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Autore: KittyPryde    08/12/2004    4 recensioni
Mullin... venti medaglie
[Mullin Shetland]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mullin Shetland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In riferimento all’articolo 8 della legge 23/b il Ministero comunica che è stata fissata al giorno 31 del corrente mese la data per l’ultima chiamata alle armi

L’avviso era esposto diligentemente sul portone principale dell’accademia e in molte bacheche pubbliche della Città Imperiale e dei comuni che la circondavano; ogni anno, da quando era cominciata la guerra, era la stessa storia che si ripeteva, lo stesso avviso affisso ai portoni delle accademie, la stessa, ultima, chiamata alle armi.
Aveva un tono quasi macabro, nero su bianco come volantini pubblicitari, asettico come solo un decreto legislativo sapeva essere; la parola “ultima” buttata lì per caso, impegnata a muovere l’animo sovversivo e patriottico di ogni giovane soldatino di Anatore, aveva il suono cupo del non ritorno.
L’avviso veniva esposto ogni inverno, ogni dicembre ghiacciato e senza neve, e ripeteva le stesse parole di anno in anno, soltanto l’età minima per poter essere ammessi al concorso si abbassava in proporzione inversa al numero dei morti, che aumentavano ad ogni nuova battaglia.

Quando risposi alla chiamata avevo sedici anni, e tra le fila di aspiranti cadetti c’erano ragazzini che non raggiungevano i quindici, ma io ero troppo piccolo e fanatico perché un particolare così irrilevante mi facesse odiare la guerra…
Il corso accelerato per imparare il corretto utilizzo del fucile a vapore durava pochi mesi, poi venivamo spediti, in prima linea, sulle navi da guerra di Anatore.
Quando compilai la domanda per entrare a far parte dell’esercito, rimasi estasiato ad osservare le divise ordinate degli ufficiali che presiedevano alle operazioni di smistamento per i nuovi eserciti; riuscivo solo a pensare che anche io ne avrei indossata una uguale, con le decorazioni sul petto e i gradi cuciti in filo d’oro.
Alla stampa e nei comunicati ufficiali venne detto che il Ministero della Difesa avrebbe accettato al massimo cinquecento nuove leve, ma potei constatare con i miei occhi che i cadetti impegnati nel corso di addestramento erano per lo meno il doppio.
Il clima, tra i commilitoni, tutto sommato, mi piaceva; facevamo finta di conoscerci da una vita e andavamo a donne come gli ufficiali ai quali invidiavamo la divisa, rientrando appena in tempo per il coprifuoco, spesso gonfi di vino fino a scoppiare.
La nostra era una bella vita di breve durata, un purgatorio promettente che si esauriva in un inferno in grado di deludere le nostre aspettative vanagloriose.

La prima linea era quella dei fucilieri, ce la descrivevano come “un grande onore per le nuove leve”, ma a tutti noi sembrava solo un massacro con poco senso del quale avrebbero tenuto poco conto.
Fu allora che la guerra mi fece vomitare, come mi fece vomitare la paura il giorno della mia prima battaglia, sul pavimento asettico dei gioielli da massacro di Anatore… ma non mi tirai indietro; un ragazzo della mia età che cresceva nel mezzo di una guerra di tale portata, senza particolari attitudini o talenti aveva poche possibilità di scelta, e quella della carriera militare risultava spesso una decisione forzata.
Ero un testardo che voleva mettersi in gioco a tutti i costi, un testardo che non aveva capito quanto quel gioco potesse mettere a rischio la vita, un testardo al quale non avrebbero accordato il permesso di ritirarsi.

Ci fecero partire, stipati come profughi, zitti come topolini spaesati; i pochi che si azzardavano a parlare lo facevano a bassa voce per esorcizzare la paura del silenzio.
Prima che aprissero il portello che ci separava dai fucilieri nemici, vomitai anche l’anima sui pantaloni perfetti delle divise di Anatore.
Quando chiusero il portello alcuni dei miei compagni di sbronze erano morti.
Quando mi consegnarono la mia prima medaglia per essere tornato vivo dalla missione la appuntai sulla divisa rispettando il luttuoso silenzio con cui si ricorda chi, a quello stesso traguardo, non era riuscito ad arrivare.
Nessuno ci parlò mai di cifre e percentuali, nessuno accennò al numero di fucilieri caduti; fummo noi, sfacciati fortunati che superavano una battaglia dopo l’altra, a tirare le somme, ubriachi di birra e colpi di fucile, con il fegato grosso, cinicamente seduti al tavolino di un’ennesima locanda, scommettendo sulla nostra vita e mettendo a testamento uno spazzolino da denti, una catenina d’oro, fedi, fotografie, i pochi beni in nostro possesso… e c’era sempre qualche stronzo che si faceva prendere dalla tristezza reale delle nostre sbornie allegre, e pregava chi sarebbe rimasto vivo di consegnare questo o quell’altro oggetto ai familiari.
Il malcapitato piagnucolone che finiva con il rovinare la serata a tutti, però, non sono mai stato io, non avevo molto da perdere del resto

Venti medaglie per passare al grado superiore, per potersi avvalere del libero arbitrio e decidere su quale nave farsi ammazzare nella battaglia successiva; un tirassegno a punti, ogni giorno, sulle navi di Anatore, contro le sagome di cartone che sterminavamo per tenerci in allenamento.
Solcavamo un cielo giallo di tempeste sabbiose, malato di itterizia e puzzolente di cadaveri.
Quando noi, sfacciati rottinculo, salutavamo con le dita tese sulla fronte le navi che colavano a picco, mi domandavo sempre quanto potessero essere sbrigativi i funerali delle vittime di un’intera nave, quanto sarebbero stati poveri i miei la volta in cui la fortuna mi avrebbe voltato le spalle…
Soffiavano venti di tramontana, gelidi nel cielo alto di Disith come in quello di Anatore, non eravamo tanto diversi, in fin dei conti, a mille miglia dalla terra, sospesi senza fili con la voglia e la paura di buttarsi o di cadere.
Il saluto militare si esauriva in un momento di silenzio che occupava tutto il cielo e, tra le nuvole gonfie di sangue e scoppi di fucile capivo cosa significasse desiderare la pace.
   
 
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