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Autore: fabyoletta    04/03/2014    1 recensioni
Miranda Roosevelt non ha mai avuto molto rapporti con sua nonna Florence, ultimo membro della famiglia paterna. Rimane quindi di stucco quando scopre, dopo la sua morte, di essere diventata la proprietaria della vecchia villa di famiglia a Mistville, in Louisiana. Trasferitasi nella cittadina insieme alla madre e costretta a trascorrervi almeno anno prima di poter vendere la proprietà, Miranda scoprirà di aver ereditato qualcosa di più di una semplice villa e di dover prendere parte ad una guerra ... millenaria.
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il dono della rosa (La guerra dei cinque)

CAPITOLO 1: La vecchia dimora dei Roosevelt

“Allora che ne pensi?” domandò mia madre incrociando le braccia al petto.
“È una catapecchia” risposi storcendo il naso. Come altro avrei potuto definire l’enorme villa in stile vittoriano che ci si parava davanti? Il giardino era completamente secco, le scale del portico sembravano cadere a pezzi e il mattonato, che un tempo doveva essere stato di un rosso acceso, ora appariva color fango.
“Beh, certo, si dovrà apportare qualche miglioria qua e là ma …”  
“Qualche miglioria? Mamma, siamo oneste. Sarebbe da radere al suolo”
Presi in mano la fotocopia del testamento di nonna Florence e cercai il punto in cui si rivolgeva a me.
«Ed infine, alla mia unica nipote, Miranda Roosevelt, lascio la villa appartenuta alla mia famiglia da generazioni in Willow St. 13, nella cittadina di Mistville, Louisiana, con la speranza che possa amarla e prendersene cura come ho fatto io in passato. La proprietà non potrà essere messa in vendita se prima, la suddetta Miranda Roosevelt, non vi avrà trascorso un anno a partire dalla mia morte.»
“Certo che, se avessi saputo prima in che stato era ridotta, non avrei mai accettato questa assurda clausola” sbuffai in preda allo sconforto più totale. Avevo abbandonato tutto e tutti per trasferirmi in uno sperduto paesino della Louisiana, in una alquanto fatiscente villa centenaria appartenuta a quel ramo della famiglia (quello paterno) con cui non avevo mai avuto rapporti, se non sporadici. Conoscevo a mala pena mia nonna, Florence Roosevelt: il nostro primo incontro era stato in occasione del funerale di mio padre, quando avevo sette anni. Lui non ne parlava mai e non ne conservava alcuna foto. Era una donna piuttosto alta e magra, dai capelli bianchissimi e gli occhi verdi, simili ai miei. Ogni compleanno m’inviava una cartolina fatta a mano, dal profumo pronunciato di lavanda, con dei soldi ed il classico “Tanti auguri mia piccola Miranda”. L’anno scorso, per le vacanze di Natale, era venuta a trovarci (con grande sorpresa mia e di mia madre) passando quasi tutto il tempo in silenzio, seduta in soggiorno, con le mani raccolte in grembo e lo sguardo rivolto alla neve che cadeva fuori dalla finestra. Poco prima di andar via, mi aveva preso il visto tra le mani e chiesto scusa per non essermi stata accanto come avrebbe dovuto. Questo era tutto ciò che sapevo e ricordavo di lei.
“Se vuoi siamo ancora in tempo per rifiutare. Nessuno ci obbliga a stare qui Mira” disse mia madre poggiandomi una mano sulla spalla.
“Non dire sciocchezze. Abbiamo bisogno di quei soldi. Staremo qui, daremo una sistemata a questa … casa e … ce ne torneremo a New York tra un anno esatto”.
Sapevamo entrambe non esserci soluzione: la nostra situazione economica sfiorava la catastrofe. La libreria che i miei genitori aveva aperto a New York poco dopo essersi spostati aveva iniziato ad andar male subito la morte di mio padre, fino all’avvento delle grandi catene e degli ebook che ne avevano decretato la fine. Cinque mesi fa eravamo state quindi costrette a chiudere tutto e mia madre a lavorare come cameriera in un pub. L’antica tenuta dei Roosevelt era la nostra unica ancora di salvezza. Non avrei permesso a mia madre di lavorare in quel postaccio un solo giorno di più.
“Coraggio, mettiamoci a lavoro. Quando consegneranno gli ultimi scatoloni?” domandai, stringendo l’elastico che teneva raccolti in una coda di cavallo i mie lunghi capelli neri.
“La ditta di spedizioni ha parlato di un paio di giorni. Ho anche preso contatto con un certo Hunter Taylor, un falegname giù in città che ci aiuterà a rimettere a posto la staccionata e il portico” rispose mia madre, iniziando a scaricare le valigie dalla nostra vecchia auto rossa.
“Previdente!” esclamai ridendo “Ora puoi anche ammettere di aver subito pensato che questo posto avrebbe avuto bisogno di una bella ristrutturazione.”
“Ok piccola saccente! Se proprio vuoi saperlo, è stato questo tizio a contattarci via mail.” Rise lanciandomi addosso un sacchetto della spesa contenente calzature di vario genere.
“E da quando i falegnami dei paesini sperduti hanno un computer?”
“Da quando anche nei paesini sperduti è arrivata la linea internet! Andiamo Mira, cerchiamo di vedere il lato positivo di tutto questo. I Roosevelt sono sempre stati in questa città. Qui c’è parte della tua storia. Non sei curiosa neanche un po’?”.  
“Certo che lo sono. Peccato siano tutti morti ah … no aspetta! Forse siamo una famiglia di vampiri e c’è ancora la possibilità che siano sepolti a sonnecchiare da qualche parte in quella villa!” risposi mostrando i denti e mimando di avvolgermi in un lungo mantello.
Mia madre rise rischiando di far cadere a terra l’ultimo borsone rimasto nel cofano.
“Meglio se iniziamo a portare tutto dentro adesso. Vedo delle nuvole che non mi piacciono affatto. Potrebbe piovere da un momento all’altro” disse infine, avviandosi lungo il vialetto che conduceva alla vecchia tenuta dei Roosevelt.
All’interno, tutti i mobili erano stati accuratamente ricoperti con dei teli bianchi. Le pareti erano tappezzate con della carta da parati piuttosto ingiallita, con stampe floreali o arabesche. Il pavimento in legno scuro scricchiolava qua e là, rendendo l’atmosfera generale, se possibile, ancora più inquietante. Il salotto era piuttosto grande, con un caminetto in pietra circondato da un divano, alle spalle del quale era stato posizionato un bel tavolo da pranzo in legno massiccio.
“Mangeremo a capo tavola? Fa molto casata nobiliare” risi sollevando con un solo gesto il telo che lo ricopriva. La polvere mi colpì in pieno, facendomi lacrimare gli occhi per qualche secondo prima di poter recuperare la vista.
Il piano era completamente ricoperto da strani segni che ricordavano il disegno di un’edera aggrovigliata su sé stessa. C’erano poi altri simboli di cui ignoravo il significato ed una grossa “R” incisa al centro esatto del tavolo.
“Mamma vieni a vedere! Forse da questo potremo ricavare un bel po’ di soldi” gridai per farmi sentire, mentre le mie mani passavano lentamente sul legno che, al tatto, sembra farsi più caldo.
“Ora non posso tesoro” rispose mia madre, probabilmente dalla cucina  “arrivo tra un attimo. Tu vai al piano di sopra e scegli una stanza.”
Così, nonostante il mio sguardo continuasse ad essere attratto come una calamita a quello strano groviglio di incisioni, salii a due a due i gradini che portavano al piano superiore della villetta. Il corrimano era ancora lucidissimo e l’aria pervasa dall’odore di lavanda che nonna Florence portava con sé. Lungo il corridoio erano state appese della stampe con descrizioni di fiori e piante. Su ognuna era presente il nome in latino ed una piccola descrizione in inglese.
“Davvero uno strano arredamento” mormorai passandoli tutti in rassegna.
Le stanze sul piano erano quattro, compreso il bagno. Una doveva essere quella dei nonni, vista la presenza di un grosso letto a baldacchino a due piazze e di un’antica cassettiera sormontata da uno specchio ovale. Accanto alla finestra era stata posizionata una poltrona in vimini dallo schienale piuttosto alto, come quella che si vedeva nei vecchi telefilm sulla famiglia Adams. La seconda stanza era invece piuttosto anonima: c’era solamente un letto in vimini ed un piccolo scrittoio antico, di quelli che potevano essere richiusi con la chiave. Fu però la terza a colpirmi. La finestra che affacciava sul boschetto circostante era piuttosto grande e permetteva di starvi seduti su una morbida fila di cuscini in raso, ormai scoloriti. Il letto a baldacchino occupava quasi l’intera stanza e sulla testiera, sormontava una grossa “R” simile a quella sul tavolo, circondata però da delle rose finemente intagliate.
“Wow! Che spettacolo!” esclamai con un gridolino quasi stridulo “Voglio stare assolutamente qui.”
L’armadio era incastrato nel muro adiacente al letto e conteneva un grosso specchio su una delle ante. Sul lato opposto della stanza, vi era infine una piccola toilette di quelle antiche, smaltata di bianco e con un piccolo sgabello in ferro battuto. Certo, mancavano sia il lampadario che le tende e le pareti necessitavano di un’imbiancata, ma per il resto era praticamente perfetta. Sembrava quasi che la nonna avesse previsto il mio arrivo li, prima o poi.
 
“Mamma, ho trovato la mia stanza. Non crederai ai tuoi occhi è magnifica! Ammetto che vivere in questo posto non sembra più un’idea così impossibile …” dissi entusiasta una volta tornata in salotto.
“Guarda questa foto Mira …” m’interruppe mia madre porgendomi una vecchia cornice impolverata. La foto che si trovava all’interno, ritraeva un ragazzo dai capelli corvini e gli occhi scuri circondati da un paio d’occhiali dalla montatura in metallo, intento a leggere sotto un albero. Era molto alto e magro, e sorrideva verso l’obiettivo.
“È papà vero?” domandai, continuando ad osservare il suo sorriso e gli occhi grandi che di tanto in tanto, rivedevo nei miei sogni.
“Già. Doveva avere poco più della tua età.” Mia madre sospirò e riprese in mano il portafoto sorridendo dolcemente. “Ti somiglia così tanto …”
I suoi occhi si fecero subito tristi e intravidi, solo per qualche secondo, delle lacrime scenderle piano lungo la guancia. D’impeto le gettai le braccia al collo, accarezzandole il groviglio di ricci castani.
“Tesoro cosi finirai per soffocarmi …” bofonchiò lei cercando di liberarsi dalla mia stretta. Era parecchio più bassa di me, che superavo ormai il metro e settantacinque. Abbracciarla mi dava sempre l’impressione di essere io la madre e lei la bambina.
“Scusa” ridacchiai rilasciandola.
“Anche questo è merito tuo, vero Edward? Ha proprio l’altezza dei Roosevelt” sospirò lei alzando le braccia al cielo.
Le sorrisi dolcemente riprendendo in mano la foto di papà.
“Posso tenerla?” domandai stringendola al petto.
“Certo che si tesoro! Portala pure nella tua stanza se vuoi.”
“Ce ne sono altre?”
“Aimè, questa è l’unica che ho trovato in giro. Forse scavando nei cassetti di tua nonna riusciremo a trovarne.”
Improvvisamente, il suono del campanello ci fese trasalire.
“Chi può essere? Non aspettiamo nessuno” disse mia madre avviandosi velocemente verso l’ingresso.
“Forse i vicini” alzai le spalle, ricordando solo dopo di non aver visto alcuna abitazione nei dintorni della nostra “O forse un parente vampiro!”. Leggevo decisamente troppi fantasy.
Quando aprimmo la porta fu una donna bionda sulla quarantina a sorriderci a denti stretti, con in mano un grosso piatto ricolmo di biscotti. Era piuttosto robusta e indossava un vestito azzurro con dei fiorellini bianchi. I capelli biondo platino erano sapientemente raccolti in una crocchia mentre alle orecchie pendevano due perle talmente grandi e pesanti da deformarle i lobi.
“Salvee!” salutò con fare stucchevole. “Mi chiamo Mary Lightwing. Posso entrare?” domandò gettando lo sguardo alle nostre spalle.
“Piacere di conoscerla signora Lightwing, io sono Rachel e lei mia figlia Miranda” ci presentò mia madre, invitandola ad entrare con la mano. “Perdoni il disordine ma siamo arrivate in città solo da qualche ora.”
“Infatti è strano che lei sia già qui!” mormorai all’orecchio di mia madre, beccandomi una gomitata di ammonimento.
“Oh non preoccuparti tesoro! Sono venuta a darvi il più caloroso benvenuto a Mistville quale membro onorario del nostro comitato d’accoglienza.”
La gonfia gonna del vestito le ondeggiava intorno alle ginocchia ad ogni movimento, mentre con sguardo curioso osservava l’interno della casa.
“Esiste un comitato di accoglienza?” domandai storcendo il naso.
“Mi – ra – nda ...”
Mia madre sibilò le lettere del mio nome come a voler dire “Non è proprio il momento di essere sarcastiche”. Poi tornò a concentrarsi su Mary Lightwing che, in una frazione di secondo, si era fiondata in sala da pranzo poggiando il vassoio di biscotti sull’antico tavolo di legno.
“Siamo tutti addolorati dalla morte della cara Florence anche se, negli ultimi anni di vita, si era un po’ allontanata da tutto e tutti, rifugiandosi in questa grande casa.” disse la donna con sguardo rammaricato.
“Mia suocera è stata sempre un tipo piuttosto riservato” rispose mia madre.
“Si, questo è vero” tagliò corto Mary, giocherellando con il filo di perle che le scendeva sulla prosperosa scollatura. “Be, di certo farà piacere a tutti sapere che i Roosevelt sono tornati in città. Vi fermerete a lungo immagino, dalla mole degli scatoloni.”
“Almeno un anno, poi si vedrà” rispose mia madre, mentre la nostra interlocutrice continuava a posare lo sguardo su ogni mobile ed oggetto presente nella stanza.
“Benissimo! Allora avremo modo di conoscerci meglio. So che è stata assunta come bibliotecaria alla biblioteca comunale.”
Come diavolo faceva ad avere tutte quelle informazioni? Era proprio vero ciò che si diceva sui piccoli centri: tutti sanno tutto di tutti.
“Proprio così. Inizio domani mattina.”
“Ottimo, davvero ottimo” squittì, avviandosi velocemente verso l’ingresso, come se non fosse riuscita a trovare ciò che cercava.
“Adesso devo proprio andare. Ho mille impegni perdirindina!”
Perdirindina?! Oh santo cielo …  
“A presto Signora Lightwing e grazie per la calorosa accoglienza. Spero avremo ancora modo di vederci.”
“Non c’è di che cara! E …” rimase sospesa, posando lo sguardo su di me “può scommettere che ci rivedremo molto presto.”
 
***
 
“Allora, l’hai vista?” domandò l’uomo alla sua interlocutrice, inserendo del tabacco all’interno di una grossa pipa in legno scuro.  
“Si. Sono stata li proprio qualche ora fa” rispose la donna mettendosi a sedere a braccia conserte sul divano.
“Dunque?”
“Be, direi che non c’è da preoccuparsi” rise lei stirando con le mani l’ambia gonna fiori. “E’ a dir poco ordinaria. Non ho percepito alcun che standole accanto.”
“Questo non vuol dir nulla. È ancora presto per stare tranquilli” sentenziò l’uomo accarezzandosi la lunga barba bianca.
“Avresti dovuto vedere sua madre Isaac. Una donna senza alcuna qualità. Ora capisco perché la povera Florence non si sia fatta più vedere in giro.”
La donna si avviò verso un tavolino sul quale erano poggiati una bottiglia di liquore e tre grossi bicchieri ricolmi di ghiaccio. Ne prese uno e vi versò un po’ del liquido dorato, mescolando il tutto con un leggero movimento circolare della mano.
“Brindiamo pure alla nostra salute. Florence Roosevelt e i suoi discendenti non saranno più di alcuno ostacolo per le nostre famiglie.”
“Ti dispiace se aspetto ancora un po’ prima di unirmi ai festeggiamenti Mary?” rispose Isaac, ispirando profondamente dalla pipa.
“Fa come credi. Accertatene pure di persona. Ma il tempo scorre ed è tiranno.” gli ricordò Mary, sorseggiando il suo drink.
L’uomo si voltò con un sorriso. “Mia cara, non hai ancora imparato la lezione più importante di tutte: la guerra richiede pazienza e strategia.” 

  
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