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Autore: Ita rb    04/03/2014    2 recensioni
Alice non conosce il mondo al di fuori della tanto rinomata Manhattan, luogo in cui abita con una mummia dagl’occhi dorati e il carattere duro, ma non è certo all’oscuro dei numerosi dibattiti televisivi che inchiodano l’esistenza delle creature della notte nel ventesimo anniversario della sua realtà.
A primo impatto potrebbe sembrare una ragazza come tante altre, ma troppi misteri avvolgono la sua esistenza a partire dalla nebulosità dei ricordi, frammenti che non hanno che Nathan come figura di riferimento; non è un essere umano e neppure un vampiro come lui, è qualcosa di diverso e inquietante, legata a un’identità ignota che la vede come pedina s’una scacchiera d’intrighi di tempi passati e rancori sopiti.
Un curioso individuo di nome Lawrence è la chiave delle sue memorie e solo un nome saprà farle intendere cosa il fato ha voluto per lei, quello di Giulio Alfieri che, morto nel 1828 e rinato come immortale, è dichiarato come nemico dalla vendetta che intossica le vene dell’antico.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Violenza
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Disclaimer: La storia che vi apprestate a leggere è di proprietà della rispettiva autrice, così come i personaggi in essa contenuti, fatta eccezione per quelli citati che fanno parte del trascorso storico e della cultura popolare.
Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale, non voluto e senza alcuno scopo di lucro.
I personaggi presenti nella narrazione sono fittizi e per lo più maggiorenni. Ciò che li riguarda nella trama non violerà il contenuto del regolamento di EFP, in special modo riguardo alle relazioni incestuose che si presentano sin dagli avvertimenti della storia e/o tra minorenni e maggiorenni molto più grandi di loro, le quali saranno descritte in maniera sommaria e non dettagliata qualora facessero parte del filone narrativo per uno scopo ben preciso e non lasciato al caso – in caso contrario verranno semplicemente sorvolate.


Note: Salve a tutti, ultimamente sto tartassando il web con le mie idee strampalate e ne sono più che consapevole, però questa è una storia a cui tengo molto, una delle tante che fa parte della sua saga “Catene di Sangue”.
È il mio secondo flop con l’editoria (?), così come Nel ventre della Zebra che continuo a pubblicare su questo portale, perciò spero che almeno da queste parti possa interessare qualcuno data la mia particolare affezione per questi personaggi che amo – senza alcuna esclusione momentanea, sempre che in futuro non finirò col detestare qualcuno nei prossimi volumi.
Al momento si tratta solo di tre esemplari s’un numero X di totali – fin quando non mi stancherò di scrivere, fin quando non avrò una conclusione degna o fin quando anche voi non mi tirerete dei pomodori marci, LOL.
In sunto, spero che possiate apprezzare questa lettura, ma anche se fosse diversamente non esitate a farmelo sapere in qualsiasi modo, perché qualunque parola lasciata da un lettore è importante, anche se singola, anche se facente parte di un commento stringato.
LINK all'album delle illustrazioni con disegni e foto dei prestavolto.
Grazie a chi leggerà, a chi mi ha sostenuto negli anni della sua elaborazione, e a chi recensirà
~
 
 
Se il mondo potesse essere racchiuso in una sfera luminosa,
questa avrebbe tutto l’aspetto di una palla di Natale:
appesa ad un filo,
tintinnante,
rivestita di plastica e fragile più di ogni altra cosa
– quasi come la vita umana,
la stessa che in un breve istante può voltarsi dal lato opposto,
ingannando con un sorriso scarlatto.

Paradossalmente, Alice aprì gli occhi di scatto sebbene fossero già aperti: li aprì sul mondo, stendendo entrambe le ante di quelle immaginarie finestre, e sembrò quasi riemergere da una profondità marina imperscrutabile; o per lo meno così constatò Nathan, fissandola intensamente con la sua calma caratteristica, la stessa con la quale si era mosso fino a rendere tutto più estenuante e sensuale – oh, Nathan adorava quelle morti momentanee tanto quanto lei le odiava.
La vide annaspare e tossire, torcendosi su se stessa per via del dolore che provava all’altezza dello stomaco, e allora non mancò di dirselo tra sé e sé, ghignando appena: era brillante, fatta di cartapesta, come una luce di Natale o il sole stesso che non toccava la sua pelle da troppo tempo – un disegno iridescente che al contempo si rabbuiava poco a poco, ecco cos’era.
«Non è corretto rendermi innocua quando ti fa più comodo.»
«Corretto come rispondere ad una domanda, dici?» Soffiò a denti stretti. «È cortesia la mia: ti chiudo la bocca prima che possa far fuoriuscire assurdità da una cavità inutile.»
Poteva ancora sentire il brivido dei suoi ultimi spasmi contro il palmo della mano che tirava il tessuto con rabbia, quei contorti tentativi di ribellione che non le avrebbero comunque lasciato via d’uscita.
«L’uomo più cortese del mondo, il burattinaio misterioso», esordì lei con tono ironico, un po’ troppo cantilenante per i gusti del suo ascoltatore – dopo tutto si trattava solo di un corpo che poteva essere fatto a pezzi per poi essere ricomposto con cautela in un secondo momento.
Si umettò le labbra e aggrottò le sopracciglia con fare disgustato quasi avesse assaggiato l’acre succo di un limone, imprecando poi sottovoce.
Un indice macchiato di sangue si posò sulla sua bocca e il cremisi rossetto fatto di polposa vita scivolò via come la falange che l’aveva posato lì, battendo poi sul suo mento e sparendo sul seno sodo.
«Dovevo farti parlare ancora?» Borbottò senza darle davvero attenzione. «Sei autorizzata a farlo, Alice», continuò, sollevando un sopracciglio con noncuranza e osservando i segni tracciati col suo stesso sangue sull’abominio che risiedeva sotto di lui.
«Lamentarmi o gioire di essere stata uccisa da te non mi renderà più libera di quanto non lo sia adesso.»
«Praticamente come un canarino in gabbia che non ha voglia di cantare per il suo padrone», disse per darle man forte in quella considerazione più che genuina.
«Esattamente», grugnì imbronciata, vedendo la testa castana scuotersi un poco con disinvoltura fin quando non sentì ancora il lenzuolo stringersi attorno al collo; così, frettolosamente, lo spostò per non morire ancora una volta e poi sorrise con una punta di soddisfazione, divincolandosi da quella salda presa che l’ancorava sul letto sfatto.
Aveva sempre avuto l’impressione di essere una bambola rotta in cerca di un perché, eppure, osservando le proprie pupille in un sonno senza sogni, sapeva che qualcosa sfuggiva dalla sua comprensione: una conoscenza che non le era dovuta ma che sarebbe potuta tornare a galla solo toccando le profondità della pozza in cui galleggiava, avvolta com’era dalle bugie di cui si fregiava Nathan.
Si sentiva sporca in ogni dove e il sangue che le tirava la pelle, che la ricomponeva giorno dopo giorno fino a concentrarsi all’altezza del ventre vuoto, le dava una stranissima sensazione d’apatia pur spronandola al contempo a fuggire in bagno per una doccia d’occasione.
Le labbra di Nathan fremettero come se fosse sul punto di esordire con qualche discorso, eppure non disse nulla, preferendo accasciarsi volontariamente contro il cuscino più vicino per chiudere le palpebre nella consapevolezza che, volente o nolente che fosse, Alice non sarebbe potuta fuggire da quella gabbia trasparente; allora lei gli si avvicinò per coprirlo con le lenzuola e infine con il piumone, lasciando che gli occhi del suo contorto aguzzino si fissassero sulla parete pallida dove perfino lei parve scorgere un raggio di sole.
Si alzò di scatto, dunque, per renderlo solo un ricordo lontano, un qualcosa che sarebbe svanito nelle ore di libertà, certa che a breve, probabilmente, le finestre si sarebbero oscurate come tutte le mattine, tingendosi di un nero ultraterreno e opaco che avrebbe avvolto l’intera casa.
L’osservò un’ultima volta e sorrise in modo inequivocabile prima di posare sul suo volto un bacio casto e delicato, sgattaiolando in salotto con aria compiaciuta: Nathan sarebbe diventato un cadavere rinsecchito di lì a non molto e lei non aveva sonno – no, non aveva bisogno di nulla se non di placare quel fuoco inconcludente che le ardeva nel petto e sebbene lui le avesse parlato di una sensazione simile, questa era certa che allo stesso tempo fosse diversa.
Si mordicchiò il labbro inferiore, accendendo la televisione e girovagando in un mondo che non riusciva a comprendere realmente – sapeva solo che brillava come un abete in un centro commerciale, lo stesso che avrebbe osservato quella sera, quando la mummia nella camera da letto avrebbe nuovamente aperto gli occhi dorati per puntarli su di lei.
«Improponibile», stava dicendo un omuncolo sul canale numero tre che gli occhi azzurri di Alice studiavano attentamente sullo schermo ad alta definizione. «Non è accettabile una simile assurdità», continuava a imprecare mentalmente sulle idee divergenti dell’altro, ne era certa, perché tutti gli esseri umani finivano con l’imbestialirsi quando vedevano spiattellato davanti a loro un concetto prettamente opposto.
La testa calva aveva tutta l’aria di esplodere da un momento all’altro, si stava arrossando come la punta delle orecchie, mentre stringeva forte un pugno e lo batteva ritmicamente sulla coscia adiacente.
«Sono passati vent’anni da quando questa è diventata una semplice realtà e va accettata per quello che è.»
Sembrava che ognuno promuovesse un credo religioso, eppure si trattava di accettare o meno l’esistenza di mummie insignificanti come quella che risiedeva nella camera da letto – anche se il termine più adatto non era mummia, in effetti.
«Vampiri
Sì, era quello il termine giusto, solo che Alice lo disdegnava tanto e preferiva prendersi gioco di Nathan fino allo stremo delle forze, certa che non avrebbe mai smesso di farla tornare tra i vivi solo per dispetto – e quanto tempo avrebbe potuto passare solo come un cane?
«Sono comunque creature viventi con altre prerogative», giustificò bonariamente uno dei due uomini in giacca e cravatta; così Alice sogghignò sorniona nell’udire quelle parole, continuando a puntare lo sguardo sui capelli brizzolati di quello.
«Che fossero venti o cento non cambieranno le cose!»
Alzò appena le sopracciglia, incredula – non che le interessassero certi comizi, ma sperava proprio che nel ventesimo anniversario di quella realtà la smettessero di trattare la stessa tematica; aveva come la sensazione che per giorni non avrebbe sentito parlare d’altro e di rimando, annoiata, socchiuse appena gli occhi.
Si alzò, muovendo un po’ il proprio corpo nudo a destra e a sinistra nel bel salotto della mummia, camminando per casa senza un motivo apparentemente logico fino a chiedersi se fosse bene accettare il primo impulso che aveva provato, vale a dire quello di lavare via il fastidioso liquido addensato che le si era appiccicato contro.
«Sono esseri indefiniti che si nutrono di sangue umano», ringhiò il calvo, la cui voce era inconfondibile.
«Il sangue umano è più gustoso», ridacchiò il presentatore con lo charme tipicamente americano di cui molti andavano fieri, giusto per placare un po’ quella tensione palpabile, ma non c’era nulla di sensato in quello che stava osservando e lo sapeva bene, come molti altri, nonostante dibattiti come quello fossero ormai all’ordine del giorno.
Per chi non era né carne, né pesce, certe frivolezze erano solamente parentesi – la buccia di un mandarino andato a male: nulla di più, nulla di meno.
Le voci si fecero sempre più lontane, mentre Alice percepiva l’acqua tiepida scorrere dall’alto verso il basso e battere sulla pedana della doccia dopo aver carezzato la sua pelle nuda.
«Il sangue umano è più gustoso», scimmiottò, chiudendo l’acqua prima di aprire lo scorrevole vetro appannato per trovarsi dinanzi il corpo rinsecchito del proprietario di casa.
Trasalì, reprimendo un urlo, mentre i suoi occhi dorati apparivano arsi come la pelle squamosa che lo rendeva a dir poco orrido a una prima occhiata – no, non si sarebbe mai abituata a vederlo in quello stato pietoso – e rabbrividì solo osservandolo: detestava quando Nathan si svegliava durante il giorno, sembrava il resto di un ritrovamento archeologico.
Batté una mano sul vetro appannato e vide numerose goccioline d’acqua scivolare al suolo prima di udire la voce gutturale dell’altro penetrare direttamente nella sua mente – oh, non avrebbe usato le corde vocali per parlarle, altrimenti avrebbero potuto spezzarsi.
Abbassa il volume di quella televisione prima che la faccia in pezzi, ordinò imperioso.
«Ricevuto», rispose subito, deglutendo a vuoto e sentendo le ossa della mummia scricchiolare lentamente.
I muscoli guizzarono e la pelle si squamò passo dopo passo, creando altri tagli netti sulla terrosa e incartapecorita sembianza che figurava, ma Alice lo superò con disgusto per andare a spengere la televisione – il dibattito si era infuocato – e si rallegrò per lo meno di non averlo ancora sotto il naso.
Dovevano o meno esistere delle creature che avrebbero minato l’essere umano?
Era giusto fare delle leggi affinché queste creature avrebbero potuto sopravvivere in maniera equilibrata?
Quelle domande saettavano da una parte all’altra dello studio del terzo canale e lei, scuotendo la testa di rimando, udendo quelle ultime farneticazioni, si decise a spingere il tasto blu neon dal rettangolo gigante dinanzi al divano per mettere tutto a tacere in un batter d’occhi; solo allora vide scivolare Nathan contro la parete per raggiungere il letto e lei non disse nulla, anzi, tentò solo di mantenere basso lo sguardo nella consapevolezza che lui non le avrebbe mai chiesto aiuto.
Vedi di non svegliarmi ancora una volta, minacciò lui, senza che Alice sollevasse il capo per dargli conferma.

Il tempo prese a scorrere lentamente e rapidamente al contempo, quasi incontrollato: a tratti si palesava, altre volte diveniva un puntino s’una parete scura, luminescente come una stella lontana.
Gli occhi di Alice erano fissi e non osservavano nulla che non fosse immobile, là, in quella casa vuota e insensata – eppure la sua stessa esistenza poteva essere paragonata a uno scherzo della natura ancor più di quella di Nathan e dei suoi simili.
Ci rifletteva ogni giorno, rimaneva totalmente assente, quasi catatonica, mentre lasciava che la propria mente vagasse nelle sue stanze cerebrali – così le definiva – le quali erano composte da tante piccole porte: spazi diversi eppure uguali, terribilmente vuoti. Unicamente vuoti.
Allungò una mano per afferrare la maniglia e la piegò verso il basso, allora la porta tentennò, gracchiò, e infine si aprì per lasciarle di fronte una nuova stanza bianca e vuota – sì, vuota, proprio come sapeva bene che fosse quel mondo.
Batté le palpebre per comodità, sentendo la pelle arsa del suo corpo stringersi sui muscoli fino ad avvilupparli per bene, e i due piccoli lembi coprirono quegli organi in un solo istante: ogni piccolo frammento di se era elastico e allo stesso tempo atrofizzato, lo sapeva da anni.
Voltò la testa verso lo schermo piatto del televisore, lasciando che i suoi capelli cadessero in ciocche scomposte al di là del bracciolo in pelle bianca solo per vederli volteggiare un po’, piegandosi su loro stessi fino a seguire delle onde marine che divenivano fili nelle estremità più basse; era tesa e stanca, mollemente poggiata su di un fianco con aria annoiata, ma nonostante tutto decise di alzarsi per indossare qualcosa – non avrebbe avuto senso rimanere in quel loculo silenzioso fino al risveglio di Nathan, no?
Sapeva che oramai era penetrato in un mondo ultraterreno, in un limbo dal quale non sarebbe potuto uscire neppure volendo, perso in chissà quali ricordi della sua vita mortale a differenza di quel picchio che era lei – o per lo meno così amava definirla Nathan di giorno in giorno.
Era vuota come una bambola di porcellana, eppure sentiva tutti gli organi nel suo corpo pesare al punto giusto: pulsavano e premevano contro le ossa, contro i muscoli e addirittura i tendini; vedeva le sue braccia alzarsi verso il cielo, allungarsi affinché potessero tornare a muoversi con facilità dopo aver abbandonato quella sensazione d’immobilità apparente che ne era caratteristica; ma soprattutto aveva fame.
Tutto il cibo del mondo non sarebbe mai bastato e per quanto ne avrebbe ingurgitato, il vuoto non se ne sarebbe andato – il suo corpo si rifiutava categoricamente di assimilare qualcosa, ormai l’aveva capito.
Indossò in fretta degli abiti leggeri: una camicia bianca, raccattata casualmente dall’armadio, e dei pantaloni di jeans chiaro che presto scivolarono sui suoi polpacci, salendo le cosce toniche e soffermandosi poco più in basso del punto vita, forse sotto l’ombelico.
Sospirò fino a sentire i crampi all’altezza dello stomaco farsi più opprimenti e lì subentrò la consapevolezza: era una sofferenza senza eguali, quella, una sofferenza che non poteva essere placata in maniera normale, perché sebbene il sangue fosse la soluzione primordiale per le creature della notte, lei non apparteneva a questa categoria così come era ben distante dall’essere una semplice donna – né viva, né morta, tanto assurda che chiunque avrebbe definito la sua esistenza impossibile; ma non lei che la stava vivendo e di sicuro non Nathan che la stava seguendo.
I capelli lunghi e mossi scivolarono lentamente dal colletto quasi abbottonato, mentre Alice si chinava in basso ad allacciare le scarpe semplici e fatte di tela – oh, detestava dare nell’occhio e riteneva che gli abiti appariscenti fossero per le persone comuni, cosa che lei non era affatto in quel bel quartiere cui s’era ritrovata senza un perché logico; perciò voleva solo mimetizzarsi, confondersi con l’architettura candida e con quel brusio di sfondo che era il fulcro della vitalità di Manhattan.
Osservò l’orologio che portava al polso, lo stesso che aveva allacciato solo pochi attimi prima, e questo parve suggerirle che fosse ormai tardi e presto al contempo nel paradosso che si portava dietro da una vita e poco più, quello del Bianconiglio.
Non sarebbe andata lontano, ma neppure vicino: sarebbe riuscita a fuggire solo pochi chilometri e di certo non avrebbe abbandonato Manhattan – anche perché dove sarebbe andata altrimenti? Aveva solo bisogno di un diversivo, ecco cosa.
Abbassò lo sguardo, sentendo il suo cuore martellare alla velocità che l’inconscio impiegava per mormorare: quattro e venti, quattro e venti, quattro e venti.
Sgattaiolò fuori dall’appartamento e le sembrò improvvisamente di volare sulle ali del tempo; in un attimo era salita sull’autobus, era scesa, aveva percorso un isolato ed era salita su di un altro autobus che percorreva una direzione completamente diversa dalla precedente.

«Ce ne hai messo di tempo!» Quella voce era impaziente quanto lei.
«Non ho tardato affatto», ribatté, osservando poi l’orologio digitale che si stagliava sul suo polso sinistro, illuminato a tratti dalla luce solare che andava svanendo sempre di più – scompariva, proprio come la sua coscienza, e in un attimo era diventato pomeriggio inoltrato. «Sono solo le sei.»
«Dovevi stare qui un’ora fa, maledizione, sei una puttana ritardataria.»
Lo vide trafficare con la sua giacca, muoversi appena con gesti calcolati per poi fissare i suoi occhi castani su di lei; allora afferrò un pacchetto da una tasca interna e poi allungò la mano in direzione del suo ventre, lasciando che la droga rimbalzasse sugli addominali di Alice prima che la sua mano potesse afferrarla.
«Non prendertela», borbottò, lasciando che le dita dell’altro afferrassero le banconote piegate che ancora stringeva in mano.
«Vattene.»
Non ribatté a quell’ordine, si voltò soltanto e infilò il pacchetto sotto la camicia per poi stringersi lo stomaco fino a coprire il bozzo che si era formato.
Aveva il viso leggermente stridente con la realtà, considerando quale questa fosse: sembrava sul punto di scoppiare in un pianto disperato, con le sopracciglia aggrottate e gli occhi tristi, mentre le labbra si contorcevano – voleva solamente tornare da dove era venuta e sentiva già nella sua testa le parole di Nathan: «Come hai potuto uscire in piena crisi? Mi devi spiegare come diavolo hai fatto a finire tutta la roba che ti avevo portato due giorni fa!»
Non avrebbe saputo spiegarglielo, sarebbe rimasta in silenzio e lo avrebbe osservato con la coda dell’occhio, mentre la sua narice veniva inondata di tante piccole particelle bianche; sarebbe andata in estasi in un solo momento e avrebbe iniziato a non sentire i crampi della fame torcerle lo stomaco fino a strozzarla – ah, non vedeva davvero l’ora di tornare a casa, nel suo loculo.
Sull’autobus tossì sangue, ma fortunatamente nessuno si voltò a guardarla: era tutto così parallelamente assurdo da sembrare evanescente in quel luogo, nessuno si curava dei problemi del prossimo in una città fatta di pedine mozzicate.
La luna era ormai alta nel cielo quando Alice prese a correre lungo le scale del palazzo per rientrare nell’appartamento ancor prima che il suo corpo la ripudiasse e paradossalmente ci riuscì; si lasciò scivolare sull’uscio della porta e questa si aprì come per magia, lasciando intravedere nel suo sguardo offuscato una figura eretta e arrabbiata.
«Nathan.»
L’affanno si fece sentire nella sua voce strozzata.
«Per un pelo, principessa
Era tanto capricciosa quanto debole, eppure forte e coraggiosa al contempo – o per lo meno così si sarebbe detto a una prima occhiata se solo qualcuno avesse voluto davvero vedere da vicino la sua becera esistenza.
La sollevò da terra come fosse un sacco di patate e la vide tremare appena, mentre le sue labbra schiuse lasciavano fuoriuscire rivoli scarlatti colmi di piccoli grumi corvini; così socchiuse gli occhi, posandola sul divano, e prese a spogliarla come se nulla fosse – perché evidentemente era proprio così che doveva essere, a discapito di quello che avrebbe pensato un chi che sia era proprio così: come se nulla fosse.
I bottoni scivolarono via dalle loro asole, mentre il ventre piatto del picchio si rendeva visibile agli occhi dorati del vampiro.
«Immagina l’interessante scoperta…» disse, ma lei non rispose e Nathan sapeva fin troppo bene che non l’avrebbe fatto; pertanto sogghignò, continuando a infierire come possibile: «Un cadavere a brandelli è stato ritrovato sul marciapiede nella splendida Manhattan», fece, scimmiottando un po’ la classica voce televisiva di un qualunque algido conduttore.
«Un essere umano-non-umano che cammina e ha fame, ecco cosa sono», borbottò in un rantolo, allungando un braccio per prendere il pacchetto di droga che Nathan aveva posato accanto a lei, vicino alla sua coscia sinistra; eppure doveva attendere, doveva sentire il dolore terribile della carne lacerata – o quantomeno quello era ciò che Nathan le aveva sempre suggerito da quando aveva riaperto gli occhi nel mondo.
Gemette appena, terribilmente contrariata: non le piaceva quel processo, sembrava quasi che stesse morendo – e in effetti era vero.
«Quanti giri di parole: sei un picchio», sbuffò atono. «Martelli con le tue intenzioni come un dannato picchio e sei a dir poco fastidiosa quando decidi di fare per conto tuo. Mi chiedo come tu abbia fatto a finire la roba di due giorni fa… ma che sciocco che sono, dovrebbe essere evidente: stai peggiorando – oh, se stai peggiorando.» Nathan non era affatto di conforto – non che Alice avesse mai creduto nel contrario, ovviamente.
Si limitò a osservare il corpo martoriato della ragazza dinanzi a sé per sorridere in modo a dir poco sinistro, facendola sentire un po’ come se fosse un’incredibile scoperta medica; poi si punse il dito con un tagliacarte vicino – detestava i segni che non seguivano una loro simmetria malsana – e posò l’indice sulla pelle putrescente del ventre di Alice, scivolandole attorno al seno per poi risalire lungo il collo. Lo circondò tutto con una scia scarlatta e poi vide i suoi occhi diventare vitrei e schioccò la lingua con un leggero cinismo, dicendosi che probabilmente avrebbe potuto evitare tutto ciò se solo non fosse uscita di casa.
Sospirò appena, guardando la vita che scivolava via dall’involucro fatiscente che era quell’agglomerato umano-non-umano, ed eccola che, leggera e pesante, assumeva ancora una volta le sembianze di un corpo morto – mancante di ventun grammi.
Se solo si fosse concentrato, se solo avesse saputo come fare, di certo avrebbe riconosciuto le particelle dello spirito di Alice nel loro galleggiare per la stanza: tanti elettroni che si scontravano con gli atomi di ossigeno, con l’anidride carbonica, per delineare la sua anima marcia.
La rimise in sesto con qualche tocco, disegnando sulla sua pelle simboli contorti che lei non avrebbe mai conosciuto davvero e che per lui, contrariamente, avevano più che un semplice significato; allorché il corpo tornò a essere pallido e composto, perfetto come lo era la mattina in cui lui era diventato una mummia.
La sentì annaspare e vide i suoi occhi tornare attivi, lontano dal tunnel in cui erano avvolti poco prima, lontano dalle riflessioni che solo lei poteva fare.
«Accendo la televisione», avvisò senza particolari emozioni, meccanicamente avviluppato in quella solita routine.
«Va bene.»
Alice non aveva freddo, eppure cercò i suoi abiti a tentoni, chiudendo la camicia bianca sul suo addome e abbottonandola lentamente a causa di quella sensazione di disagio prorompente, quella che si faceva sempre largo in lei nelle prime ore della sera, quando Nathan la teneva appesa a un filo neanche fosse una stupida pallina di Natale; ma presto se ne sarebbe andato, l’avrebbe lasciata quando sarebbe stata in grado di badare a se stessa con una scorta di piccoli flaconcini di sangue marcio che gli apparteneva, o per lo meno quella era la favola che Alice continuava a ripetersi incessantemente.
Scosse la testa, nuovamente nel suo mondo che, vero e rancido, sapeva di realtà; poi afferrò la cocaina con un motto d’irritazione e tracciando due strisce bianche sul tavolinetto che la separava dalla televisione sentì uno scoppio di risa.
Si umettò le labbra per scorgere su di esse quella linfa vitale che Nathan lasciava tutte le volte su di lei – un marchio, diceva – così si portò un braccio al viso e con il polso cancellò il macabro disegno del vampiro per sentirlo sbuffare in tutta risposta.
«Anche se non parli ti lamenti in continuazione.»
«Anche tu ti lamenti.»
La striscia numero uno era sparita nella sua testa e presto la seconda l’avrebbe seguita senza obiezioni.
«No, io trovo semplicemente noioso doverti rimettere in piedi tutte le volte», gracchiò. Non era veramente noioso, bensì stancante come portare un animale non desiderato a fare una passeggiata al parco.
Nathan non provava nessun tipo di affetto nei confronti di una creatura come lei, lo sapeva perfino Alice e non si era mai illusa del contrario perché fondamentalmente non le interessava: fintanto che l’avrebbe ricomposta, fintanto che avrebbe continuato a tenere gli occhi fissi sul mondo circostante, tutto il resto rimaneva una barzelletta.
Il motivo che spingeva Nathan a renderla ancora una bambola rotta in grado di parlare, però, era parallelamente distorto e lei non riusciva a raggiungerlo, meno che mai a immaginarlo.
«Non porre domande delle quali potresti pentirti», sbottò aspro, arricciando di poco il naso nell’osservarla. «Non do risposte a chi le cerca così ossessivamente da risultare apatico.»
Il discorso era chiuso ancor prima di essere stato preso in mano da Alice, o per lo meno così aveva fatto in modo che fosse, tappandole la bocca con qualche frase casuale e minatoria.
Ora che la fame era svanita, la testa della ragazza aveva preso a vorticare lentamente e le sue mani si allungarono sino a toccare quelle del proprietario di casa in una muta supplica che aveva un briciolo di paradosso nel suo complesso – e cosa non lo aveva in tutto quello?
Lui si allontanò subito e la sentì grugnire appena in quel tentativo sciocco di disperarsi sempre più forte per attirarne l’attenzione, dopodiché non svanì dietro la porta del suo stesso attico e anche lì, a quella distanza, continuò a sentire le voci lontane della televisione farsi sempre più forti non solo nella coscienza ma anche nelle orecchie: martellavano pesantemente come se lo pizzicassero in diversi punti del corpo, lo tormentavano, e l’artefice di quella beffa era proprio il pollice di Alice che, premuto sul tasto del telecomando, lasciava librare il volume nelle sue volute più inquietanti – si alzava, diveniva sempre più alto e rimbombava nel timpano di Nathan con dispetto.
Alice era una principessa capricciosa che abitava in un attico della splendida Manhattan, una principessa che, come tutte le principesse che si rispettino, era risorta dalla sua morte: era Biancaneve, era Aurora, era tutto e niente; Alice era tutto questo e molto altro ancora.
Sentì la porta gracchiare sui suoi cardini e vide di nuovo il furente sguardo di Nathan.
Detestava terribilmente quei discorsi, odiava sapere che la gente ne parlava ancora dopo vent’anni, ma sembrava che fosse un argomento da conversazione importante quanto la politica – in effetti lo era stato all’inizio, non poteva negarlo, eppure lo infastidiva.
Vent’anni di opinioni. Vent’anni di follie. Vent’anni di falsi buonismi.
«Spengi quella merda.»
«L’ho fatto apposta», ridacchiò come un bambino che aveva appena fatto una marachella, quasi come se il vampiro non lo sapesse già di suo o non l’avesse inteso; Alice, con il suo splendido viso delicato, lei, la bambola di porcellana vuota e piena al contempo, la bambola rotta che Nathan custodiva da svariati anni, si stava letteralmente prendendo gioco del suo creatore – del suo aguzzino e del suo salvatore, qualunque cosa fosse.
Lo vide scuotere appena la testa prima di allungare un braccio nella sua direzione con le dita mollemente ricurve e batté le palpebre un paio di volte prima di rendersi conto di quello che aveva di fronte: le stava porgendo la mano.
«Vieni?» Domandò imperioso senza voler perdere tempo in inutili convenevoli, osservando la reazione di Alice che parve ghignare soddisfatta nel constatare come il tempo le avesse insegnato a comportarsi in certe situazioni: quando desiderava qualcosa dagli uomini, infatti, pareva riuscire sempre nel suo intento – e non con sensualità, non vendendo il suo corpo ai quattro venti, ma con astuzia: quella finissima arte che aveva appreso giorno dopo giorno dagli occhi di Nathan.
«Ovvio, aspettavo che me lo chiedessi, razza di scimmione.»
Pigiò il tasto del telecomando e la luce blu neon rimase accesa nella tondeggiante spia del televisore, poi lasciò l’aggeggio elettronico sul divano e si alzò per raggiungerlo, afferrando per quella mano tesa e tirandolo via, fuori dall’attico, senza badare ad altro che alla propria risata improvvisamente felice.
   
 
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