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Autore: Francine    13/03/2014    3 recensioni
Ho sempre omesso in confessione che ad uccidere mio marito, più del veleno, più della febbre, più dell’attesa straziante è stata un’unica parola.
Nero.
E che Dio mi perdoni, ma non me ne pento affatto.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Trenta Giorni a Camelot'
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Prompt: #1 La Maschera
Titolo: La Cerca di madonna Isotta
Autore: Francine
Fandom: Leggende Arturiane
Personaggi: Isotta dalle Bianche Mani, Tristano, Caerdino
Genere: Introspettivo
Rating: Arancione
Avvertimenti: occorrerebbe inserire Tristano, Isotta e Caerdino nel novero dei personaggi delle Leggende Arturiane…
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
Partecipa al defunto progetto La Festa dei Folli, dal forum La Corte dei Miracoli  
 
 
 
Giornata Terza
La Cerca di madonna Isotta


 
Affido alla carta di queste pagine il resoconto della mia vita in quest’ora di ambasce e dolore. 
Possa Iddio onnipotente guidare questa mano malferma e concedere ancora un po’ di luce ai miei occhi quasi ciechi e porre fine al mio compito e liberarmi, in parte, la coscienza da un peccato più grande di me. La mia vita, che si va spegnendo lentamente sulle rive di una spiaggia sassosa su cui s’affaccia l’imponente monastero, è nota alle corti di tutto il mondo cristiano tramite il racconto del tradimento di coloro che ebbi cari come e più della mia stessa anima; se s’escludono il Signore onnipotente e mio padre, che diede a mia madre il seme da cui germogliò la mia esistenza, mio fratello e mio marito sono stati gli unici uomini che abbia amato in vita mia.
Eppure, con il cuore avvelenato dal dolore, ho ucciso mio marito. Ai sacerdoti che nel corso degli anni hanno ricevuto l’incarico di curare la mia anima, ho sempre omesso in confessione che ad uccidere mio marito, più del veleno, più della febbre, più dell’attesa straziante è stata un’unica parola.

Nero.
E che Dio mi perdoni, ma non me ne pento affatto. 


Se potessi raccontarvi la storia di un Amore felice, lo farei volentieri. Imbraccerei la cetra, stringerei le corde e produrrei un arpeggio con cui accompagnare la mia voce. Vi parlerei dell’estasi di un abbraccio a lungo desiderato, dell’emozione e del turbamento che rapiscono un cuore innamorato, delle pene e delle stilettate della gelosia; e voi, come se foste tornati indietro al tempo delle ciliegie, rivivreste sulla vostra pelle quelle sensazioni, più vive oggi di allora.
Ma io vi chiedo: esiste un Amore, uno di quelli immensi e strazianti che consumano ogni fibra di chi ama, può un Amore di quelli che atterrano e suscitano, che uccidono e vivificano, può un Amore simile, insomma, essere anche felice? Può durare? Oppure, piuttosto, non sarà che l’Amore vero, quello dei santi e dei poeti, per capirci, non sia anche Morte, Dolore e Distruzione?
Voi dite di no, eppure pensateci: voi, che vivete in fretta e correte sempre alla ricerca di qualcosa d’irraggiungibile che vi va in uggia dopo che l’avete acciuffato, avete mai pensato di tendere voi stessi all’infinito?
Avete mai pensato all’eternità?
Vivete come se doveste morire da un momento all’altro e pensate come se foste immortali, ed è questo la vostra definizione di assoluto; ma l’infinito e l’eternità non potrebbero essere concetti slegati dalla vostra vita terrena?
Non avete mai provato il desiderio viscerale di unirvi a qualcosa di più grande di voi? Diventare luce nella luce, acqua nell’acqua e fuoco nel fuoco.
Mai? Dite sul serio?
Peccato, per voi. Io mi sottraggo al novero di coloro che non conobbero Amore e i suoi capricci.
Sì, in gioventù vissi un amore disperato e totale. Un vero Amore.
Oh, non ridete di me, non è il caso. Potete prendermi per una pazza che alla sua età ancora porta i capelli raccolti in due trecce nere sulle spalle, e ridere del mio sorriso tagliente quando guardo le navi che attraccano al porto e i marinai che scendono ad abbracciare le loro compagne. Sì, io mi sento come quelle donne, avete indovinato. Le capisco. Anche io, un tempo, ho atteso alla finestra scrutando il mare alla ricerca di un filo di fumo che mi avvisasse dell’arrivo di una nave…
Mio marito allora era molto malato, e quella nave avrebbe potuto salvarlo. Io restavo alla finestra a consumarmi gli occhi, mentre lui piangeva e soffriva sul suo letto di dolore. 
La medicina arrivò troppo tardi. Mio marito morì ancora nel fiore degli anni, ripetendo per tre volte il mio nome, gli occhi chiusi e la testa girata verso il muro.
Io l’amavo così tanto… 


Mio fratello era un abile cacciatore. Quando la neve iniziava a sciogliersi e gli animali uscivano dal letargo, lui spariva nei boschi dietro casa alla ricerca di prede da infilare nelle sue capienti gerle. Sin da ragazzo, usciva la mattina presto che il sole ancora non era sorto, e stava via anche per una settimana di fila; mia madre non si preoccupava troppo per lui: conosceva quei boschi come le sue tasche, e lei infilava sempre nella sua bisaccia un unguento miracoloso a base di calendula che sanava tutte le ferite. Partiva con un ristretto numero di uomini al suo seguito e s’accampavano nei boschi, tornando al castello dopo qualche giorno con le gerle e le bisacce cariche di cacciagione, e fagiani, e lepri, e, quando era la Fortuna a muovere il suo braccio, anche con dei caprioli o dei cinghiali.
Fu proprio così che si conobbero.
Un giorno mio fratello sentì dire che un grosso cinghiale s’aggirava in una foresta poco lontana da noi, dall’altra parte delle colline. Non pose tempo in mezzo: si preparò, si vestì e all’alba partì a spron battuto alla ricerca di quella grossa bestia.
«Madre preparate tutto l’occorrente. Vi porterò il cinghiale e voi ne farete salsicce con cui condire la polenta!», disse uscendo da casa nella bruma del mattino.
Due giorni dopo ritornò, ma non era solo. Era un’alba di primavera; la rugiada ancora bagnava la selva che mio fratello da un lato, e Tristano dall’altro, davano entrambi la caccia ad un possente cinghiale che s’inoltrava nel folto della foresta. Sorpresa la bestia al centro di una radura, sbucarono all’unisono da due cespugli e similmente, nello stesso tempo, colpirono l’animale con i giavellotti; l’uno e l’altro s’incrociarono nel cuore della bestia, uccidendolo all’istante e rendendo impossibile attribuire la preda ad un unico cacciatore.
Caerdino propose al forestiero di dividere la bestia in parti eguali, e l’invitò al castello di nostro padre, il quale accolse con gioia quel giovane forestiero così abile da rivaleggiare e tener testa a suo figlio.


M’innamorai di Tristano all’istante.
I miei occhi incrociarono i suoi mentre ero affacciata alle finestre del castello in attesa di scorgere il viso amato di mio fratello di ritorno dalla caccia. Cardino tornava sempre raggiante, e più le sue bisacce erano rigonfie di animali, più il suo sorriso s’allargava e scaldava fraternamente il mio cuore. Quella volta, rincasando assieme ad un enorme animale, mio fratello sorrideva più delle altre volte. Aveva trovato un amico.
Io non potei far altro che far posto a Tristano nella mia anima: il suo portamento, la sua figura forte e ben ritta in sella, e persino quel sangue che sporcava i suoi vestiti, s’insinuarono saldamente nel mio cuore di fanciulla come quelle frecce che Tristano era solito incastrare alla perfezione al centro dei bersagli.
Era bello, sì, come l’alba in primavera: i suoi occhi, neri come la notte senza stelle, erano dolci, velati di tristezza come se pensasse a qualcuno che s’era lasciato dietro le spalle.
Mio padre accolse a braccia aperte quel ragazzo, felice anch’egli che mio fratello avesse trovato un amico e un paio di braccia forti, che sappiano sorreggere spada e scudo, nella casa di un valvassore non sono mai mal viste. Tutt’altro.
Così ci stringemmo un po’ e iniziammo a vivere tutti assieme nel castello di mio padre, al limitare della città. Io osservavo di nascosto quel bel ragazzo dall’aria triste, che parlava poco, se non di caccia e di musica, e spesso solo con mio fratello. Oppure, quando la melanconia aveva ragione della sua anima, imbracciava la sua amata chitarra, si arrampicava tra i rami del sicomoro dietro le stalle e suonava dolci melodie che accompagnava con un sommesso mormorio.
Io lo spiavo, lo ammetto, timida e rossa in viso; scrutavo la sua figura di spalle, i capelli neri che rilucevano come le ali dei corvi al sole, e le mani delicate, femminili quasi, accarezzare la chitarra con dolcezza e struggimento. Sembrava morire su quelle note, ed io mi sentivo morire con lui.
Poi, un giorno in cui mio padre m’aveva chiesto di dargli una voce, lo trovai davanti al nocciolo piantato al momento della mia nascita. Lo chiamai, un po’ imbarazzata e rossa per l’emozione, e lui si voltò, infilando qualcosa in tasca. Un coltellino.
Riferii il messaggio di mio padre e lui lo raggiunse ringraziandomi. Rimasi a guardare la sua figura svoltare dietro il muro di cinta del castello e poi osservai cosa stesse facendo prima che lo interrompessi. Sul tronco del nocciolo, coperto da rami di caprifoglio, aveva inciso il suo nome ed il mio all’interno di un cuore.


Come descrivere la tempesta di sentimenti contrastanti che provai allora? Freddo e caldo, paura e gioia, eccitazione e stordimento. Volevo piangere e ridere allo stesso tempo, ma avevo paura che quella gioia improvvisa fosse frutto di un errore. Non era possibile che lui, così bello e perfetto, s’innamorasse proprio di me, una semplice figlia di un valvassore abile solo a ricamare il lino!
Così passai due giorni e due notti ad arrovellarmi su quello che avevo visto, mentre lui non sembrava prestarmi molta attenzione. E se da una parte questo non faceva che avvalorare il mio sospetto, dall’altro mi dicevo che forse la sua timidezza era dovuta al rispetto che provava verso mio padre. Una forma d’educazione che gli impediva di manifestare apertamente i suoi sentimenti nei miei confronti.
Il terzo giorno, o sarebbe più corretto dire sera, giacché in cielo splendeva una luna enorme, sentii le corde della sua chitarra portate dal vento. Un lai struggente. Tristano sedeva sotto un salice, l’arpa tra le mani, e cantava del caprifoglio che vive abbracciato al nocciolo inerpicandosi su di esso, e che, se divisi, muoiono entrambi per la mancanza l’uno dell’altro.
«Amica mia così è per noi, né voi senza me, né io senza voi», terminava il canto, lo ricordo come fosse ora, come se avessi ancora sedici anni e le trecce nere addormentate sulle spalle, e mio marito fosse qui davanti a me, l’arpa in mano e il mantello rosso a coprire le sue spalle forti.
Sentii il mio cuore diventare molle cera per la tenerezza nel sentire quei versi.
Oh, fortunata tra le dame, è colei che possiede il cuore di quest’uomo!, pensai con una punta d’invidia.
Quale non fu lo stupore e la gioia e l’imbarazzo che provai quando gli sentii sussurrare il mio nome. «Ysseult…»
Quanta dolcezza era riuscito a mettere in un solo sospiro! Quanto ardore in quell’unica emissione di fiato! Aveva una voce così melodiosa che mi venne da piangere. Pensai, ingenua, di essere io quell’Ysseult, la causa del suo sospirare e corsi a confidarmi con la mia balia, piangendo di gioia e d’imbarazzo. E se non fossi stata io la donna di cui Tristano era innamorato? E se fosse esistita un’altra Ysseult nella sua vita?
«Via, non datevi cruccio! Siete così bella che nessuna altra dama regge il confronto con voi e le vostre mani bianche, ve lo posso garantire io!», mi rassicurò lei, ed io volli crederle, per dare al mio cuore un motivo in più per sperare.


Un mese dopo quell’episodio, Tristano chiese la mia mano.
Mio padre tentennò un po’, visto che eravamo entrambi molto giovani e ci conoscevamo solo da poco meno di un anno, ma vedendomi entusiasta all’idea, e sapendo la nobile stirpe da cui discendeva Tristano, acconsentì. 
Ci sposammo con una cerimonia semplice e molto raccolta: io, lui, i miei cari e il parroco.
La sua famiglia non c’era più, e suo zio Marco, l’unico parente che aveva, l’odiava per una questione d’eredità. «Gli amici di mio zio hanno fatto di tutto per mettermelo contro, e alla fine sono riusciti a convincerlo del fatto che volessi ucciderlo per accorpare tutti i beni nelle mie mani. Ora mi odia e sono dovuto scappare da casa mia se non volevo essere ammazzato come un cane», spiegò durante i preparativi.
Mi si strinse il cuore. Come era possibile odiare una creatura tanto dolce?
La notte delle nozze, dopo una giornata passata far festa tra di noi, mi condusse nell’alloggio che mio padre aveva predisposto per noi, in una magione appena oltre le mura del castello.
La sera delle nozze, quella che avrebbe dovuto vedermi morire come fanciulla per rinascere come donna, pioveva ed io m’introdussi nel letto, la mia pelle rabbrividì al contatto con il lino freddo ed attesi. Lui mi raggiunse dopo un po’ di tempo, si sedette sul bordo del letto, le mani tra le mani, e sospirò. Io abbracciai mio marito con tutto l’amore e l’ardore e la paura che sconvolgono il cuore di una ragazza innamorata.
«Non posso amarti…», confessò, e mi raccontò che una vecchia ferita aveva ripreso a dolergli. Suo zio l’aveva colpito durante l’ennesimo tentativo di assassinarlo, e quando la sera scendeva umida, quel dolore si riacutizzava, rendendogli impossibile persino lo stare coricato. Passerà, pensai cercando di confortarlo e avendo pazienza. Ma il dolore non passò.


Un giorno di fine ottobre chiesi a mio fratello di accompagnarmi a fare una passeggiata a cavallo per aiutarmi a raccogliere le castagne. Stavamo rincasando con il paniere carico di frutti quando arrivammo al ruscello che attraversava il bosco e decidemmo di fermarci a pranzare lungo la riva. Scivolai su una pietra e caddi in acqua bagnandomi fino alla vita. Risi.
«Che hai da ridere? Per poco non ti ammazzi, e tu ridi?», mi sgridò aiutandomi a rialzarmi.
«Rido», gli dissi, «perché è successa una cosa buffa».
«Buffa?»
«Sì. È stata più audace quest’acqua delle mani di mio marito…», e scoppiai in lacrime subito dopo.
Mio fratello mi riaccompagnò a casa ed aspettammo insieme il ritorno del mio sposo. Io ero confusa. Guardavo il cesto sul tavolo e quelle castagne ancora chiuse nei loro ricci, e mi maledicevo per non aver tenuto dentro di me quel segreto. Che mi costava restarmene zitta? Adesso non avevo fatto altro che peggiorare la situazione. E se mio marito si fosse adirato e mi avesse abbandonata?
E se questo avesse portato disarmonia all’interno della mia famiglia?
D’altro canto, un uomo che non adempie ai suoi doveri coniugali non può che attirarsi il biasimo e la pietà di chi lo circonda, e questo avrebbe potuto…
Mi torturavo con i possibili scenari che la mia rivelazione aveva aperto, quando mio marito tornò a casa dopo una giornata passata a cacciare.
«Devo parlarti», disse mio fratello e gli concesse solo il tempo necessario per posare la selvaggina sul tavolo prima di precederlo all’aperto. Io mi sentii morire. Fissai quel paio di lepri senza vita sul legno scuro e terrorizzata da quello che sarebbe potuto succedere, mi coprii con lo scialle e li seguii.
Camminavano a passo spedito verso la foresta e non potendo usare luci di alcun genere, pena l’essere scoperta ed aggravare ancora di più la situazione, faticai a star loro dietro finendo per perdere le loro tracce.
Rientrai a casa a fatica, e attesi torcendo le mie belle mani bianche. Mio marito tornò a casa a giorno fatto, l’aria stravolta e io non potei far altro che gettarmi ai suoi piedi e chiedergli scusa.
Mi tranquillizzò; mi disse che mio fratello aveva capito la situazione e che conosceva un medico in grado di curare il suo male. «Partiremo domani all’alba. Tuo fratello ha promesso di portarmi da lui, e io voglio guarire. Per te, Ysseult.»


Lo lasciai andare. Seppi che questo medico abitava in un altro paese, di là del mare, ma non doveva essere molto lontano perché i preparativi furono rapidi e i bagagli leggeri.
Passarono i giorni, e mi lasciai un mese alle spalle. Un temporale mi sorprese mentre cercavo funghi con la mia gerla nel bosco e mi riparai in una piccola grotta aspettando che spiovesse.
Mi addentrai per evitare i chicchi di grandine più grossi e scoprii un ambiente più grande. Al centro c’erano due statue posate su di un piedistallo, e ai loro piedi, come offerte pagane, fiori secchi, frutti e vesti colorate. La statua più grande ritraeva un essere appena abbozzato nel legno di ciliegio, con una maschera di carta sul viso. All’anulare sinistro della figura splendeva una gemma rossa come il sangue.
Che significava tutto quello? Che senso aveva quell’anello al dito di quel mostro?
Raccolsi le mie cose e me ne andai, incurante del tempo da lupi che infuriava all’esterno. Tornai a casa di corsa e voltandomi indietro capii d’essere tornata per quella stessa strada per cui s’erano incamminati mio fratello e mio marito quella sera.
Era come se gli occhi di quella statua, appena abbozzati e colorati con del gesso azzurro, mi avessero seguito sino a casa, e mi sembrò addirittura di udire una risata sinistra correre per il vento che ululava tra le fronde degli alberi.
Serrai ben forte l’uscio e pregai con tutta l’anima che il buon Dio facesse cessare quelle voci che mi ronzavano in testa e che mi sussurravano che, forse, mio marito c’entrava qualcosa in tutta quella faccenda.


Al suo ritorno, era come trasfigurato.
Gli chiesi com’era andato il viaggio e se la cura presso quel medico avesse portato un qualche beneficio. «Sono ancora convalescente, ma sto già meglio. Ti chiedo di portare ancora pazienza, Ysseult…» 
E io pazientai.
Ma anche la pazienza dei santi ha un limite, e io non sono certo una santa.
Mio marito non mi stringeva a sé, voltandosi dall’altra parte ogni notte dopo più di un mese di lontananza, adducendo la sua convalescenza come scusa; non aveva animo per rendermi la sua sposa, eppure le forze per correre dietro a lepri, orsi e cinghiali c’erano, e in abbondanza! E intanto, mentre mia madre chiedeva a gran voce un nipote da stringere al petto, il sospetto che quella stanza grottescamente arredata fosse frutto dell’opera di mio marito non mi abbandonava un solo istante.
Una mattina non sopportai più quell’angoscia e mi decisi.
Dissi alla mia famiglia che sarei partita in pellegrinaggio da sola per la vicina abbazia per chiedere la grazia per un figlio. Lui non batté ciglio. Si limitò a raccomandarmi di essere prudente e di arrivare prima che scendesse la notte.
Io partii, ma al monastero non mi videro mai. Mi nascosi in un anfratto seminascosto della grotta ed attesi. Se lui aveva qualcosa a che spartire con tutta quella storia, non avrebbe perso tempo per recarsi in quella grotta.
E infatti, venne.
Verso più o meno l’ora terza, sentii dei passi calpestare la ghiaia che ricopriva l’ingresso della grotta. Col cuore in gola, temendo non si trattasse di mio marito ma di qualche malintenzionato, mi diedi della stupida e mi nascosi il più possibile nel mio angolino.
E se mi avessero vista? E se non si fosse trattato di lui, ma di qualche adoratore del demonio? 
La statua con l’anello mi fissava e io temevo che si sarebbe animata e avrebbe rivelato il mio nascondiglio, indicandomi con la mano ed urlando “Eccola, è lì!”. 
E a quel punto? Cosa avrei fatto? 
Sarei stata sacrificata a lei in nome di una qualche oscena religione?
Trattenni il fiato non appena vidi le ombre sbucare da dietro un’ansa di roccia.
«Eccomi a te, mia amata Ysseult…»
Mio marito! Mio marito!
Mi feci coraggio e sbirciai. Si era avvicinato e ora se ne stava davanti la statua con l’anello in adorazione, come si confà ad un santo. Le rivolgeva parole d’amore, audaci e appassionate, e si struggeva per lei come se fosse stata davanti ai suoi occhi.
Mio fratello, che era al suo fianco, se ne stava inginocchiato ai piedi dell’altra statua, tenendole la mano con reverenziale fervore. Anche lui, al pari del cognato, rivolgeva a quello sbozzato pezzo di legno parole accorate e piene d’amore: non sembravano rendersi conto di trovarsi in una grotta spoglia e umida dalle pareti ricoperte di muschio; a sentire i loro discorsi, erano in un salone pieno di luce e specchi, con pietre preziose alle finestre, marmo come pavimenti e sete e broccati che pendevano dal soffitto.

Ysseult, la chiamava. Possibile che mio marito fosse impazzito e avesse intagliato una statua scambiandola per me?
Eppure, io non avevo un anello come quello della statua, né i miei occhi erano del colore del cielo. O ero la Gemma d’Irlanda.
Mi tappai le orecchie, disgustata. Avevo deciso di uscire allo scoperto e porre fine a tutta quella follia, quando sentii qualcosa che mi gelò sul posto.
«Ricordi, amor mio? Tu eri appena diventata regina e ti trovasti a passeggiare nel verziere in compagnia del tuo seguito. Com’era facile vivere allora! Vedesti questo ramo», e tirò fuori dalla sacca ai piedi della statua un ramoscello di nocciolo con un caprifoglio essiccato tutt’intorno, «e tu facesti in modo di restar da sola con Brangagna. E fu allora che io uscii allo scoperto e ci amammo sull’erba umida. Ricordi la nostra canzone?»
Prese la sua cetra e cantò quelle stesse parole che qualche mese avanti avevo creduto fossero riferite a me.
«Mia dolce amica, così è per noi. Né voi senza me, né me senza voi.»
Poi mio marito baciò i piedi di quella statua e si lasciò andare ad un pianto accorato, mentre mio fratello si rivolgeva all’altra statua che faceva da ancella.
Rimasero entrambi nella grotta per quasi tutta la giornata, quindi, poco prima che il sole sparisse oltre il profilo delle colline, mio fratello, a malincuore, convinse mio marito a tornare a casa.
Un ultimo bacio alla statua tanto amata e via, verso casa ad attendere una povera idiota che non era capace di scalzare il ricordo di un pezzo di legno dal cuore di un uomo.
Come fui certa che fossero lontani, uscii. Osservai la scena, le statue e il muschio alle pareti. Lanciai un’occhiata compassionevole a quei fiori freschi depositi ai piedi dei due idoli – perché di idoli si trattava – e il loro odore mi diede la nausea. Mi sembrò che la mia rivale di legno si stesse prendendo gioco di me; ero diventata folle come mio marito?
Bene, e allora lo sarei stata, ma modo mio. Mi lanciai contro la statua di Ysseult e la feci cadere giù dal suo piedistallo. Poi mi avvicinai all’altra e buttai giù anche lei, quindi presi a distruggere quel poco che c’era, devastando quella sala improvvisata. 
Ricordo che da bambina una violenta tempesta s’abbatté sul frutteto di mio padre. Ci rifugiammo nelle cantine di pietra ed attendemmo che il vento finisse di urlare e danzare impazzito sulle nostre teste. Quando uscimmo, rivedemmo le stelle bucare il cielo nero. E tutt’intorno, non c’era più niente che potessimo riconoscere. Tetti scoperchiati, carri ribaltati, animali morti in ogni dove e la stia dei polli in cima al vecchio melo.
Ebbene, quello spettacolo spettrale non era nulla se paragonato a come resi la stanza allestita da mio marito in quel tugurio. Accesi la lanterna e la gettai sulla statua. Attesi che il legno prese fuoco e me ne andai senza voltarmi.
Perché, nonostante io l’avessi fatta a pezzi ed avessi di fatto distrutto la mia rivale, sentivo la statua deridermi nella testa? Era come se mi stesse dicendo: «Puoi farmi a pezzi quante volte vuoi. Solo io conto per tuo marito. Io. Non tu.»


Mi recai al monastero e rimasi in preghiera per tutta la notte.
All’alba, mi feci coraggio e tornai a casa. Non sapevo se dire tutto a mio marito, o vivere sapendo cosa facesse nel bosco e chi invocasse quando pronunciava il mio nome a voce alta nel sonno, facendo finta di niente.
E io che speravo si trattasse di me, che pur impossibilitato nel corpo, mia amasse almeno con lo spirito…
Quando tornai a casa, lo trovai ammalato a letto.
«Dove sei stata finora?», mi rimproverò mia madre. «Tuo marito è caduto dalla scala aiutando tuo fratello ed ora sta morendo!»
Corsi da lui. Nonostante le menzogne, nonostante la follia e nonostante la presenza ingombrante di un’altra donna di cui io ero solo un pallido riflesso, come la luna in confronto al sole, nonostante tutto, io amavo mio marito.
«Caerdino è andato a chiamare il medico che mi guarirà», mi disse stringendo le mie mani bianche. «La mia vecchia ferita ha ripreso a sanguinare e adesso, nonostante il sangue si sia fermato, ho una grande febbre…»
«Dov’è questo medico?», gli chiesi asciugandogli il sudore dalla fronte con le mie mani.
«Nel mio paese natale. È il medico di corte, l’unico che ancora è dalla mia parte.»
Il medico di corte.
«E se non dovesse venire?»
«Sappi che, grazie a lui, mi sono rappacificato con mio zio Marco. Manderà qui sua moglie, la Regina, che conosce mille rimedi potentissimi. Lei mi guarirà.»
Mio marito stava morendo, eppure aveva ancora la forza di mentirmi. Mio marito stava morendo e trovava ancora la forza di sperare nel suo amore oltre il mare!
Mi rassegnai. Ormai l’avevo perso; anzi, a voler essere spietati, non l’avevo mai posseduto. Se aveva manifestato del sentimento per me, era solo in virtù del nome che mi legava alla donna che amava, quella stessa Ysseult che aveva scolpito nel legno per poterla avere sempre accanto e amare da lontano, non potendo avvicinarsi a lei.
Mi rassegnai ad essere la sua infermiera, e a restargli accanto sino a quando non fosse arrivata quell’altra donna che me l’avrebbe strappato per sempre.
È inutile lottare contro la corrente. Ci si sfianca senza alcun risultato. 


Ci trasferimmo in città, in una casa con le finestre che davano sul mare. Io accudivo mio marito, che più s’acuiva la malattia più delirava e invocava il nome di quella donna. Tutti credevano chiamasse me, ma io sola ero a conoscenza della verità, e più i suoi lamenti si facevano accorati e strazianti, più io mi sentivo dilaniare dalla gelosia.
Arrivai anche a pensare che sarebbe stato un bene per tutti se quella donna non fosse mai sbarcata. Forse mio marito avrebbe rinunciato a quell’amore impossibile e io avrei avuto una possibilità. Che una regina lasciasse il trono, la ricchezza, i gioielli e gli svaghi e la vita di corte, tutto per il suo drudo era quantomeno impossibile. Si sa come sono questi amori cortesi: facili e divertenti da vivere mentre si è nell’agio e nella gioia, salvo sciogliersi al sole quando le cose si fanno difficili.
Sarebbe stata in grado di amarlo ancora quando il raccolto sarebbe andato a rotoli per colpa di una grandinata fuori stagione? E se un incendio avesse devastato la loro stalla? E se una carestia si fosse abbattuta sulle loro teste?
Mio marito, anche se chiamarlo così è un eufemismo, non si poneva di queste domande. Aveva altre pene. Delirava. L’accusava di non amarlo più, di averlo sostituito con un altro uomo, più forte, sano e bello di lui. Piangeva e le assicurava che anche se il suo amore era generato da una bevanda, non per questo era meno vero ed intenso di un qualsiasi altro legame.
L’ammoniva. «Bada, Ysseult», le diceva, «che tu non pianga quando io non sarò più tra i vivi. Adesso ridi di me, ma dopo… dopo piangerai!»
Io dicevo a tutti che le forti febbri che lo debilitavano gli avevano sconvolto la mente. «Non sa quello che dice», spiegavo, mentre sapevo benissimo che non era vero.
Bugie. Il mio matrimonio è stato tutta una grande bugia di cui io ero complice.
Potevo smascherarlo, è vero. Avrei potuto farlo, e forse ne sarei uscita con le ossa meno rotte di adesso. Ma sarei stata felice?
Avrei passato notti insonni a piangere, lo so; mi conosco. E se questo è capitato a molte di voi, e se pensate frasi come «poi passa», lasciate che vi dica una cosa: certi dolori, di quelli che spaccano il cuore a metà come una pesca sugosa, non passano. Si affievoliscono, certo, ma restano sempre lì, a farti compagnia come un cagnolino fedele, come un’ombra che non si vede fino a quando non si passa di fronte alla candela.
Sarebbe successa la stessa cosa a me. Se avessi denunciato il tradimento di mio marito, lui se ne sarebbe andato, scacciato e vituperato dalla mia famiglia, e il disonore avrebbe colpito anche Caerdino, suo complice, suo braccio destro in quest’intrigo. E una notte, dopo aver pianto tutte le mie lacrime, non credete forse che mi sarei alzata e in silenzio sarei partita da casa mia per chiedere il suo perdono, e stargli accanto?
Perché? Perché io, nonostante tutto, l’amavo, ed ero sincera davanti al prete.
In ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finché Morte non ci separi.
Così, decisi di stringere il cuore e di restargli accanto, ingoiando fiele e gelosia, giorno dopo giorno, e nascondendo il mio dolore dietro ad una maschera.


Quella mattina il vento spirava dal mare.
Io sedevo alla finestra, mentre Tristano giaceva disteso sui cuscini che via via avevo aggiunto al suo giaciglio. Riposava, ed io prendevo un attimo di requie dalla notte passata a vegliarlo. Era una giornata limpida, con il cielo terso e il mare piatto come una tavola.
Oramai, mio fratello e quella donna avrebbero dovuto già far ritorno dalla Cornovaglia. Tempeste non ve ne erano state, né i pirati infestavano quel tratto di costa; dunque, cosa mai aveva potuto ritardare tanto il loro ritorno? Forse, come avevo pensato con una punta di malizia, il grande amore della mia omonima non aveva retto alla prova e lei aveva scacciato mio fratello dalla sua vista, rinnegando persino il sentimento che la legava a Tristano?
Forse era andata proprio così. Sorrisi a quel pensiero, e sebbene avessi augurato del male al mio stesso sangue, non me ne pentii: dopotutto, lui stesso non aveva forse tradito me, carne della sua carne, per un’altra donna?
«Ysseult…»
Mi voltai inquieta. L’effetto della medicina che gli aveva somministrato il cerusico non era mai stato così lieve da svanire nell’arco di un paio d’ore. Anzi, spesso e volentieri dormiva dei sonni saporiti per un tempo ancor più lungo di quello preventivato dal medico.
«Ysseult… Sta arrivando, vero?»
Alzai lo sguardo in direzione del mare, ancor più inquieta. Una sagoma si profilava all’orizzonte, lì dove cielo e mare diventavano una cosa sola, un’unica sfumatura di azzurro.
«La nave… Le vele…»
Mi voltai verso di lui. Tristano si era alzato ed aveva raggiunto il fondo del letto sorreggendosi sulle braccia stanche. «Ti prego», implorava, «dimmi che la nave sta arrivando in porto. Dimmi che le vele sono bianche…»
«Sono troppo lontani, ancora. Non vedo nulla», e mi rimisi di vedetta, i suoi occhi puntati sulla mia schiena.
Mezzora dopo, mio marito riprese a chiedere: «E adesso? Vedi qualcosa, vedi meglio?».
Risposi ancora di no, e così anche la volta successiva, mentre vedevo chiaramente la nave avvicinarsi al porto, le vele gonfiate dal vento gentile.
«Bugiarda! Tu menti!», gridò allora lui, e prese ad inveire contro di me e contro la mia gelosia. «Sta arrivando! La Regina Ysseult sta arrivando! Sento già il profumo di grano dei suoi capelli!»
Io scossi la testa. «Non vedo ancora nulla…», risposi mortificata. Il cielo era limpido, poteva accorgersene anche lui dalla porzione di finestra che vedeva.
Si chiuse nel suo silenzio un’altra volta, poi, quando ritenne che la nave si fosse avvicinata maggiormente, chiese di nuovo se avessi visto qualcosa.
Risposi di sì. Che altro avrei potuto fare? Non sono mai stata abile a mentire, specie se l’oggetto della menzogna era davanti a me, che proseguiva vento in poppa e vele spiegate verso il porto, causando la mia rovina e la fine del mio matrimonio.
Perché se lei era venuta, era per restare con lui. Per strapparmelo e riprendersi ciò che era suo di diritto. Io l’avevo sposato, ma il cuore di Tristano era rimasto accanto ad Ysseult di Cornovaglia.
«E le vele? Dimmi, di che colore sono le vele?»
Guardai Tristano e non capii. Che senso aveva quel particolare, adesso? La nave stava rientrando in porto, e a breve la mia rivale sarebbe entrata per quella porta che vedevo all’estrema sinistra della parete alle sue spalle, e lui mi chiedeva delle vele? Era impazzito del tutto.
«Di… di che colore?»
«Sì», implorò lui. «Dimmi, sono bianche o nere?»
La sua voce aveva perso quell’accento forte e sicuro che mi faceva fondere come burro in padella quando parlava, ma riuscii lo stesso a cogliere la sfumatura di quella domanda. Bianche. Le vele della nave che lui aspettava dovevano essere bianche. Forse significavano la presenza della regina a bordo? Oppure, una qualche altra diavoleria escogitata assieme a mio fratello?
Mi voltai. Le vele della nave erano candide come la spuma del mare. Sì, qualsiasi cosa stessero a significare, erano un segno positivo.
«Dimmi, ti prego…», implorò ancora una volta, «di che colore sono le vele?».
Lessi la speranza sul suo volto e nel suo cuore. Amore. Rividi in quegli occhi segnati dalla malattia la stessa indicibile frenesia e lo stesso pudore che avevo scorto nei miei la mattina delle mie nozze, quando mia madre aveva fissato il velo nuziale sui miei capelli. Era troppo.
«Nere. Le vele della nave sono nere.»
Non sono mai stata brava a mentire. Ogni qual volta che dicevo il falso, mia madre, mio padre e mio fratello mi scoprivano subito e mi smascheravano senza tante cerimonie; eppure, fui credibilissima quando soffiai fuori la mia risposta, seduta davanti alla finestra con il sole che illuminava i miei capelli d’ebano e le mie mani di neve.
Tristano sbiancò. «Nere, hai detto?», e io annuii, tornando a guardare fuori. Lo sentii prendere posto sotto le coperte, tirarsele su e respirare pesantemente.
E poi il mio nome, anzi: il suo, ripetuto per tre volte.
«Ysseult… Ysseult… Ysseult…»
Poi, il silenzio.


Gli esseri umani sono creature che sfiorano il patetico.
Tuonano dai pulpiti contro il tradimento e l’adulterio, eppure sono questi i temi per cui le donzelle e i donzelli sospirano d’amore, ed i disdicevoli peccati messi alla reprimenda dalla Chiesa e dal buoncostume resistono più delle opere pie.
Il traditore è assolto, in nome di una virtù superiore per la quale agisce.
Al cor gentil rempaira sempre Amore, cantava qualcuno, come se l’Amore potesse giustificare qualsiasi trasgressione alla Legge. Per Amore, mio marito morì, e per tenerezza la sua amata Regina lo seguì. Loro, che spezzarono il mio cuore senza tanti problemi, loro che mi illusero e resero il resto della mia esistenza un inferno, sono portati ad esempio alle coppie di giovani amanti, insieme a quello sciagurato di mio fratello e a quella servetta di cui s’era invaghito. Traditrice, mi urlò dietro.
Io. 
Io!
E loro, allora? Loro, che mi circuirono come lupi travestiti da agnelli, cos’erano loro? Cos’erano, senza le belle maschere che indossavano ogni mattina davanti agli altri?
E la traditrice sarei io? Ho tradito un traditore. Il mio peccato si annulla da sé.
E che Iddio onnipotente abbia pietà di me, ma se mi trovassi di nuovo a dover rivivere quel momento… lo rifarei. Mentirei, anche a costo di finire all’inferno, perché non c’è stata gioia più grande che quella di vedere la maschera del perfetto amante che mio marito aveva tanto a cuore, andare in mille pezzi insieme al suo cuore.
L’ha maledetta sul letto di morte.
E poi sarei io, la traditrice?

 
   
 
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