un bambino molto solo.”
All’ultima parola, contrasse il volto in una smorfia e scoppiò in lacrime.
“Mi scusi” balbettò. Tirò su con il naso e Filippo, non sapendo assolutamente cosa fare, si alzò alla ricerca di un fazzoletto. Alla fine le porse un tovagliolo decorato con un Babbo Natale.
“Mi scusi sa, sono avanzati da Dicembre…”
Lei annuì e con il naso affogato nella carta rossa singhiozzò ancora per un po’. Filippo rimase a dondolare sui piedi, non sapendo cosa fare, con le mani a mezzaria.
“Lai ha figli, signore Filippo?”
“No, veramente no.”
“Moglie?”
“Ce l’avevo.”
“Morta?”
“Oh no, santo cielo! Ci siamo sposati giovani e così ci siamo separati presto, senza figli.”
“Mio marito morto, ma meglio così” disse lei. “Sa quanti anni ho io?”
Filippo scosse la testa. Che pasticcio era quello?
La osservò con attenzione: bionda, capelli tirati in una coda di cavallo, maglietta bianca senza alcuna forma e jeans. Una ragazzina in abiti da lavoratrice, infagottata senza alcuna grazia.
“Trentatré” rispose dopo aver aspettato invano. “E mio figlio ha dieci anni. Faccio questa vita da sempre, mi scusi se ogni tanto piango.”
“Non c’è problema. Piangere fa bene” rispose lui, e si sedette nuovamente.
Adina sorrise, e a lui parve davvero una ragazzina, dal sorriso dolce.
“Ora devo andare” disse lei dopo un po’. “Pulizie dalla signora del pianoterra. Almeno non devo aspettare l’autobus, no?”
“Quella pazza piena di gatti?”
Lei scoppiò a ridere: “Oh, sì!”
“Oliver la odia, perché vorrebbe rincorrerli tutti, e lei lo caccia sempre.”
“Anche io la odio, puzza da morire!”
Risero insieme.
“Scusi ancora, signore Filippo, sa. Volevo solo ringraziarla per il tempo che passa con Marco.” “Può dire a suo figlio di salire ogni tanto, se vuole. Io lavoro da casa, quindi sono sempre qui. Ad Oliver farebbe bene un po’ di compagnia per giocare, altrimenti mi distrugge le piante.”
“Sarà molto felice.”
“E grazie per avermi riportato la scarpa.”
“Grazie per lampadina.”
Filippo sorrise sorpreso: “Marco gliel’ha detto? Continuava a ripetere che lei si sarebbe arrabbiata.”
“Infatti lo ho fatto. Però grazie comunque.”
Rimasero ancora un attimo sul pianerottolo a sorridersi, perché non avevano più nulla da dirsi ma nessuno dei due sapeva come chiudere.
“Può venire anche lei per un caffè, se ha cinque minuti” disse infine Filippo. “Dico davvero.” Lei annuì, poi si voltò e prese le scale.
“Oliver, non toccare le mie scarpe!” sbraitò Filippo rientrando in casa. Il cane, beccato con la scarpa sinistra in bocca, la mise giù e scodinzolò, felice.






***
Scritta per il Contest “Il Buio…e le scarpe” indetto da OriginalConcorsi.
I due prompt da rispettare, ovviamente, erano il buio e le scarpe. Due parole per spiegare le mie scelte: il buio è ciò che fa nascere l’amicizia tra Filippo e Marco, mentre la scarpa fa conoscere Filippo e Adina, quindi entrambi gli elementi hanno un ruolo chiave.
Spero vi sia piaciuta, qualsiasi commento sarà davvero molto gradito ^_^ See ya!
  
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