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Autore: HellWill    08/03/2014    4 recensioni
Aykir è il Prescelto: deve uccidere la Bestia, ed è stato mandato sulla Terra dagli déi proprio per questa missione.. o almeno, Aykir è stato cresciuto convinto di ciò dai suoi precettori: infatti, il ragazzo non è mai uscito dalla villa in cui è cresciuto.
Sue è una ragazza catapultata in un mondo che non conosce per via della guerra che imperversava nella sua Dimensione: sapeva bene di essere stata adottata dalla madre che aveva sempre conosciuto, ma.. addirittura venire da un altro mondo?
Questi sono i primi 2 capitoli di "Soffitti Sconosciuti", e valgono come anteprima del primo volume che è stato pubblicato su Amazon e Blurb.
Buona lettura!~
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sentieri Sconosciuti'
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I
Aykir
Primo soffitto:
Villa di Perses


 
alba del 24 Aeda 684 d.C.
«Sono un uomo, ormai. E non sono diventato un uomo crudele, né maligno».
«Se fuggirai, lo diventerai».
«Se fuggirò, diventerò solo un uomo libero».

Non riusciva a pensare a nulla se non a quei discorsi, immaginari certo, ma plausibili, che avrebbero avuto luogo di lì a qualche ora. Le sue schiave dormivano ancora, lì nella stanzetta attigua alla sua, da cui veniva un calore spaventoso ed un’umidità odorosa di donne fertili.
Aykir non era mai stato un grande intenditore d’arte, eppure in quel momento apprezzò che gli architetti saraghi avessero tenuto in mente il caldo che pesava perennemente sugli edifici dello Stato di Saragà, nei deserti stepposi e persino sulle montagne, dove si trovava Perses, l’ultima piccola città prima del confine con il Regno Sayn, e sull’altopiano sul quale era appoggiata la Villa in cui viveva. Il modo in cui gli edifici fossero decorati da decine e decine di archi era pratico solo per quello, tuttavia, perché il resto del tempo gli schiavi lo passavano a chiudere o tentare di domare le tende di seta o lino che svolazzavano ovunque.
Il ragazzo non aveva esattamente idea del perché, ma gli archi lunghi e sofisticati della Villa di Perses gli piacevano: sarà che anche lui si sentiva alto ed elegante al solo guardarli, a dispetto del fatto che fosse alto poco più di una iarda e mezzo circa – si era fatto misurare in altezza, pochi mesi prima: non superava una iarda e sette decimi, e ciò lo frustrava: era un’altezza comune, anzi, per avere la sua età era persino basso. Fece qualche passo avanti ed indietro, e in quel momento le schiave si svegliarono: si sbrigarono a lavarsi e lo ossequiarono con scuse ed inchini con il naso fino a terra per non essersi alzate prima di lui.
Aveva evitato di far rumore proprio per non essere infastidito dalle due serve, quindi fece una smorfia e le cacciò via con malagrazia, senza neanche parlare, afferrando quella bionda per un braccio e sbattendola contro la mora, più alta e magra, con durezza: faceva troppo caldo per pensare di vestirsi e, completamente nudo, entrò nella piccola stanza da bagno: come per la propria camera, questo non aveva pareti che non fossero per supportare archi di lucido marmo bianco, e lucide piastrelle di marmo bianco con venature azzurre e cangianti ne coprivano il pavimento. Si mise sul bordo della propria vasca interrata, che profumava di miele come ogni mattina: con i piedi al fresco stava già molto meglio, e non osava immaginare il caldo che avrebbe fatto più avanti nella giornata, se prima dell’alba c’era già afa come sotto l’altopiano.
Per ignorare ancora l’urgenza che sentiva battergli nel petto accanto al cuore, a ritmo dissonante, decise di osservare il panorama al di là degli archi: a nord poteva vedere i profili dei monti che, ancora scuri, aspettavano la luce del sole ed erano percorsi da decine di formichine: uomini e donne che si muovevano sui loro terrazzamenti, per coltivare qualcosa da quel terreno brullo e riarso. La stessa cosa era ad est, ed Aykir fremette mentre si lasciava scivolare nella sua vasca, osservando il soffitto: il marmo bianco degli archi si fondeva in una specie di decorazione floreale, in foglia d’oro; era alla maniera dei saraghi, popolo raffinato ed elegante, e gli ornamenti dorati si fondevano poi in un fiore al centro della piccola stanzetta rotonda: il soffitto era uguale a quello della sua camera, e Aykir chiuse gli occhi finché un rumore dall’arco che separava la sua camera dalla stanza da bagno non lo riscosse.
Le schiave si affacciarono timorose dalla sua camera; lui ignorò ciò che il loro silenzio voleva lasciar intendere, quell’ansiosa richiesta di assolvere alle proprie mansioni che tutti gli schiavi che Aykir avesse mai conosciuto sembravano provare, e le osservò pigramente nell’acqua: quella mora era poco più bassa di lui, con gli occhi dorati, molto diversi da quelli ambrati di Aykir; quella bionda – com’è che si chiamava? Sor? faceva sempre fatica a distinguerle, ma se così fosse stato l’altra doveva chiamarsi Ana – aveva gli occhi rossi e leggermente gonfi, come avesse pianto, e l’anellino al suo mignolo gli confermava invece che era l’odalisca di un qualche insegnante. Alle volte, Aykir si dilettava a tirare ad indovinare quale tipo di schiave ogni suo maestro preferisse; era quasi certo che il maestro Trevor, ad esempio, le preferisse giovanissime e in carne… come la sua Sor, insomma. Quanti anni poteva avere, lei? Quindici, proprio a voler abbondare.
Distolse lo sguardo da loro, come per un tacito consenso, e si immerse completamente nella vasca, lasciando poi che lo lavassero mentre lui osservava le montagne che finalmente ad est iniziarono a rischiararsi di un fioco bagliore… e il cielo si illuminò di splendore.
Era un fenomeno comune, ma nessuno sapeva perché accadesse: c’erano tante speculazioni, ma il perché la volta celeste, nell’esatto momento in cui i primi raggi del sole fendevano l’aria notturna, si illuminasse di un lampo multicolore, rimaneva un mistero. Quel lampo poteva durare da un istante a qualche fugace secondo, per cui gli studi che erano stati fatti in materia erano tutti vaghi; ci si era abituati, lì a sud di Saragà: i contadini non stavano a chiedersi perché il cielo diventasse multicolore all’alba, quando dovevano preoccuparsi di coltivare per non morire di fame. Ma per Aykir, che passava le sue giornate studiando, leggendo ed allenandosi, era fra i grandi misteri del mondo in cui viveva, e lo affascinava tantissimo… si riscosse da quei pensieri solo quando il sole gli ferì gli occhi, e le schiave gli porsero dei teli di lino per asciugarsi, abbassando la testa e chiudendo gli occhi per non guardarlo.
Com’erano pudiche! Eppure poteva dire con certezza che entrambe non erano illibate… figurarsi se a lui erano concessi lussi simili. Si divincolò con rabbia dalle loro mani sottili e le cacciò via con un gesto seccato, rimanendo a guardar l’alba per qualche istante ancora, con quell’impazienza in petto che non gli dava tregua.
Finalmente, tutto prese colore: la sua stanza da bagno si illuminò di rosa e rosso come i raggi del sole nascente, la sua camera rifletté tali raggi illuminandosi di un lilla bizzarro, intenso, man mano che le tende e le venature del marmo azzurrine erano trapassate dalla luce.
Alla Villa di Perses, ogni piano aveva dei colori precisi: il suo aveva tende dei colori dei suoi capelli, lilla e azzurro; quello dei maestri aveva tende verdi e dorate, simbolo di saggezza e onore, mentre il piano terra, quello delle sale in cui lui studiava o si allenava, aveva tende viola, blu e bianche. Il maestro Dempsey gli aveva una volta spiegato che ogni colore aveva un significato, ma non ricordava quale fosse la sua spiegazione riguardo le tende del piano terra.
Suo malgrado, l’ansia delle schiave lo contagiò e alzando gli occhi al soffitto decorato d’oro, l’unico che avesse mai conosciuto, si lasciò vestire: lo avvolsero in un lunghissimo scialle di seta che gli fasciava le gambe, la vita e si teneva su una spalla, e sulle fasce infilarono delle braghe, lunghe sopra la caviglia, come tutti i vestiti quotidiani Saraghi; Aykir lasciò scivolare immediatamente la fascia di seta porpora dalla spalla intorno alla vita, dove iniziavano le braghe: non l’aveva mai sopportata, e preferiva restare a petto nudo.
Ana e Sor batterono in ritirata, sconfitte come sempre, e Aykir restò da solo ad aggirarsi come un animale in gabbia: non aveva intenzione di andare a lezione, perché quella mattina doveva attirare nelle sue stanze il maestro Trevor, in maniera da potergli parlare. Non andare a lezione era solo il modo più facile perché fossero loro a cercarlo, e non il contrario.
Sorrise appena, fra sé, e si guardò intorno: quella stanza era stata la sua prigione troppo a lungo; la sua camera gli era sempre sembrata spoglia, nonostante gli avessero di tanto in tanto permesso di scegliere un qualche mobile nuovo: negli ultimi anni aveva infatti guadagnato dei morbidi cuscini sui quali leggere, e un divanetto senza schienale sul quale distendersi a mangiare; tuttavia, quando aveva chiesto che di avere una mappa del mondo conosciuto, anni prima, gliene avevano data una così consunta che gli era sembrato uno scherzo – insomma, doveva esserlo per forza, no? –, ma aveva dovuto accontentarsi, con un tavolino di neanche un braccio quadrato su cui poggiarla, e una sedia poco comoda. C’era un solo tappeto per terra, così vecchio che a stento si distingueva il disegno o addirittura i colori, ormai quasi tutto color marrone chiaro come la lana utilizzata per tesserlo… ma a lui non importava, perché ricordava ancora quando ci giocava da piccolo, ed era pressoché l’unica cosa vecchia; ai piedi del letto a baldacchino, situato più o meno al centro della camera, c’era la cassapanca in cui teneva le sue cose: vestiti, sandali, un paio di stivali per quando andava a cavallo, e una vecchia sacchetta che di solito soleva ignorare… e lei, la statuina a forma di cavaliere: c’erano due messaggi residui, e il ragazzo pronunciò le due parole magiche per ascoltarli con impazienza crescente.
«Mio Principe, sono ai confini di Saragà, in attesa della verifica dei documenti. È notte fonda», recitava il primo, nella vocina sottile di Sibath.
«Sono a Perses. Mancano due ore all’alba, inizio la salita alla Villa», recitava il secondo, e Aykir fremette: questo poteva voler dire che Sibath sarebbe arrivato da un momento all’altro. Si alzò di scatto, chiudendo la cassapanca con un gran tonfo, e si appoggiò all’arco della sua camera che dava sul mare: adorava quella vista, era letteralmente spettacolare, eppure non gli era mai stato permesso di uscire a toccarlo o vederlo di persona… Era una delle cose di cui si sarebbe appropriato, andando via.
Libertà.
Il solo pensiero di quella parola gli fece accapponare la pelle: libertà. Sarebbe stata una libertà piena di doveri, ovviamente, ma quante cose avrebbe potuto fare! Incapace di stare fermo, girovagò per la camera e le due schiave lo osservarono dal loro stanzino, nervose semmai più di lui, perché tendeva ad essere più irritabile e brusco quando era impaziente.
Decidendo autonomamente di calmarsi, si sedette sull’unica sedia della stanza, accanto alla cartina, e giocherellò con la statuina del cavaliere che ormai presentava le fattezze quasi consumate dall’uso, perfettamente levigate dal continuo passaggio delle sue dita: conosceva ogni protuberanza di quella statuetta, lunga all’incirca quanto il palmo della sua mano: era di giada verde scurissimo, con venature bianche, ed era incantata: grazie ad essa infatti poteva comunicare con il suo unico amico alla Villa nonché la sua spia nel mondo conosciuto, Sibath. Quest’ultimo era un Fajh: una specie di folletto dalla pelle coriacea e verde, iridescente delle più ricche sfumature di viola, azzurro e dorato… proprio per quest’ultimo erano conosciuti come “folletti dorati”, nonostante il colore predominante nel suo amico fosse il verde. Sibath era arrivato alla Villa di Perses in condizioni pietose: Aykir lo ricordava come fosse ieri, lui aveva dieci o undici anni e aveva imposto ai maestri di non trattarlo come uno schiavo, ma come un suo pari… che forse era peggio, ripensandoci da adulto.
In ogni caso, avevano ricevuto un addestramento complementare, dove ad Aykir insegnavano la potenza e la forza, a Sibath preparavano l’agilità e la velocità: per questo una volta diventati entrambi adulti – Aykir a quattordici anni, Sibath a quattro – entrambi avevano deciso che, non essendo Sibath confinato in quell’edificio, avrebbe fatto da raccoglitore d’informazioni per il ragazzo sino a nuove disposizioni… e le nuove disposizioni sarebbero presto arrivate.
«Sarò i vostri occhi e le vostre orecchie, mio Principe» gli aveva giurato il folletto, quando stavano per separarsi per la prima volta, e gli aveva donato quella statuetta impregnata della sua magia: grazie ad esso potevano comunicare a distanza, seppur con brevi frasi concise. Costava infatti molta energia compiere un incantesimo che trasportasse per lunghe distanze delle parole, gli aveva spiegato Sibath, per cui Aykir si limitava a ricevere brevi notizie o anticipazioni di esse, scalpitando come quel mattino. Sorrise pensando che ancora al Folletto capitava di chiamarlo “Principe”; non che lui fosse un vero principe, affatto, ma il caso voleva che la razza dei Fajh valutasse molto l’onore, al punto da istituire una scala gerarchica nelle proprie colonie basata su di esso: la loro massima carica era appunto il “Principe”, reputato il Fajh più onorevole nella colonia. Aykir si era guadagnato il titolo salvandolo da una vita di schiavitù, ma tale titolo valeva solo per Sibath, per cui era il suo Principe… e di nessun altro.
«Aykir, perché non ti sei recato a colazione?» la voce profonda del suo maestro lo riscosse così improvvisamente dai suoi pensieri che il ragazzo si voltò di scatto, come colto sul fatto.
«Desideravo parlarvi, maestro».
«A proposito di?» l’uomo inarcò le sopracciglia cespugliose e ormai quasi del tutto grigie, mentre i capelli e la barba restavano solo striati di grigio, lì dove il castano aveva fallito la propria battaglia.
«Prego, sedete» il ragazzo si alzò velocemente, per cedere il posto al maestro, che lo guardò accigliato e non si mosse di un passo, restando a guardarlo dall’ingresso; che avesse ormai capito che lo aveva attirato lì con l’inganno? Aykir sorrise appena, come per scusarsi, e cominciò: «Sono un uomo, ormai».
«Sei un ragazzo» lo interruppe aspramente l’uomo, e il ragazzo prese a misurare il tappeto a grandi passi, nervosamente.
«Ho diciassette anni, alla mia età Maeus il Costruttore aveva eretto mezza Ther» ribatté calmo, e da quanto Sibath gli aveva riferito durante i suoi viaggi preliminari, l’età a cui i ragazzi si sposavano era fra i diciotto e i venti… per le ragazze, poteva essere anche molto prima.
«Tu non sei Maeus il Costruttore» ribatté pacatamente il maestro Trevor, scuotendo piano il capo, e gli abiti di pelle che indossava scricchiolarono quando si passò una mano sul viso. «Aykir, cosa stai cercando di dirmi?».
«Voglio uscire. Andarmene» Aykir lo guardò con fermezza, un fuoco che gli ardeva negli occhi ambrati.
«No» l’uomo si voltò, come per andarsene, ma Aykir fece un passo in avanti, tendendogli le mani.
«Sono un uomo! Non sono un uomo crudele, né maligno!» insistette, come si era preparato a dire.
«Abbiamo già affrontato questo discorso. Lo diventerai, lì fuori il mondo non è come nei libri» il maestro si voltò e i suoi occhi erano pieni di… compassione? Ciò fece bruciare ancor più l’orgoglio di Aykir, che abbassò le braccia e si ricompose.
«Diventerei solo libero, se fuggissi» scandì, guardando negli occhi l’uomo, che per qualche istante restò in silenzio; quello scambio di sguardi restò fra di loro per la durata del silenzio, dopodiché fu Aykir a distogliere gli occhi per primo. «Credevo di essere destinato a grandi cose, di dover diventare un eroe. Invece… tutto ciò è semplicemente senza scopo. L’addestramento, la strategia, le letture… tutte per tenermi buono?».
«Tu sei destinato a grandi cose, Aykir» il maestro gli si avvicinò e pose le mani sulle spalle magre e nervose del ragazzo, spingendolo a sollevare lo sguardo ferito. «Solo… non ancora. È troppo presto. Temiamo che moriresti, lì fuori… ci sono cose più grandi di chiunque di noi».
«Ma tutti voi le avete affrontate, a vostro tempo» incalzò il ragazzo, e indicò il mare che si intravedeva al di là degli archi. «Almeno andare a vedere il mare! Accompagnato da un maestro, o da chicchessia! Non riesco più a stare… qui, chiuso dentro, come un uccello in gabbia» il ragazzo abbassò lo sguardo e la testa, così che la cascata di capelli lilla-azzurri formasse una specie di scudo fra lui e l’uomo, sentendosi indifeso a così poca distanza.
«Aykir. Sei destinato a grandissime cose, cose che nessun essere vivente aspirerebbe mai a fare nella sua vita; sei il prescelto dagli déi, e vorresti semplicemente vedere il mare? Interrompere i tuoi addestramenti, la tua preparazione, per una cosa così infima?».
Un bruciante senso di vergogna si fece strada nel petto di Aykir: era così che sembrava? Riflettendoci bene, forse l’intera idea era una cosa infima, un… no, non doveva farsi distrarre. Ma non eliminò quell’espressione colpevole dal viso, sentendo persino affiorare delle lacrime di vergogna.
«Scusate l’impudenza, maestro. Non chiederò mai più una cosa del genere» mormorò appena udibile, tanto che il maestro strinse le mani sulle sue spalle nel chinarsi per sentirlo, dopodiché gliene batté una sulla schiena mentre l’altra lasciava la presa.
«Sei un ragazzo impaziente; quando avrai dominato te stesso, potrai uscire senza che noi temiamo per te» sorrise l’uomo. Aykir annuì, dopodiché esitò:
«Sta tornando Sibath; posso restare ad aspettarlo? Oggi pomeriggio farò il doppio» promise, alzando di nuovo lo sguardo, stavolta supplichevole. Il maestro valutò la cosa, severamente, poi sorrise appena:
«Per quanto mi riguarda puoi rimanere qui tutta la mattinata: hai allenamento con me e con maestro Siseal solo nel pomeriggio» confermò il permesso, e il ragazzo sorrise appena, grato. Così si congedarono, e Aykir tornò a sedersi davanti alla mappa, dandovi un’occhiata distratta: Saragà era piccolissimo in confronto agli altri Regni… lo colpì solo quello. Ordinò ad Ana e Sor di andare a prendergli la colazione, poiché non voleva parlare con Sibath se non nella sua camera… ed aspettò.
Non ebbe da aspettare molto, in realtà: non appena ebbe finito di mangiare, Sibath si presentò sullo stipite della camera, sorridendo.
«Principe!».
«Sibath!» ricambiò il sorriso, alzandosi in un sol gesto dal tappeto e lasciando che il folletto gli abbracciasse le gambe: in quanto a fattezze somigliava in tutto e per tutto ad un bambino di cinque o sei anni. «Allora, com’è andato il viaggio? Sei ferito?» chiese, prima di ricordarsi che l’amico non poteva ferirsi: la sua ‘pelle’ era in realtà un coriaceo esoscheletro, come quello dell’insetto da cui discendeva.[1] Quindi, poteva al massimo essersi procurato un qualche graffio, che infatti il Fajh mostrò con un una smorfia divertita:
«Non sono mica delicato come voi, che lo scheletro ce l’avete dentro» ridacchiò, e poggiò la propria statuetta sul tavolino della mappa: si trattava della testa di un drago, intagliata anche quella dal folletto stesso nella giada per comunicare e ricevere messaggi con Aykir, che a quel punto era piuttosto impaziente.
«Cosa hai raccolto, dunque?».
Sibath fece un sospiro e Aykir gettò uno sguardo alla stanzetta delle schiave, separata dalla propria solo da un pesante tendaggio.
«Ana, Sor» le chiamò in tono duro, e loro si affrettarono ad uscire e stare lì, davanti a lui in attesa di ordini. «Andate a lavorare dove è richiesto. Non ho bisogno di voi, qui» fece una smorfia, congedandole, e le due si allontanarono per l’unico corridoio del terzo piano, a passo affrettato ma non correndo. Il ragazzo aspettò di vederle sparire giù per la scalinata, anch’essa di marmo, ben oltre il panneggio di seta azzurra che separava la stanza dal corridoio, dopodiché lo chiuse con dei piccoli pesi e si inginocchiò accanto a Sibath, così da vedere la mappa ma essere al contempo allo stesso livello del folletto.
«Ho attraversato tutto lo stato fino a Punta di Saragà per prendere una nave, ovviamente questo lo sapete» cominciò il Fajh, alludendo ai brevi messaggi che si erano inviati: quel viaggio era durato diversi mesi, dunque c’erano state delle tappe.
«Sì, per andare nel Regno di Mame» lo incalzò. «Succede qualcosa di particolare a Saragà, che c’è bisogno di questa premessa?».
«Nulla di particolare: feste, balli, cene nelle ambasciate, la solita solfa… fino, appunto, a Punta di Saragà. Mi sono infiltrato al Settimo Palazzo di Stato durante una festa e ho potuto notare una certa irrequietezza: c’era un’ospite di Mame che.. beh, era particolare. Era solo una contessina, ho recepito, ma aveva una certa importanza per via di alcuni accordi commerciali».
«Che tipo di accordi?» il ragazzo aggrottò le sopracciglia, curioso.
«È lei, pare, che fornisce a Saragà l’intero patrimonio di ingredienti magici provenienti da.. be’, non umani» Sibath sembrava a disagio, ed Aykir restò in silenzio a guardare fisso la mappa, per non incrociare i suoi occhi viola. «In ogni caso,» il folletto si schiarì la voce esile «questa contessina sembrava sapere il fatto suo, e quando sono salpato lei stava girando per il porto come se cercasse qualcuno. L’ho riconosciuta per il profumo, era lo stesso che aveva alla festa . Nel Palazzo di Stato girava inoltre voce, dopo la festa, che questa signorina stia radunando creature magiche da tutto Mame, che siano esse libere o schiavi, ma non per gli accordi commerciali» poi scrollò le spalle. «Non so se aveva importanza, ma… beh, l’ho appuntato ugualmente. In nave è stato tutto tranquillo fino al Regno di Mame, dopodiché mi sono unito ad una carovana di mercanti che viaggiava verso Ther: il popolo è scontento della nuova liberalità e delle leggi sui non-umani, che ne proibiscono l’immediata cattura o l’uccisione semplicemente in quanto non-umani. Sono leggi di circa pochi anni fa, ma la notizia inizia a circolare a sud solo ultimamente… quindi ho mollato i mercanti e sono andato verso sud, dove non mi ero mai addentrato per ovvie ragioni» si prese velocemente una ciocca di capelli multicolore e sorrise appena, mentre Aykir ricambiava il sorriso.
«Sai dirmi se ci sono notizie che ci interessano?».
«A sud, non molte: ci sono dei draghi del grano che infastidisce alcuni villaggi, qualcuno ha riferito di un drago al centro di Mame, qualcun altro ha smentito, ma nulla di realmente allarmante, almeno non fino a che dovevo andarmene… allora, come sempre, ci sono state le voci più interessanti» ironizzò, e Aykir scosse il capo, aggrottando le sopracciglia.
«Vieni al dunque».
«Ero a due giorni da Therport quando da un paio di altre carovane di mercanti, che scendevano da Ther, ho ricevuto notizie riguardanti una creatura descritta come un orso alato – o un drago peloso –, che con una zampa può schiacciare una casa e che può ingoiare un uomo in un sol boccone» Sibath si strinse nelle spalle e osservò il ragazzo con sguardo critico. «Non credo sia questa la creatura da cui iniziare le nostre indagini, anche se…» il folletto esitò.
«Anche se?» lo incalzò, con il solito fuoco irrequieto negli occhi.
«…anche se nessuno riferisce di aver mai visto una creatura del genere al di fuori dei villaggi che ha colpito, che quando me ne sono andato erano già due. Come se sparisse nel nulla e rispuntasse altrove» sospirò, e il ragazzo sorrise come se l’amico potesse già capire cosa pensava.
«Vedi? Lo vedi? Lo sapevo che era quella la Creatura».
«Non possiamo saperlo. Potrebbe essere una cosa come un’altra, un goblin che si diverte a seminare il panico» protestò Sibath, alzandosi sulla sedia mentre Aykir si alzava: così erano a pari altezza, e si guardarono negli occhi in tensione, ma poi il ragazzo sussurrò, con un sorriso inebriato:
«Voglio scappare da qui, Sibath. Stanotte».
Il Fajh spalancò gli occhi e lo fissò in silenzio, troppo stupito per parlare, ma quando recuperò l’uso della parola l’unica cosa che disse fu: «Eh?».
«Voglio andarmene, uscire, l’ho chiesto stamattina al maestro Trevor, prima del tuo arrivo. Gli ho fatto intendere che ero remissivo e pentito della richiesta… come se avessero ancora qualche influenza su di me» mormorò, perché gli sembrava che chiunque potesse sentirlo se parlava più ad alta voce, tanto che Sibath vicino com’era dovette chinarsi leggermente per distinguere tutte le parole.
«Ci sto» rispose il Fajh, sorridendo appena, poi però tornò serio. «Anche se penso che sia un’idea stupida, ci sto: devi uscire, e vedere com’è bello il mondo. Addestrarti non serve a nulla, se non puoi far valere ciò che ti insegnano» si strinse nelle spalle, poi scese dalla sedia e prese a misurare il tappeto con i suoi passetti veloci, come se stesse ancora considerando l’idea, poi chiese: «Qual è il piano?».
Aykir sorrise feroce.
 
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notte del 24 Aeda 684 d.C.
Nel momento stesso in cui percepì che le schiave stavano dormendo, Sibath scivolò giù dal letto mentre Aykir restava sdraiato ma vigile sotto le lenzuola leggere; veloce e silenzioso, il folletto entrò nello stanzino e imbavagliò le due ragazze, legandole ai loro letti: lo implorarono con lo sguardo, terrorizzate, quando fece loro segno di non far rumore, e Aykir gli sorrise appena mentre usciva dallo stanzino: si alzò anche lui e iniziò a vestirsi da solo, così eccitato e nervoso che le mani gli tremavano.
Sibath si diresse al piano degli schiavi, interrato e nascosto dagli sguardi com’era giusto che fosse, sistemati insieme alle cucine e alla ghiacciaia; quando tornò, Aykir era vestito e stava selezionando dei pezzi di stoffa da avvolgere attorno agli zoccoli dei cavalli, che lasciò cadere a terra quando vide Sibath di ritorno con due borse, di cui una pericolosamente gonfia, e un mazzetto di chiavi.
«Chiavi di emergenza» sussurrò, ridendo appena, e Aykir sorrise raggiante: con quelle poteva aprire il secondo piano e procurarsi una mappa e dei soldi… nonché le chiavi dell’armeria.
«Vado» mormorò, mentre Sibath annuiva: era stato scontento quando Aykir gli aveva proposto di andare lui stesso sul piano dei maestri, ma il ragazzo aveva voluto evitare che lo cacciassero, se mai l’avessero scoperto… e il folletto non aveva potuto far altro che dargli ragione: Aykir sarebbe stato punito, lui sarebbe stato punito e cacciato: non era qualcosa che i due avrebbero potuto sopportare.
«Aykir!» sibilò il Fajh, e il ragazzo si voltò, mentre l’amico gli metteva in mano un incarto. «L’ho presa durante l’ultimo viaggio, è una polvere sonnifero: soffiala sul viso di maestro Siseal, ha il sonno leggero».
«E questo come lo sai?» Aykir aggrottò le sopracciglia chiare, e Sibath ghignò.
«Una volta si addormentò nelle stalle, entrai senza vederlo e lui balzò in piedi perché mi aveva sentito».
Il ragazzo restò a guardarlo, stupito, e Sibath scrollò le spalle, aprendo il cassettone e iniziando a mettere i vestiti ben ripiegati nella borsa vuota mentre Aykir scendeva le scale e sospirava, ritrovandosi praticamente di fronte la porta del secondo piano.
Non ricordava di averla mai varcata: era di marmo istoriato, tre lastre scolpite in modo da formare stupendi intrecci di viti e foglie, così che il vento potesse passare fra i buchi degli acini d’uva e potesse esserci un chiavistello a fare la guardia sul sonno dei suoi maestri. Esitò ancora un po’ davanti a quella porta, sentendosi come se stesse per violare un sacro mistero, ma una volta aperto il chiavistello una fretta e un’ansia senza pari lo spinsero ad aprire la prima porta dei maestri, pregando che non cigolasse: sotto le coperte c’era una sagoma indefinibile nel buio, ma dall’arredamento Aykir poté capire che non si trattava né del maestro d’armi, Siseal, né del tesoriere, Quek, né del bibliotecario, Jaquin. Così, lentamente, richiuse la porta e andò avanti alla seconda: Maestro Siseal si sedette sul letto, nel buio della sua camera e Aykir restò immobile, con la porta socchiusa, pregando i Tredici Déi di dargli una possibilità. Evidentemente lo ascoltarono, perché l’uomo tornò a distendersi e poco dopo russò persino, anche se poco e in maniera contenuta: il ragazzo allora avanzò, il più velocemente e silenziosamente possibile, e soffiò parte della polvere di Sibath sul viso del maestro, che parve volersi risvegliare per un attimo, ma poi cadde profondamente addormentato, come drogato. Inebriato dal fatto che il piano aveva funzionato, Aykir si alzò e chiuse gli occhi, ringraziando gli déi e iniziando a cercare le chiavi dell’armeria: le trovò sulla scrivania, e le avvolse in un panno perché non dondolassero producendo rumore: se le infilò nel piccolo tascapane e passò alla porta successiva, stando attento alla polvere… che però non si ritrovò in mano. Freneticamente si frugò addosso, nel tascapane, e vinto ritornò nella stanza di Siseal, vedendo l’incarto per terra con una buona metà del contenuto rovesciata per terra: avvilito, scosse il capo e raccolse quel che poteva, constatando che bastava o per il tesoriere o per il bibliotecario, e pregò che la porta successiva fosse quella del tesoriere, perché non avrebbe avuto l’occasione per aprirne un’altra.
Invece, si ritrovò ad evitare la porta successiva, poiché da sotto di essa penetrava un filo di luce nonostante fosse ormai scuro… chiunque ci fosse all’interno, era sveglio e lui non avrebbe potuto entrare indisturbato. La porta dopo era scura come le altre, e Aykir entrò con una tensione tale che le spalle gli facevano male: la stanza era quella del bibliotecario, un moccolo di candela sulla scrivania si era esaurito da poco, perché l’uomo si era addormentato su delle carte. Aykir gli soffiò sul viso la polvere, per far sì che non si svegliasse facilmente, e deluso passò in rassegna tutte le cartine che l’uomo aveva nella sua camera, scegliendone una di Saragà, una di Mame e una dei Tredici Regni.
Dopodiché, il suo tempo era scaduto e Aykir percorse in fretta, a piedi nudi, il corridoio dei maestri: richiuse la grande porta di marmo a chiave e tornò di sopra, dove Sibath lo attendeva: frugò per trovare le chiavi dell’armeria e disse senza esitare:
«Dovremo portarci dietro le due schiave».
«Cosa?».
«Sì, la polvere l’ho usata in massiccia quantità per Siseal, che era mezzo sveglio quando sono entrato… Quindi non ce n’era per Quek, il tesoriere, che comunque era sveglio tanto da tenere una candela accesa» mentì tutto d’un fiato.
«E cosa pensi di fare di due schiave?» ringhiò il folletto, pestando un piccolo piede a terra.
«Venderle, che domande» Aykir inarcò un sopracciglio, e Sibath aprì appena la bocca, senza che una parola ne uscisse.
«Starai scherzando, spero» sibilò il Fajh, e il ragazzo arretrò.
«È l’unica soluzione che mi venga in mente!» protestò, e il folletto restò immobile, infuriato.
«E sia. Le venderemo» borbottò per niente d’accordo, strappandogli le chiavi di mano e dirigendosi a due piani più sotto, all’armeria e poi al cancello, mentre Aykir prendeva le due borse, Ana e Sor.
La compagnia si diresse così alle stalle, mentre le due schiave piangevano in silenzio, e Aykir sellò i cavalli, svegliandoli prima con delle piccole carezze sul muso. Passò poi a mettere ai loro zoccoli le pezze, per attutirne il rumore, e attese che la statuetta che aveva nella fascia dei pantaloni diventasse calda – il segnale che attendeva da Sibath – per condurre i cavalli fuori dai cubicoli, farvi montare sopra le due schiave e dirigersi al cancello principale, che varcò con un rumore attutito e sbuffi della sua giumenta e del veloce cavallo isarniano che aveva Sibath.
«Andato tutto bene?» si informò in fretta, e Sibath annuì mentre Aykir indossava la propria cintura, alla quale c’erano attaccati la sua spada da una parte e un paio di pugnali dall’altra.
«Sì, sì, ora chiudo il cancello e ce ne andiamo di qui» il folletto tirò a sé i due battenti, con un po’ di fatica, e raggiunse l’amico prendendo le redini del proprio cavallo.
Condussero i cavalli al passo per un tempo che parve loro infinito, fra le creste di roccia e il terreno brullo dell’altopiano su cui era situata la Villa: l’avevano chiamata così perché era troppo piccola per essere un palazzo, e troppo grande per essere una casa. Il suo giardino era fiorente, gli aveva spiegato il Sacerdote Dempsey, perché quel terreno era benedetto dagli déi; Aykir credeva negli déi, ma credeva anche che quel giardino fosse così verde e pacifico perché avevano importato del terreno da dove era più fertile. C’erano fontane ovunque, anche nei periodi di siccità, e i suoi schiavi erano sempre puliti; i maestri detestavano avere a che fare con cose sporche.
In ogni caso, la Villa non doveva essere più un suo pensiero: stava abbandonando tutto ciò che avesse mai conosciuto, e lasciandoselo alle spalle non avvertì null’altro che pace.
Quando furono scesi dall’altopiano attraverso i passaggi lasciati dai carri dei rifornimenti, le schiave erano quiete e con le guance rigate dalle lacrime versate prima, ma Aykir non tolse loro i bavagli: desiderava che non parlassero, che non potessero chiedere nulla, nonostante ciò gli facesse attirare uno sguardo di disapprovazione da parte di Sibath. Così, con una schiava per sella, slegarono loro i polsi perché potessero reggersi a cavallo e montarono anch’essi: la sella per umani che Sibath si ritrovò costretto ad usare per via della schiava gli era scomodo, ma era stata necessaria dal momento che sul suo normale arcione non avrebbe potuto montare nessuno oltre lui. Insieme i due amici partirono al galoppo nella notte, illuminati solo da un centinaio di stelle che, quiete, splendevano come se nulla fosse cambiato.
 
[1] C’era infatti chi credeva che fatine e folletti, e in generale tutte le creature dotate d’ali, discendessero da fiori o insetti morti… ma Aykir non credeva molto a quella teoria, non per la razza di Sibath quanto meno.


 
 
 
   
 
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