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Autore: Flaqui    09/03/2014    2 recensioni
Il mondo è diverso da come lo ricordate.
La società è moderna, avanzata, dotata di ogni genere di tecnologia e ha affrontato il problema Bomba Nucleare con la costruzione di alcune zone sicure in cui è ancora possibile vivere. In un ambiente post-apocalittico, li unici insediamenti umani ancora esistenti sono le quattro grandi Cupole, rette da un Governo irreprensibile e organizzate in delle rigide classi sociali dalle quali non si può scappare.
I Governanti, una classe sociale unicamente maschile, si occupa di offrire al Paese un sistema politico degno di questo nome. I Guerrieri, allenati nella grande scuola di Metallica, difendono il Paese da minacce esterne e interne. I Produttori svolgono li altri mestieri, occupandosi delle necessità loro e delle altre classi. Ma c'è gente che non ci sta.
"Il mondo di Melanie finisce lì, si esaurisce alle pareti di materiale invisibile della Cupola, dove l’aria è respirabile e dove, grazie all'aiuto delle macchine, qualcosa cresce ancora. Fuori dalla Cupola Melanie non sa cosa sia esistito, un tempo.
Ma sa cosa c’è adesso. La morte."
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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N/A: Non so davvero come giustificare questi mesi di assenza. Perchè è di mesi che si tratta.
Sono imperdonabile, lo so, ma purtroppo, per quanto mi piacerebbe scrivere tutto il tempo, la vita reale chiama.
Lamentatevi con i miei professori, davvero.
Spero comunque che il capitolo, che per lo meno è bello lungo, possa piacervi.
Per lo meno spero che il finale a sorpresa sia di vostro gusto!
Sono cosciente che non ricorderete assolutamente nulla di quello che è successo nei capitoli precedenti perciò...

RIEPILOGO: Rebecca arriva a Metallica per conseguire il suo allenamento e diventare un Guerriero a tutti gli effetti. Mentre inizia a comprendere meglio il funzionamento della scuola (tre livelli, Alpha, Beta e Gamma, di due anni ciascuno; un livello aggiuntivo della durata di cinque mesi, Omega, a cui possono accedere solo i 10 migliori di ogni annata e che prevede , per tre fortunati, l'ingresso ai servizi segreti della Cupola Ovest), Rebecca approfondisce la conoscenza con  Anya, una ragazzina un po' viziata con cui condivid gli anni dell'infanzia; Nicko, alla mano e con un fratello, Gabe, che fa parte dell'esclusivo livello Omega; Sandee e Cyvonne, sue compagne di dormitorio; Sean e Teks, due ragazzi del suo gruppo. Fa amicizia anche con Pyke, assistente dell'infermeria, ma quando in seguito ad una grande esplosione ad un Congresso per la pace fra la Cupola Sud e la Cupola Ovest gran parte degli studenti Gamma (coetani e amici di Pyke) perdono la vita, Rebecca prova a consolarlo, il ragazzo reagisce freddamente. John Shaw, altro membro degli Omega che li sorprende fuori dalle loro stanze oltre il coprifuoco, nonstante il suo essere sempre ligio al dovere, li copre entrambi. Melanie è invece costretta dalle ristrettezze economiche a sposarsi con Colin, Governatore della Cupola Sud, e, se in un primo momento era parsa restia ad accetare questa unione, dopo la morte di Ray (suo migliore amico e Gamma della scuola di Metallica) durante l'esplosione del Congresso, accetta di sposare chiunque suo padre voglia.





A Bess: c'è una frase per te in questo capitolo. Spero che tu capisca quale.
A Chiara, Martina, Federica e Ivana per aver iniziato questo viaggio con me.

Capitolo VII
Venticinque giri di corsa

La lezione di Medycina Base si teneva per tre ore consecutive una volta a settimana, quella di Strategia e Tattica quattro volte alla settimana e Utilizzo Mediatico tutti i giorni. La palestra era aperta per venti ore al giorno. Il Centro di Controllo dove si riunivano gli Allenatori e l’Elector di Metallica, una stanza delimitata da una parete di vetro che dava sulla palestra -da dove era possibile osservare e studiare gli studenti nel pieno dell’allenamento-, era invece attivo ventiquattro ore su ventiquattro. La mensa era accessibile per tre volte durante alla giornata: la mattina dalle sei alle sette, a metà giornata dall’una alle due e alla sera dalle sei alle otto. Il coprifuoco scattava alle dieci precise e, nelle due ore di tempo libero dopo la cena gli studenti potevano accedere a delle Sale MultiMediali o riunirsi in piccoli campanelli passeggiando verso la Piazza Delle Quattro Direzioni. Dopo le dieci una pattuglia di studenti Omega si impegnava a controllare che non ci fossero infrazioni o scorribande notturne e a mezzanotte tutte le luci del campo si spegnevano. Non era possibile entrare o avvicinarsi all’Area Natura senza un permesso scritto, mentre per gli studenti dal livello Beta in su era possibile accederci per esercitazioni o allenamenti speciali, ma solo se scortati da un Responsabile.
Rebecca, che dopo il trambusto delle settimane precedenti aveva trovato particolarmente difficile riabituarsi alla normalità, si sentiva annoiata e infastidita e questo la faceva sentire stranamente in colpa. Non avrebbe dovuto desiderare che succedesse qualcosa, soprattutto perché le cose che succedevano ultimamente erano sempre brutte, ma la vita lì a Metallica non era come se l’era immaginata e trovava difficile ricordare la lunga serie di regole e imposizioni.
Le lezioni erano principalmente teoriche e lo sarebbero state per la maggior parte del primo livello. Quando si allenava o saltellava sul posto sferrando i pugni all’aria, facendo ben attenzione alla posizione dei piedi e al modo corretto in cui stringere le dita, sentiva su di sé lo sguardo degli Allenatori, attraverso la teca di vetro. I pasti non erano diventati più digeribili e a fine giornata era sempre così stanca che la prospettiva di camminare avanti e indietro per le stesse quattro vie con le stesse persone che aveva avuto davanti tutto il giorno e che avrebbe rivisto per tutto quello seguente non l’attirava affatto. Non aveva più avuto motivo di trasgredire agli ordini dell’Elector perché non vede più Pyke di notte o vicino all’Area Natura. In effetti, non vedeva più Pyke in generale. Non sapeva come o perché, ma era come se i rapporti fra loro si fossero raffreddati. E per quanto fosse sicura di non aver fatto nulla di sbagliato e sentisse una sorta di buco nello stomaco, un mostro rigonfio che le graffiava le pareti dell’intestino, non voleva essere lei la prima a  fare un passo avanti.
Sapeva che era indelicato e stupido prendersela con lui per essere ancora così sconvolto: tutti i suoi amici erano morti. Eppure, eppure, eppure. Era un nota di sottofondo stonata su una melodia di per sé già non troppo brillante. Si sentiva inadeguata e stranamente apatica.
Erika, che era la responsabile della loro Preparazione Fisica, li faceva saltellare sul posto e si rifiutava di far indossare loro i Guanti Protettivi durante i primi maldestri corpo a corpo.
Il primo combattimento a cui Rebecca aveva partecipato era stato contro una ragazza del gruppo A, Beya, ed era stato abbastanza disastroso. Nessuna delle due ragazze era riuscita a imporsi sull’altra e il risultato era stato un deludente pareggio e una sequela di imprecazioni di Erika. Rebecca aveva sempre lavorato meglio sotto pressione, sua madre diceva che aveva il brutto vizio di interessarsi a tutto –il che era come dire che non si interessava davvero a niente- e stancarsene subito dopo quindi era una cosa positiva che qualcuno la tenesse sotto torchio, ma le continue urla di Erika che le ricordavano le regole da seguire e le posizioni da assumere l’avevano solo innervosita e fatta sbagliare ancora di più.
Rebecca sapeva che la Responsabile lo faceva per spronarli a combattere meglio e che, in un modo piuttosto contorto, ci teneva che imparassero bene ma le sembrava ridicolo, nel bel mezzo di una lotta, ricordarsi di posizionare il pollice al centro del palmo e non muovere il polso in un certo modo. Il combattimento, il correre, il colpire, il sentire la pelle nuda dell’avversario sotto le proprie nocche… non sarebbe dovuto essere un qualcosa di puramente istintivo? Un bisogno primario, una valvola di sfogo, un qualcosa che avrebbe dovuto farti sentire libero e… vivo?
Durante le sue ore libere passava il tempo in palestra, a spiare John Shaw, Jamie Lloyd, Gabe Heap e gli altri Omega che si allenavano. Il modo in cui si muovevano, in cui non stavano mai fermi… era stupefacente. Ogni volta che salivano sul ring sembrava quasi che stessero mettendo su una danza, non un combattimento.
Aveva imparato tutti i loro nomi e conosceva quasi più loro che i suoi compagni di corso. Ognuno aveva un proprio stile e, come fu piuttosto attenta nel notare, nessuno di loro faceva tanta attenzione a come mettere il pollice. Gabe, il fratello di Nicko, combatteva di petto. Si gettava sull’avversario con forza, senza trucchetti e finte. Daley O’Connor sfruttava molto i gomiti ossuti; Theo, il ragazzo che delle volte aiutava Erika con i loro allenamenti, aveva un approccio più accademico ed era quello che seguiva maggiormente gli schemi base. Jamie Lloyd rimaneva quasi sempre ferma al suo posto e aspettava che fossero gli avversari a venirle incontro, in una tattica molto sottile. E poi c’era John Shaw che combatteva con la stessa facilità con cui respirava e sembrava così dannatamente vivo e pieno e felice e al suo posto, per una volta -lui che non sembrava mai a posto da nessuna parte, mentre faceva la ronda di mezzanotte, mentre rimproverava i primini, mentre mangiava silenziosamente e mentre silenziosamente si allenava con la sacca. E mentre combatteva sembrava stesse gridando, sembrava stesse facendo l’amore e sembrava stesse soffrendo e Rebecca avrebbe voluto essere brava anche solo un decimo di quanto lo era lui.
Non gli aveva più parlato, dopo l’episodio di due settimane prima, quando lui l’aveva sorpresa fuori dopo il coprifuoco e Rebecca si sentiva a disagio anche solo con l’idea di rivolgergli nuovamente la parola. Perciò se ne era rimasta zitta sia il giorno successivo, quando lei e Cyvonne si erano scontrate contro di lui in mensa –avrebbe dovuto salutarlo? Forse, ma lui era più grande e non la stava guardando e Cyvonne avrebbe fatto domande e lei avrebbe dovuto spiegare che era uscita per Pyke e Pyke non si era fatto vivo nemmeno quel giorno e John Shaw si era già allontanato e lei stava fissando la sua schiena- ed era rimasta zitta anche nei giorni successivi. In effetti  ad eccezione di Anya, Nicko, Cyvonne, Sandè e Sean –e qualche incontro occasionale con l’amico di Sean, Teks Feegan- non aveva stretto amicizia con nessuno. Si era sempre ritenuta una persona socievole e aperta, come la maggior parte dei figli dei Produttori  impiegati nelle Comunicazioni, ma provava uno strano senso di apatia.
La quarta settimana di dolorosa routine era appena iniziata quando Erika dovette andare in esterna con un gruppo di Gamma, mandati a fare esperienza sul campo ad Asa 13, la città più vicina a Metallica. I Gamma di secondo livello per la maggior parte stavano vivendo il loro ultimo anno lì al Centro di Addestramento –soltanto in dieci l’anno successivo avrebbero frequentato i cinque mesi aggiuntivi del livello Omega- e la possibilità di avere contatti con l’esterno e con il lavoro che sarebbe toccato loro dopo la Graduazione era un buon inizio per ambientarsi bene. Le possibilità per chi frequentava un Centro di Addestramento, e soprattutto Metallica che era il più esclusivo e famoso dell’Ovest, erano molteplici. Si poteva aspirare ad una carriera di Servizio InterCupola –protezione delle città e dei cittadini, Guerriero personale di un importante Governatore o Produttore, medico di campo addetto ai primi soccorsi, rappresentante della Classe Sociale al Consiglio della Cupola, Guardia dei confini, Allenatori di nuove reclute- o una IntraCupola –Guerriero personale di ambasciatori e diplomatici, rapporto fra Guerrieri di Cupole differenti, esercito della Cupola Ovest nelle zone in guerra delle altre, esploratori alla ricerca di tracce del Mondo Di Prima oltre le barriere protettive in vitrum-.
Suo nonno era stato uno di questi. Un Esploratore.
Rebecca era nata quando lui aveva appena sessant’anni e gliene mancavano altri venti di servizio. L’età mortuaria media sfiorava i centotrenta e tutti i lavoratori in salute erano tenuti a contribuire allo sviluppo della cupola fino al raggiungimento degli ottanta anni, l’età in cui il corpo iniziava a subire un irreversibile declino.
Al nonno piaceva il suo lavoro. Ogni volta che tornava da una missione le portava qualcosa: una foglia, un rametto, un po’ di terriccio che aveva raccolto fuori dalla cupola. Rebecca li custodiva gelosamente in un piccolo Cassetto Combinato, impostato per aprirsi solo al tocco delle sue dita, e ogni tanto li tirava fuori per ammirarli. Non erano come le foglie, i fiori e il terriccio delle varie Aree Natura sparse per la Cupola. Profumavano, davano una sensazione diversa al tatto rispetto a quella sgradevole e scivolosa Rebecca provava quando sfiorava quegli sintetici. Tutto quello che il nonno le portava dalle sue missioni era, ovviamente, sterilizzato: non si poteva mai sapere se, stando tanto a contatto con l’aria nociva fuori-cupola, anche quegli oggetti potessero aver assorbito un qualche morbo o trasmettere infezioni. Suo nonno le aveva detto che, se tutto quello che aveva regalato non fosse stato sterilizzato, tutto le sarebbe apparso ancora più vivido.
I fiori avrebbero avuto colori più intensi, le foglie sarebbero state più ruvide e profumate e il terriccio grumoso sarebbe stato impastato da una sostanza melmosa.
Le aveva promesso che, quando Rebecca sarebbe diventata anche lei un Guerriero, sarebbero andati insieme fuori dalla cupola e allora anche Rebecca avrebbe potuto vedere il Mondo di Prima così come i loro antenati lo avevano lasciato e distrutto.
Era morto per un malfunzionamento delle maschere protettive, prima ancora che Rebecca compisse i sedici anni e potesse comunicargli di aver scelto Metallica come Centro di Addestramento. La sua squadra, partita per una missione, aveva immagazzinato meno aria di quanto avrebbe dovuto e non erano riusciti a tornare alla base prima che l’ossigeno respirabile finisse. Li avevano trovati con gli occhi sbarrati e le mani serrate all’altezza della gola, come se stessero cercando disperatamente di indurre l’aria nociva a entrare nei loro polmoni.
Sua madre, da quel momento in poi, non aveva più voluto sentir parlare di carriere fra gli Esploratori e Rebecca aveva avuto paura a dirle che aveva scelto Metallica proprio per quello.
«E’ assolutamente geniale. Davvero»
Rebecca si riscosse dai suoi pensieri, scuotendo la testa e cercando di riafferrare il filo del discorso. Stavano pranzando e, insieme a lei, Cyvonne e Sean, erano seduti anche Anya e Nicko. Da quando li avevano divisi in due gruppi per facilitare l’andamento delle lezioni e per permettere agli allenatori di seguirli meglio, riusciva a vedere la sua vecchia amica e il giovane Heap solo durante i pasti e nelle poche ore libere settimanali.
Nicko stava raccontando giusto in quel momento della loro lezione con l’allenatore Cain Lloyd, che avrebbe sostituito Erika nei i suoi giorni di assenza.  Avevano appena trascorso tre ore in sua compagnia, mentre Rebecca, Sean e Cyvonne avrebbero avuto lezione con lui solo nel pomeriggio.
«A me è sembrato uno squilibrato» constatò Anya, muovendo con circospezione la sua forchetta nel piatto. Il pasto ero lo stesso per tutti –quel giorno consisteva in una scodella di riso e una fettina di carne magra- ma le porzioni variavano a seconda della persona. Il numero che tutti loro avevano tatuato sulla spalla era anche il loro Identificatore e forniva alla Macchina Pasti tutte le informazioni necessarie sui loro corpi e sulle precise calorie che era necessario assegnare loro per provvedere al fabbisogno giornaliero.
Il tatuaggio, come aveva scoperto Rebecca con il passare delle settimane, era forse solo una vecchia tradizione, ma il numero che rappresentava era qualcosa di molto più importante. Ogni mattina bisognava presentarsi ad un appello mattutino in cui, invece che ai loro nomi, si chiedeva di rispondere al suono dei loro numeri. Se non si digitava il proprio numero sui macchinari della palestra, questi non si accendevano. I loro numeri apparivano anche nella classifica generale che avrebbe deciso, fra molti anni, il loro futuro lì a Metallica.
«A me è sembrato davvero figo, invece» intervenne nuovamente Nicko «Fidatevi, ragazzi. Cain Lloyd è tutta un’altra cosa rispetto a Erika»
Rebecca dovette concentrarsi nuovamente sulla conversazione. Ultimamente era molto più distratta del solito e, se i suoi amici avevano steso un velo pietoso –nonostante Anya non facesse che prenderla in giro e dire che stava così perché lei e Pyke non si parlavano più-, Erika non era tanto compassionevole e non le dava tregua. Fortunatamente, almeno per qualche giorno, Cain Lloyd avrebbe portato una ventata di novità nella sua routine e, magari, i suoi pensieri sarebbero stati meno liberi di vagare.
 
Cain Lloyd li attendeva in piedi e con le braccia conserte davanti al ring. I ragazzi, che erano stanchi per la lunga giornata, erano entrati alla spicciolata, rumoreggiando e spintonandosi. Una sola occhiata alla figura dell’allenatore e tutti si zittirono, stranamente intimoriti dal suo aspetto minacciosamente calmo. L’allenatore fece protendere il silenzio teso per qualche attimo, poi sciolse l’intreccio delle sue braccia muscolose e li salutò.
«Buon pomeriggio. Prendete pure posizione»
L’ordine era piuttosto vago, diverso dal solito “Sotto con i pugni, pivellini” di Erika. Alcuni rimasero al loro posto, spostando il peso dei loro corpi da un piede all’altro, alcuni sussurrarono al loro vicino e altri ancora si diressero verso i manichini ai lati della palestra, per esercitarsi con le posizioni che Erika aveva spiegato loro la volta precedente.
«No, lasciate stare quei manichini.» li bloccò l’Allenatore Lloyd.
Quindici paia di occhi si erano spostati simultaneamente su di lui, seguendolo mentre si accarezzava il mento con aria pensosa e si accomodava sul bordo del ring di combattimento.
Il silenzio che aveva ottenuto era una cosa ben rara e Rebecca si lanciò una rapida occhiata intorno, cogliendo le espressioni concentrate dei suoi amici prima di ritornare a guardare l’allenatore Lloyd. Questo era ancora zitto e pensieroso, ma i suoi occhi correvano sul loro angolo di palestra e slittavano verso la parete di vetro che dava sul Centro di Controllo.
Rebecca notò che era stranamente vuoto, eccezion fatta per un Responsabile che smanettava forsennatamente sul suo Catalogatore.
«Fate venticinque giri di corsa intorno alla palestra» disse alla fine. Poi, quasi ci avesse ripensato aggiunse «Anzi, continuate a correre fino alla fine della nostra prima ora insieme. E dopo parleremo di strategia»
Si levo un coro di dissenso e Rebecca riconobbe fra tutti il borbottio di protesta di Teks Feegan. Si girò verso di lui giusto in tempo per sentirlo esclamare, nemmeno troppo a bassa voce «E’ ridicolo! Cosa dovremmo farcene con tutto questo correre?»
Cain Lloyd non si scompose e aspettò che i mugugni si quietassero prima di ricominciare a parlare «Come il signor Feegan ci ha fatto non troppo velatamente notare, il correre fino allo stremo non è affatto utile. Cosa centrano, si chiede il nostro giovane amico, i muscoli con il cervello? Perché sprecare tempo con la strategia quando posso semplicemente mandare al tappeto il mio avversario, essere più veloce e forte di lui? È questo che pensa il signor Feegan. Signor Feegan ora venga qui»
«Signore?» Teks era sbiancato.
«Venga qui, signor Feegan e mi risponda» l’Allenatore attese che Teks gli arrivasse accanto prima di riprendere a parlare «Mettiamo il caso che in questo momento faccia irruzione in palestra uno dei Controriformisti dell’Est. O un accolito di Cielo Aperto. O un assassino senza scrupoli. Che cosa fa lei?»
«Gli sparo un colpo in testa, signore»
«Un colpo in testa. Bene. Efficace e veloce, molto diretto. Molto bene. E come potrebbe sparare al nostro nemico un colpo in testa se in questo momento lei non è armato?»
Teks arrossì a tal punto che la sua pelle scura assunse una sfumatura violacea.
«Pensavo fosse una situazione ipotetica, signore»
«Potrebbe esserlo, indubbiamente. O potrebbe non esserlo. Ma le assicuro, signor Feegan, che se uno di Cielo Aperto fosse qui e lei avesse una pistola, non riuscirebbe nemmeno a sollevarla prima di ricevere lei stesso una pallottola in testa. Soprattutto considerando il fatto che lei non ha mai tenuto in mano una pistola e che non ha idea di come relazionarsi con un’arma del genere»
«Non me ne starei comunque con le mani in mano, signore»
«Questo non lo metto in dubbio, signor Feegan. Ma continuiamo con la nostra situazione ipotetica, vuole? Abbiamo scartato l’ipotesi di una pallottola ben piazzata. Cosa altro può fare, dunque? »
«Posso attaccarlo. Se è molto grosso sfrutterei la velocità, in caso contrario utilizzerei attacchi sfuggenti e cercherei di attuare manovre offensive…»
«E mi dica le sue manovre offensive sarebbero quelle delle corrette posizioni di base e delle dita? Il modo in cui si stringono correttamente i pugni? Colpirebbe il nostro rivoluzionario come fa ogni mattino con il suo amico il signor Davis?» ammiccò nella direzione di Sean.
«Signore…» Teks sembrava aver perso tutte le parole e Rebecca vide molti suoi compagni nelle stesse condizioni. Provò a concentrarsi sulla situazione ipotetica presentata da Cain ma nemmeno lei riusciva a immaginare un modo per uscirne senza usare un arma o attaccare.
«Signor Feegan, lei è qui da quattro settimane. Non potrebbe misurarsi con un ribelle di Cielo Aperto nemmeno se questo fosse zoppo e mezzo cieco. E si fidi, Feegan, quelli di Cielo Aperto sono in grado di essere scattanti e prestanti anche in quelle condizioni. Un uomo che lotta per un ideale in cui crede, anche se sbagliato, lotta più audacemente di un ragazzino che lo fa per la gloria e per un paese con non conosce ancora e che non gli ha ancora dato niente.»
«Allora cosa dovrei fare?- sbottò Teks, aggiungendo poi un frettoloso «Signore»
Cain Lloyd parve divertito «Come dice, signor Feegan?-
«Cosa dovrei fare con il ribelle di Cielo Aperto?»
«Cosa dovresti fare, signor Feegan? Corri. Ecco cosa fai. Corri.»
Si batté i palmi delle mani sulle cosce e il suono secco si propagò per tutta la palestra «Questa è la prima lezione che dovete imparare: la vostra vita non vale mai meno di quella delle persone che state proteggendo. Voi non siete meno importanti di loro. Sappiate riconoscere i vostri limiti e non li superate. A questa guerra non servono ragazzini spericolati che si credono degli eroi, ma persone coraggiose –attenzione il coraggio non è per forza buttarsi a capofitto in una situazione di svantaggio e senza uscita!- che sanno cosa fanno» Teks aveva gli occhi illuminati da un luccichio ammirato ma Cain si interruppe bruscamente e distolse lo sguardo dai ragazzi. Batté nuovamente le mani e si alzò di scatto «E ora fatemi questi venticinque giri di corsa intorno alla palestra.»
 
Mentre correvano Rebecca si ritrovò a cercare con lo sguardo la figura di Cain, che si era nuovamente seduto sul bordo del ring. Sembrava molto stanco e non stava guardando verso di loro. I suoi occhi erano rivolti verso la zona riservata agli Omega, fissi sulla figura di sua nipote Jamie che colpiva ritmicamente una sacca dall’aspetto pesante e ingombrante. Era da sola, come sempre. Forse perché era l’unica ragazza ad essere arrivata ad un livello così alto, forse perché non sembrava di indole molto socievole, ma si allenava quasi sempre da sola e, negli esercizi in coppia, si metteva sempre con John Shaw, un altro che non parlava molto.
Qualsiasi cosa fosse successo alla sua spalla, all’inizio dell’anno, ora le era passata perché usava i gomiti con incredibile forza e faceva ampi movimenti circolatori con le braccia.
Eppure, mentre la osservava, Cain sembrava preoccupato. Forse era perché fra poco meno di tre mesi si sarebbe tenuta la prova finale in cui, dopo aver aggiornato la classifica per l’ultima volta, si sarebbe deciso chi sarebbe stato selezionato per la Guardia Speciale InterCupola, una Organizzazione che raccoglieva gli elementi più promettenti di ogni Cupola e li faceva lavorare contro qualsivoglia tipo di minaccia si presentasse.
Jamie aveva buone possibilità di rientrare fra quei pochi prescelti e si stava allenando forsennatamente, anche più dei suoi compagni di corso. Gabe Heap aveva detto a Nicko che probabilmente sarebbero rientrati lei, John e Daley O’Connor.
Accelerò il ritmo fino ad arrivare a qualche metro da Sean, che correva da solo in cima alla loro disordinata fila. Cyvonne, che era molto forte ma per nulla veloce, ansimò al suo indirizzo e rallentò ancora di più la sua andatura, quasi accasciandosi.
Quando Rebecca tornò a guardare verso l’Allenatore Lloyd si accorse che non era più al suo posto. Una breve occhiata valutativa lo individuò nel Centro di Controllo. Dalla parete di vetro riusciva a scorgere lui e il Responsabile di turno che parlavano animatamente e, per quanto non fosse possibile sentire cosa stessero dicendo, Rebecca pensò che stessero litigando.
Non era ancora successo in quasi due mesi che i loro Allenatori discutessero davanti a loro e, a giudicare da come anche Jamie Lloyd aveva rallentato il ritmo dei suoi colpi per guardarli, non doveva essere una cosa abituale.
«I grandi stanno bisticciando» disse Sean con voce sommessa, accennando con il capo alla teca di vetro. Rebecca si voltò verso di lui, vagamente sorpresa. Doveva aver accelerato senza accorgersene e essersi trovata alla sua altezza. Cercò di mantenere il ritmo della corsa ritrovandosi dopo pochi minuti con i polpacci in fiamme –Sean era molto più in forma di lei-.
«Si, e lo stanno facendo proprio davanti ai bambini» disse, gettando in fuori quel poco fiato che le era rimasto in corpo.
La maggior parte dei suoi compagni non si era ancora accorta di niente -tutti presi a correre, sbuffare e spintonarsi indisciplinatamente fra loro- ma già qualche testa si stava alzando e qualche sguardo stava lasciando il pavimento per dirigersi verso i due litiganti.
Jamie Lloyd aveva ormai interrotto completamente il suo allenamento e i suoi occhi saettavano in ogni direzione, con quella sua espressione corrucciata. Per un attimo Rebecca sentì che stava guardando anche lei, ma si impose di non interrompere il ritmico movimento della corsa.
Quando Cain uscì dal Centro di Controllo avevano tutti da tempo concluso i loro venticinque giri di corsa. L’Allenatore Lloyd era livido. A Rebecca la sua espressone ricordava quella della madre quando era arrabbiata con lei ma, per qualche motivo, non poteva sgridarla ad alta voce. Spaventosamente calma: una promessa di resa dei conti e di provvedimenti risolutivi.
I ragazzi lo attendevano tutti sull’attenti, nessuno in vena di scherzare, nemmeno Teks.
«Per il momento basta correre: farete altre cinque giri a fine allenamento. Rivediamo la posizione base di difesa. Signorina Uriah, venga avanti e ce ne dia una dimostrazione» disse lui, facendo un cenno a Cyvonne di avanzare.
 
***
 
Pensare a Ray era naturale, quotidiano, doloroso: come un ronzio di sottofondo, assordante e fastidioso allo stesso tempo, un qualcosa che non poteva ignorare.
«E se… e se il mio futuro marito si dimostrasse… inelegante?» gli aveva chiesto una volta, quando era ancora irrimediabilmente cotta di lui –quando era ancora vivo. Era stato l’anno prima, quando i primi problemi economici si erano presentati alla porta di Casa Wood, così come la necessità di correre presto ai ripari e di trovare una sistemazione per lei e Sophie.
«Se lo farà, io mi dimostrerò ancora più inelegante di lui: gli taglierò la testa e te la servirò per cena» aveva risposto lui e Melanie era andata in un brodo di giuggiole al pensiero. Ingenua come era al tempo, come lo era ancora adesso nonostante la morte e la tristezza la stessero inaspettatamente aiutando a guardarsi intorno con chiarezza, l’aveva presa come la più sentita e romantica delle dichiarazioni. La settimana dopo aveva provato a dichiararsi ricevendo il doloroso due di picche e la conferma che no, Ray era solo un amico.
Colin era, invece e per fortuna, elegante. Nel senso che era tornato due settimane dopo la Grande Esplosione, le aveva gentilmente fatto le sue condoglianze per la sua perdita –e sembrava essere l’unico ad averlo ricordato, che lei aveva perso qualcuno- e non aveva più ripreso il discorso della loro separazione.
Da un certo punto di vista era molto più distaccato. Non le sorrideva più tanto e, in quei pochi giorni in cui si erano frequentati dopo il brutto incidente, non si era espresso con entusiasmo e speranza sul loro futuro. Era rimasto taciturno e chiuso, gentile e raffinato, ma distante e freddo. Nessuno sembrava essersi accorto del suo cambiamento in quanto, un genere di contegno non troppo espansivo e signorile, era quello che tutti si aspettavano.
Come stabiliva la legge sul matrimonio della Cupola Ovest, Melanie e Colin si erano incontrati con le loro famiglie alla Sede Generale per firmare il primo dei tre accordi matrimoniali.
Il primo, l’Attestazione, era solo una richiesta formale di unione e prevedeva che i due futuri sposi firmassero il loro assenso. Era inoltre compresa una clausola sugli aspetti economici e la regolamentazione dei patrimoni, aspetto che maggiormente interessava il signor Wood, e la faccenda andò fra le lunghe fra le varie contrattazioni.
Fu in quella occasione che Melanie conobbe per la prima volta la famiglia di Colin. La gran parte dei suoi parenti risiedeva ancora nella Cupola Sud e si sarebbero presentati solo al terzo accordo, quello dell’Ufficializzazione. Erano presenti solo la madre e la sorella.
La signora Amigdala, la madre di Colin, era una donna sulla cinquantina con i capelli rossi e il viso privo di rughe –Melanie sospettava che entrambi fossero frutto di Modificazioni Genetiche di ottimo livello-. Il padre aveva fatto pervenire solo la sua documentazione, necessaria per siglare la sua parte dell’accordo, e un O.L.O. temporaneo per scusarsi della sua assenza. 
Colin era sembrato molto nervoso: aveva scostato bruscamente sua madre e non le aveva rivolto la parola se non per dei brevi saluti. Melanie aveva firmato ed era rimasta ad ascoltare suo padre che parlava di denaro e privilegi fino a che la Sala Generale non le era parsa un luogo grigio come tanti altri.
Il secondo accordo, la Supervisione, si era tenuto la settimana seguente. Solitamente questa seconda parte prevedeva un semplice controllo fisico e una breve lettura dei diritti e doveri delle coppie dell’Ovest, ma la madre di Colin aveva insistito che la procedura tradizionale venisse rispettata alla lettera, così Melanie era stata visitata completamente e tutti i membri della sua famiglia erano stati chiamati a testimoniare il suo stato di salute e la sua capacità di avere figli.
Gli stessi controlli erano stati fatti anche a Colin e, una volta che si fu testato che non era impotente, si poté procedere con la lettura della legge sui figli –per garantire una popolazione florida le coppie sposate dovevano dare alla luce almeno un figlio nei primi tre anni. Nel caso uno dei due fosse stato contrario o impossibilitato avrebbero dovuto pagare una tassa aggiuntiva- e quella che regolamentava il matrimonio più in generale –con l’aggiunta della postilla 14, varata da qualche mese, che per fronteggiare il calo demografico stabiliva un limite massimo di celibato/nubilato e assegnava alla Sede Generale il compito di tassare i non accasati-.
Quando erano usciti fuori il cielo si era fatto scuro e grossi nuvoloni si stavano allargando all’orizzonte. Prima ancora che potessero raggiungere le loro machines la pioggia aveva iniziato a scendere copiosa e, mentre Colin veniva trattenuto da sua madre a parlare all’ingresso della Sede, Melanie si era dovuta coprire con le braccia magre fino a che qualcuno non le aveva passato un Riparatore Multiplo in fibra di thean. Era la sorella di Colin, Pauli: una donna sulla trentina con un elegante completo da Festa, quelli che le moglie dei Governanti indossavano nelle cerimonie pubbliche, e una espressione seria in viso, estremamente familiare.
Aveva la pelle olivastra e il contrasto fra le loro carnagioni si fece evidente quando lei le si affiancò. «Buonasera, Melanie. Ho sentito che diventeremo parenti»
Melanie non sorrise e afferrò la mano che lei le porgeva senza stringerla davvero.
«Immagino che voi siate Pauli»
Non assomigliava per niente a Colin, nonostante avesse alcuni tratti in comune con la madre.
«Immaginate bene» disse lei, senza guardarla. La scortò fino alla machines, aspettò che lei si fosse accomodata nello scompartimento asciutto, e poi si diresse verso la sua senza aggiungere i dirigersi verso la sua.
 
La sera successiva, come tradizione nelle famiglie più abbienti, la famiglia Wood ospitò la festa di fidanzamento -per celebrare i primi due accordi sanciti e augurare alla coppia di portare a termine il terzo nel migliore dei modi.
Erano stati invitati alcuni fra i più importanti membri del Consiglio e, a sorpresa, era intervenuto persino il signor Richard Manning, figlio del Governatore Generale Manning e, a conti fatti, erede di tutta la Cupola Ovest. Sua sorella Sophie le aveva raccontato di aver scorto persino un Governante del Partito Popolare –un gruppo di giovani scapestrati e sbarellati, come li definiva suo padre, che credevano di poter cambiare il mondo- e la sua guardia del corpo, un Guerriero armato e dall’aria indisponente.
In effetti,  per quanto fosse la sua festa di fidanzamento, Melanie non conosceva praticamente nessuno. Solo Katerina, che Sophie aveva insistito tanto per invitare e che indossava un aderente vestito rosso e portava alcune ciocche di capelli intrecciate a cingerle il capo come una corona, e Nina Nguyen, la figlia di una amica di sua madre, che in ogni caso trovava davvero antipatica. Nina si era portata dietro un ragazzo dai capelli rossi e i tratti amichevoli: quando le aveva stretto la mano e le aveva fatto le congratulazioni, lo aveva fatto con tanto entusiasmo che Melanie non se l’era sentita di smontarlo con una smorfia di circostanza e aveva abbozzato un sorriso.
Colin l’aveva salutata ad inizio serata -ogni volta che si incontravano a Melanie sembrava più arrabbiato e indisponente- ed era scomparso dopo poco, lasciandola sola a fronteggiare quella marea di persone sconosciute. In molti le si erano avvicinati per augurarle ogni bene, con quei sorrisi che non si allargavano mai agli occhi e le mani fredde che invadenti le accarezzavano le guance e le braccia, e per complimentarsi del suo aspetto.
Melanie, che non era mai stata magrissima, aveva pensato che c’era voluta la morte del suo migliore amico per raggiungere il peso ideale universalmente accettato. Poi aveva pensato che avrebbe preferito essere obesa. In ogni caso le guance scavate e gli occhi spenti sembravano abbinarsi perfettamente al vestito in organza azzurro, dal corpetto a cuore e la gonna composta da veli di stoffa dalle diverse tonalità di colore; quel genere di vestito che si era sempre immaginata nelle sue fantasia e per cui Ray, se fosse stata lì, l’avrebbe presa in giro senza tregua.
«Ti vedo molto a tuo agio» commentò Katerina, dopo un’ora che la festa era iniziata e Melanie aveva detto solo “Grazie”, “Sono onorata di conoscervi”, “La ringrazio davvero”, “Sono felice che siate riusciti a venire”.
Melanie aveva abbassato gli occhi sulla figura sottile dell’altra e aveva notato il bracciale in oro che le capeggiava sull’avambraccio, poco sotto l’attaccatura con la spalla. Era circolare e rigido e rappresentava un serpente dalla bocca spalancata ad ingoiare la propria coda. L’occhio dell’animale era rosso e, ad una seconda occhiata, Melanie si accorse che era un piccolo rubino. La famiglia di Katerina era estremamente ricca e, si ritrovò a pensare, se fosse stata un maschio Sophie non avrebbe avuto alcun problema ad ottenere il permesso di sposarla.
Ma erano due ragazzine stupide e ingenue e Melanie sperava solo che capissero quanto quello che stavano facendo fosse stupido, assolutamente folle.
«Lo sono. È come cenare con i miei genitori» rispose lei, cercando Colin con lo sguardo. La sua assenza era stata notata, così come il fatto che non le si fosse avvicinato nemmeno per mezzo secondo in due settimane, e l’umiliazione era profonda. Melanie si sorprese a pensare che, ormai, era troppo stanca anche solo per arrossire.
Il loro salone –l’intera casa- era pieno fino all’inverosimile e, in ogni angolo gruppi di persone conversavano educatamente, senza alzare la voce e con quella patina di indifferenza tipica della loro Classe Sociale. Melanie lasciò il suo bicchiere ancora intatto a Sophie e si diresse verso l’ingresso. La porta di casa era spalancata e nuovi invitati stavano facendo il loro ingresso, salutando allegramente -le donne baciando delicatamente le guance di sua madre e gli uomini già pronti a discutere con suo padre. Melanie distinse alcuni volti familiari, Governatori importanti che aveva visto in Tele-Video, e capì che suo padre, con quel matrimonio, aveva guadagnato molta popolarità e curiosità.
Questo pensiero continuò ad essere una costante nella sua testa e il desiderio di essere lasciata in pace non fece che aumentare mano a mano che la serata passava. Quando poi, al momento del brindisi augurale di mezzanotte, nessuno fece caso alle promesse scambiate fra lei e il futuro sposo –neanche Colin stesso-, tutti troppo presi da una accesa discussione sulla nuova postilla governativa sui Guerrieri, la situazione divenne insopportabile.
Quella serata era un completo disastro: nessuno le aveva rivolto una parola amichevole, il suo promesso sposo l’aveva ignorata tutta la sera e il suo migliore amico era morto. E se Colin si fosse dimostrato inelegante? Se la sua vita da quel momento in poi fosse stata solo una continua festa di fidanzamento in cui lei era solo una comparsa e non la protagonista come avrebbe dovuto? Come avrebbe fatto senza Ray a sostenerla e a scrollarla?
Le veniva da piangere e si rifugiò nel corridoio buio appena fuori dal salotto ghermito. Delle ombre proiettate sulle pareti a vetro dello studio del padre la fecero spaventare e incuriosire e Melanie si avvicinò in silenzio.
«Wood ha fatto il grande colpo, eh?» disse proprio in quel momento una voce maschile da dento lo studio.
Melanie si arrestò di colpo, la mano stretta sulla maniglia della porta e il cuore in gola per lo spavento. Sapeva che sarebbe dovuta rimanere in salone e che origliare una conversazione privata era quanto di più irrispettoso possibile, ma non poteva semplicemente fingere di non aver sentito il nome di suo padre o, peggio ancora, passare da lì come se niente fosse e interromperli. Perciò appoggiò la mano inguantata sul pannello di legno della porta e trattenne il fiato, le orecchie e l’intero corpo teso al massimo.
«Ho sentito che le sue Quotazioni sono aumentate di almeno il 60% dall’attentato di Ran. » commentò una seconda voce. Melanie sentì il tintinnio di un bicchiere di vetro che veniva poggiato sulla credenza e un grugnito insoddisfatto «Vecchio speculatore. Dicono che abbia Quotato sul decesso di Mortimer Bing e che stia premendo per avere il suo posto alla Sede di Controllo. Questa esplosione gli ha fatto comodo per togliere di mezzo un bel po’ di gente indesiderata»
«Sarei tentata a dire che ha organizzato lui stesso l’esplosione!» rise una donna. Melanie cercò di sporgersi più in avanti per identificarli e sfruttando il riflesso della specchiera, distinse il signor Richard Manning e quella giovane donna che le aveva fatto i complimenti per il suo vestito. Il terzo uomo era di spalle, ma non le sembrava nessuno di conosciuto.
«Non mi sorprenderebbe» disse l’uomo a cui Melanie non era riuscita a dare un volto o un nome «Peccato che le figlie non sembrino aver ereditato da lui l’intelligenza. La maggiore sta per sposare lo Scandalo dell’Ovest e nemmeno ne è al corrente.»
Ci fu una breve pausa in cui l’uomo si appoggiò sull’ampia scrivania e sfregò fra di loro le mani grandi «Oppure è tutta una finta e quella ragazza ci sta mettendo tutti nel sacco. D’altra parte, anche se il partito non è dei migliori, il suo futuro sposo ha abbastanza soldi da accontentare il suo insaziabile paparino»
Melanie fremette al suo posto, immobilizzandosi subito dopo.
Cosa significava quello che aveva appena sentito?
«Killian, ti prego» intervenne Richard Manning, passeggiando con lentezza per lo studio e osservando con fredda curiosità la collezione di alcolici del padre di Melanie «Lascia
quella povera ragazza fuori dalle tue macchinazioni. È più che probabile che non sappia di Colin e che non abbia pensato al vero motivo per cui un uomo tanto ricco abbia accettato di sposare proprio lei, di finanze così limitate.»
«Mi fa pena, in un certo senso» esclamò dopo un po’ la donna, abbandonandosi sul divano dello studio in una posa languida e voluttuosa. Si stese su un fianco e resse la testa con una mano ornata da preziosi e fili d’oro «La sua reputazione non potrebbe essere più a rischio e la sua festa di fidanzamento si è appena trasformata in un dibattito politico»
Richard Manning interruppe la sua camminata proprio davanti alla porta. Melanie si appiattì ancora di più contro la parete, timorosa di quello che avrebbe sentito e sconvolta per quello che aveva già appreso. In effetti si, si era chiesto perché la sua famiglia, che godeva di buon nome e lignaggio ma era povera in canna, fosse riuscita a stipulare un contratto matrimoniale con un uomo ricco come Colin.
Che poi, cosa sapeva di Colin? Non l’aveva mai visto prima del loro fidanzamento e persino il suo nome le era estraneo.
«Mio fratello potrebbe…» Richard fece una pausa e un gesto veloce con la mano. Melanie si sporse quasi completamente verso la porta, impaziente di sentire il continuo. Ma Richard Manning sembrava aver rinunciato a finire la frase e si era accomodato accanto alla donna. Quella aveva contratto il busto e aveva preso ad accarezzargli il braccio con le dita sottili e eleganti. Aveva una espressione in viso che Melanie non aveva mai visto prima, un misto di aspettativa e maliziosa consapevolezza, e le sue mani erano salite a massaggiare la schiena di Manning con ampi movimenti circolari.
«Non pensarci ora, mio caro. Lascia quel bastardo e la sua ingenua promessa sposa alle loro miserabili vite, non c’è nulla di cui preoccuparsi…»
Melanie avrebbe voluto entrare prepotentemente nello studio e urlare a Richard Manning di dirle tutto quello che c’era da sapere su Colin, sul perché lo avessero definito lo Scandalo dell’Ovest e su cosa avrebbe dovuto fare.
Il terzo elemento della compagnia, che era rimasto in silenzio nell’ultima parte della loro discussione, aveva selezionato dal kool del padre di Melanie una bottiglia di una qualche indefinita bevanda alcolica e la stava sorseggiando da uno dei bicchieri di vetro della credenza.
Richard Manning e la sua amica si stavano baciando e Melanie non riuscì a scostarsi dall’immagine dei loro corpi uniti e schiacciati l’uno sull’altro. Lei non aveva mai baciato nessuno, se si poteva escludere il terribile tentativo di dichiararsi a Ray, conclusosi con le braccia dell’amico che la allontanavano gentilmente e le lacrime che le scendevano copiose per l’umiliazione, e si ritrovò a fissare le labbra dei due muoversi in sincrono con una curiosità morbosa. Si sentiva strana al pensiero e si strinse le braccia al petto, con uno strano languore che le si dilagava dentro.
Non  avrebbe dovuto essere lì, affatto.
Ma, se poteva giustificare il suo rimanere lì ad ascoltare i discorsi di quei tre con l’interesse di capire qualcosa di più sulla sua situazione familiare e su Colin, ora si trovava a corto di scuse e davvero non  riusciva a comprendere perché quel bacio la sconvolgesse tanto.
Forse perché ne vuoi uno anche tu.
Richard Manning non era affatto bello e a Melanie non piaceva molto esteticamente, troppo scuro di carnagione e di capelli –lei che sognava un uomo dai capelli biondi e gli occhi azzurri-, ma poi lui fece una cosa strana con la bocca. La aprì piana sul collo della donna che stava baciando e Melanie poté scorgere i muscoli di lei tendersi tutti e i respiri di entrambi farsi più affannosi. Melanie si sentì strana, inadatta, sbagliata e estremamente…
«Buonasera»
Melanie sobbalzò e lasciò la presa sulla maniglia della porta.
La voce non veniva dallo studio e l’ombra che le incombeva addosso non era un riflesso dovuto alla luce, ma una vera persona –un uomo- che le stava a pochi passi di distanza, appoggiato al muro con le braccia incrociate e una espressione saputa in viso.
Melanie arrossì per l’imbarazzo: essere sorpresa ad origliare così, in casa sua, durante la sua festa di fidanzamento.
L’uomo si staccò dal muro continuando a sorriderle e, quando le fu ancora più vicino, Melanie si accorse che era davvero alto. Più di lei, che pure superava di mezza spanna il padre e raggiungeva quasi Ray.
«Buonasera signore» balbettò, allontanandosi dalla porta dello studio e dalle figure intrecciate che essa nascondeva. Voleva tornare in salotto e fingere che non fosse successo nulla ma si ritrovava nuovamente bloccata in quel corridoio. Prese a tormentarsi le mani e a giocherellare con uno dei veli del vestito, evitando di incontrare lo sguardo dello sconosciuto.
«Mi dispiace di averla spaventata, signorina. Penserà che sono stato un maleducato a non farvi notare sin da subito la mia presenza, ma sono nuovo a queste riunioni e non sapevo come comportarmi» disse, facendole un cenno con la testa.
Il vestito da Governatore non gli stava affatto bene.
La giacca era stretta sulle spalle e in vita, come se si fosse ristretta, i pantaloni non scendevano dritti come avrebbero dovuto e anche la camicia bianca era piuttosto stropicciata. E le scarpe! Melanie si sorprese che sua madre non lo avesse bloccato all’ingresso con quelle vecchie calzature da Produttore ai piedi. In effetti, non sembrava per niente un Governante.
«Oh, non si preoccupi. Io… io mi ero solo allontanata un po’ dal salone. Tutte quelle discussioni… non fanno per me» Melanie scosse la testa e gli fece un cenno con il braccio, invitandolo a seguirla per il corridoio principale, verso l’ingresso «Mio padre è un grande sostenitore del Governo Manning» aggiunse poi, senza nemmeno sapere perché. Come sempre, quando si trattava di politica, tendeva a restare sul sicuro.
Lui non disse nulla per qualche istante ma Melanie lo scorse serrare la mascella e far scorrere gli occhi sul corridoio buio. Le fece un cenno con la mano, come ad invitarla a precederlo.
Melanie non si sentiva molto a suo agio ma gli fece strada.
«E voi?» chiese all’improvviso lui, mentre stavano girando l’angolo e imboccavano il corridoio principale «Cosa ne pensate voi della Postilla sul Controllo?»
«Oh, non saprei. Non mi intendo molto di politica. E in più ripongo una grande fiducia nei nostri Governanti» disse lei, piegando la testa e recitando la solita risposta che sembrava soddisfacere ogni uomo con cui aveva mai parlato.
«Non dovreste, invece» il viso di lui si era indurito improvvisamente «E’ l’ignoranza e l’indolenza della popolazione che permettono ai nostri amati Governanti di decidere il nostro futuro senza interpellarci»
Continuarono a camminare in silenzio fino all’ingresso e Melanie non riuscì ad eleminare quel senso di inadeguatezza che le era montato su all’improvviso: era indispettito e Melanie non sapeva cosa dire per rimediare. Avrebbe potuto semplicemente fare un piccolo inchino e tornare in salotto, lasciar correre, ma c’era qualcosa che le impediva di ignorare quello che era appena successo. Avrebbe voluto che lui la guardasse di nuovo con quel sorriso gentile che aveva avuto all’inizio.
«Perdonatemi, signore» disse alla fine «Non volevo farvi arrabbiare»
Lo sguardo dello sconosciuto, fisso sulla sua gonna di tulle, si addolcì di colpo. Scosse leggermente la testa, come a liberarsi di un brutto pensiero e sollevò il capo verso di lei.
Ora che erano davanti alla porta di casa e l’illuminazione era maggiore, Melanie poté scorgere i suoi lineamenti con più distinzione. Era più giovane di quanto avesse immaginato ma era comunque abbastanza più grande di lei, sull’età di Colin. Quando sorrideva, però, il suo viso si rilassava a tal punto da fargli perdere qualche anno.
«Oh, perdonatemi voi signorina. Come ho già detto non so bene come comportarmi in queste situazioni. Credo di aver esagerato»
Melanie annuì, combattuta fra il rimanere ancora lì e il tornare subito in salotto.
Se riusciva a concentrarsi sentiva ancora l’eco di voci che discutevano e questo non la invogliava enormemente a seguire la prima opzione. Ma d’altra parte rimanere da sola, appartata, con un uomo che non era il suo fidanzato ad una settimana dal suo matrimonio era decisamente sconveniente. Sospirò profondamente, rompendo il silenzio che si era creato, e lui sembrò accorgersene perché risollevò di nuovo il capo –era tornato a fissare la sua gonna come ipnotizzato e il rumore lo aveva colto di sorpresa-.
«Bene, credo che sia il caso di…» iniziò, nello stesso momento in cui lui apriva di nuovo bocca.
«Non mi avete detto cosa ne pensate, alla fine»
«Le ho detto che mio padre è un forte sostenit... »
«Non mi interessa di suo padre. Le ho chiesto cosa ne pensa lei» la interruppe lui, senza nemmeno farla finire. Dopo aver parlato si grattò la nuca con una strana espressione, quasi in imbarazzo, e rendendosi conto di non essere stato proprio cortese aggiunse «Se non le dispiace, signorina»
«Io… io gliel’ho detto, non me ne intendo di politica, affatto. Ma immagino che questa legge abbia lo stesso valore di quella che obbliga al matrimonio e all’avere figli» la voce le uscì piatta e secca, senza alcuna delle sfumature che avrebbe voluto imprimere.
«Questo è… esattamente quello che penso anche io» lui sorrise, e Melanie non fu più sicura di aver detto la cosa giusta.
«E quale è il vostro pensiero in merito?» chiese, incapace di fermare la conversazione e desiderosa di distogliere l’attenzione dalle sue osservazioni.
Lui la guardò di sottecchi, fermandosi sul pianerottolo e sorridendole indulgente, quasi come un padre affettuoso davanti all’ennesima marachella della adorata figlia.
«Il mio pensiero in merito a questa faccenda, signorina… o, al diavolo, posso chiamarti Melanie?» parlava con tanto ardore che Melanie gli avrebbe risposto di si anche se l’avesse voluta chiamare prostituta «Bene, Melanie. Il mio pensiero in merito a questo è lo stesso pensiero che porto avanti da anni. Conoscere qualcosa è avere del potere sulla stessa. Affidare la conoscenza solo ad un limitato gruppo di persone è sbagliato, così come lo è monitorare dei ragazzini in attesa che facciano qualcosa di sbagliato»
Melanie boccheggiò abbastanza confusa. Se, fino a quel momento, pur avendo avvertito una scarica di adrenalina e di inadeguatezza, il discorso era stato sostenibile per lei… ora era completamente fuori controllo.
Quello era tradimento.
Quell’uomo stava andando contro il Governo, apertamente, e senza preoccuparsi delle conseguenze. Doveva allontanarsi il primo possibile.
«Va di molto contro il pensiero del Governatore Manning- disse, mentre si avvicinava impercettibilmente al corridoio per il soggiorno. Cercò di distrarlo con altre domande mentre guadagnava una veloce via di fuga «Non è spaventato che possa causarle problemi con la Giustizia?»
«Non siamo noi a dover temere il Governo. È il Governo a dover temere noi» si strinse nelle spalle lui, che sembrava aver capito il suo tentativo di allontanarsi e sorrideva.
«Questo ragionamento non le sarà molto utile quando le punteranno un fucile alla tempia per altro tradimento» Melanie si morse la lingua prima ancora di finire la frase.
E da dove le era uscita fuori quella? A furia di frequentare Ray aveva finito per prendere alcune delle sue cattive maniere? Quella serata era stata così terribilmente imbarazzante e stressante, come l’intera storia del matrimonio, da spingerla a fare l’impertinente?
Lui, fortunatamente, sembrò divertito e piacevolmente stupito.
«Oh, di quello non mi preoccupo. So bene come difendermi» il suo sorriso brillò nel buio e Melanie lo vide scostarsi la giacca dal fianco, facendo intravedere il manico di una pistola.
Sobbalzò e indietreggiò spaventata, mentre lui si riaggiustava la falda dello smoking e sistemava i polsini della camicia con aria indifferente.
«Ah, sei qui» disse un’altra voce e, per la seconda volta in quella lunga serata, Melanie si ritrovò a sobbalzare. Questa volta era un viso conosciuto: il Governante del Partito Popolare che aveva aperto la discussione con il signor Lee. Melanie scattò verso il corridoio che portava in salone, lo stesso da dove veniva il nuovo arrivato, appoggiando la mano alla parete della stanza, quasi a cercare sostegno.
«Buonasera» la salutò lui, chinando rispettosamente la testa, prendendole la mano libera e scuotendola. Era un gesto da Produttori –di solito i Governatori si limitavano a sfiorare le dita o, la maggior parte delle volte, a sfiorare la guancia sinistra con le labbra- e Melanie si sentì arrossire per quel contatto inaspettato «Governante Kensington al suo servizio, signorina. Stavo cercando il mio amico, preoccupato che si fosse annoiato, ma immagino che la vostra compagnia sia quanto di migliore questa festa possa offrire»
Melanie fece un cenno educato con il capo, rispondendo al suo sorriso gentile.
Kensington si rivolse poi al suo amico –Melanie collegò solo in quel momento che doveva essere il Guerriero posto a sua sorveglianza a cui aveva accennato sua sorella- e la sua espressione si fece nuovamente tesa «Dobbiamo andare. La machines è pronta?»
«Ci aspetta qui fuori» disse lui, senza alcuna traccia dell’ironia che aveva usato per parlare con lei. Kensington accolse la notizia con le labbra strette e salutò Melanie con modi cortesi.
Aprì la porta e scese i gradini del portico a due a due.
Melanie sapeva che era ora di tornare dai suoi invitati. Era scomparsa per troppo tempo e  suo padre l’avrebbe uccisa, ma si costrinse a distogliere lo sguardo dal giardino illuminato dalla luna. Avrebbe voluto andarsene anche lei, evitare gli occhi di tutti quegli sconosciuti, non vedere più Colin e suo padre.
«Immagino allora di doverla salutare» disse, alla fine.
Fece un inchino a cui lui non rispose e si voltò per raggiungere la festa.
«Venerdì pomeriggio» esclamò lui, però «In piazza Cyhna. Organizziamo un convegno. Sulla Postilla 14, su questo Governo. Sulla legge del matrimonio. Potreste… potresti venire»
Melanie abbassò lo sguardo sulla mano di lui, stretta sul suo polso. Sentiva una piacevole sensazione di calore e sentiva che… che si sarebbe dovuta allontanare prima che qualcuno la vedesse in quelle condizioni. Anche solo pensare, prendere in considerazione, di partecipare ad una simile iniziativa –dubitava persino che fosse legale!- era da irresponsabili. Da pazzi.
«Io… io ci proverò»
Lui le sorrise di nuovo, mentre il rumore di una machines diventava sempre più vicina. In breve potettero distinguere il profilo del mezzo di trasporto nero e della testa del Governante Kensington alla guida. Stava evidentemente aspettando che il suo amico si sbrigasse, ma Melanie aveva bisogno di sapere un’ultima cosa prima che se ne andasse.
Glielo chiese quando lui era ormai sul portico e stava scendendo la piccola scalinata.
«Aspetta! Non so come ti chiami!» urlò, sentendosi patetica e rabbrividendo per il vento freddo che entrava dalla porta spalancata. Si strinse le braccia al petto, infreddolita.
«Novan» gridò lui di rimando, girandosi per sorriderle un’ultima volta «Jared Novan. Ricorda, Venerdì alle 16:oo! Ti aspettiamo!»
Melanie si chiuse la porta alle spalle prima ancora che la macchina abbandonasse il vialetto. Si appoggiò con la schiena contro il pannello di legno, tormentandosi le mani in grembo. Sentiva ancora la stretta di lui sul suo polso e il leggero capogiro che era conseguito ad aver fatto la più grande sciocchezza della sua vita.
Come le era venuto in mente di accettare una proposta del genere? Lei, ad un convegno di sbandati e sbarellati del Partito Popolare? Ma per piacere.
Fece il suo ritorno in salone dove la polemica si era calmata, ormai, ma quasi nessuno sembrava essere intenzionato a perdonare la sua piccola assenza. Sua madre e sua sorella le furono subito intorno, concitate, e suo padre le scoccò uno sguardo di biasimo dall’altra parte della stanza. Katerina, invece, si limitò a sorridere sbilenca.
Jared Novan in piazza Cyhna, venerdì alle 16:00.
Jared. Novan.
Venerdì alle 16:00. Piazza Cyhna.
Jared. Novan.

 
   
 
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