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Autore: Stregatta    01/07/2008    6 recensioni
Helena non faticava a pensare che la bellezza fosse davvero l’unica forma di Genio esistente, come aveva letto tante volte sul suo romanzo preferito. Ne aveva la prova davanti agli occhi proprio in quell’istante.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Brian Molko, Nuovo personaggio
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Art
Disclaimer: come al solito...Non è a scopo di lucro, non è vero e non è uno scritto redatto al fine di offendere i protagonisti, con il quale non ho alcun rapporto nella realtà.
E sempre come al solito...Enjoy it XD!

Art for art’s sake



Le molle della poltrona scalcinata del soggiorno mugolarono di disappunto quando Helena si lasciò cadere a peso morto sul cuscino sgualcito che la decorava stancamente con la sua stinta fantasia floreale.
Era come se il mobile lamentasse la stessa stanchezza della ragazza che ne stava usufruendo.
Quel giorno Helena era letteralmente a pezzi.
Sospirando, cinse le proprie tempie con le dita, massaggiandole circolarmente nella speranza di spazzare via il mal di testa incipiente che la affliggeva.
Gesto inutile : la ragazza era fin troppo consapevole del fatto che quel dolore leggero presto sarebbe sfociato in un’emicrania lancinante.
Nonostante i suoi piedi gridassero di protesta, Helena si alzò lentamente dal suo posto per recarsi nella piccola cucina del proprio appartamento.
Di quel locale, appena illuminato dalla luce di un sole ormai fin troppo vicino alla linea dell’orizzonte, un dettaglio in particolare attirò l’attenzione della ragazza.
Un cesto posato con cura al centro del tavolo colmo fino all’orlo di mele rosse e luccicanti.
Nonostante fosse esausta, non potè trattenere un sorriso di fronte a quello spettacolo.
Una natura morta caravaggesca persa nell’acciaio che imperava in quella squallida cucinetta per il quale l’affittuario si faceva pagare fin troppo.
Una goccia d’arte affogata nell’untuosa pozza della realtà circostante.
Quasi le dispiacque quando si trattò di smontare l’equilibrio perfetto di quei globi rossi e lucenti per rubarne uno.
Fece rimbalzare la mela sul palmo un paio di volte, distrattamente, e uscì dalla stanza per tornare in soggiorno.
Bypassò completamente la lusinga consunta che la poltrona e il divano stavano offrendo alle sue gambe pesanti per fermarsi di fronte ad una parete dell’ambiente.
Una parete molto particolare…
La carta da parati quasi non si intravedeva più, coperta com’era da decine e decine di foto : piccole o grandi, a colori o in bianco e nero che fossero, il soggetto rappresentato era sempre e solo uno, e in una delle foto più grandi risaltava in tutto il suo splendore.
Un uomo, assorto in chissà quali pensieri che lo spingevano ad assumere un’aria stranamente corrucciata.
Helena sorrise di nuovo.
Adorava quell’espressione sul suo volto.
Le palpebre abbassate, due ventagli di ciglia nere proiettati verso i suoi zigomi, le labbra piegate in una smorfia concentrata.
Il bianco e nero estrapolava quella figura affascinante da ogni contesto temporale, rendendolo irreale, perfetto ed eterno.
Helena non faticava a pensare che la bellezza fosse davvero l’unica forma di Genio esistente, come aveva letto tante volte sul suo romanzo preferito.
Ne aveva la prova davanti agli occhi proprio in quell’istante.


Era stato divertente il modo in cui il caso le aveva fornito su un piatto d’argento quella splendida apparizione, trasformando una delle giornate potenzialmente più nere della sua vita in un momento di esaltante epifania.
Come tutte le mattine, si era recata alla sede della rivista scandalistica presso il quale malvolentieri lavorava ( sottopagata ) come fotografa.
Non era per sfoggiare sterili snobismi che Helena ci tenesse a puntualizzare con chiunque di essere costretta da diversi fattori ad essere un paparazzo, ma solo per prendere le distanze da quell’attività che a suo parere sviliva il contenuto dell’arte della fotografia.
Fermare il tempo. Abbellire l’attimo catturato, rivestendolo a nuovo delle proprie emozioni, dei propri ricordi.
Dare ad un avvenimento un punto di vista solo apparentemente impersonale.
Perché anche solo un cambiamento climatico, un raggio di luce in più o uno in meno potevano concorrere a fornire un’interpretazione del tutto differente del soggetto fotografato.
Ma a fotografare vip più o meno conosciuti non si faceva nulla di tutto ciò.
Le vite di quella gente apparivano offuscate, a grana grossa, imbruttite dal teleobiettivo invadente e becero che detestava maneggiare a quel modo.

Quel giorno il suo capo l’aveva chiamata nel suo ufficio per la solita, noiosa, irritante ramanzina sulla propria incompetenza e mancanza di dedizione al lavoro, minacciandola con un dito grassoccio puntato verso il suo naso :
- …sai quanto non mi piacciano questi tuoi capricci da artistoide fallita, Berg. Cominci seriamente a darmi sui nervi.-
Helena aveva raddrizzato la colonna vertebrale per affrontare con rigida determinazione quell’essere rivoltante.
- Artistoide? Forse. Ma fallita mai, signore.- affermò la ragazza forse con un filo di enfasi, che attirò una risata di scherno da parte del suo interlocutore, prima che riuscisse a replicare fra un singhiozzo o l’altro : - Già, già… Se ti licenziassi potresti tentare la carriera teatrale, sai? Di sicuro avresti più speranza di diventare attrice che fotografa professionista…-
- Mi creda, ne sono pienamente consapevole… Altrimenti non sarei ancora qui.- sibilò sarcasticamente Helena, abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe – consunte e solcate da minuscole pieghe sulla punta, testimoni della miseria nera nella quale versava – per non essere costretta a fissare negli occhietti porcini il suo datore di lavoro, che nel frattempo si era issato a fatica dalla poltrona dalla quale di solito sembrava incapace di scollarsi per avvicinarsi, seppur di poco, alla ragazza, mormorando con tono insinuante – il suo solito tono insinuante da maniaco porco debosciato e viscido  : - E pensare che io ho tante di quelle conoscenze, nel campo… Se solo ti decidessi ad essere un po’ più gentile con me potrei provare a…-
- Non aggiunga una parola.- lo zittì Helena quasi ringhiando, in preda al disgusto.
Non sopportava che la trattasse così ogni fottuta volta. Non sopportava quel suo modo di alitarle sul collo, quel suo modo di svilire le sue aspirazioni ed aspettative tentando di barattarle con del sesso facile.
Non lo sopportava più.
- Credi di essere nella posizione giusta per poter dettare legge, Helena…?- sorrise mellifluo l’uomo, allungando una mano per intrecciarne le dita sgraziate fra i capelli scuri della giovane : non ebbe il tempo di ritrarsi, quando lo schiaffo di Helena saettò a colpirgli una guancia rubiconda, appesantito da tutta la rabbia e la forza che la ragazza era riuscita a radunare da ogni angolo del suo corpo.
Lo schiocco sonoro del gesto le sembrò il rumore più agghiacciante che avesse mai udito in vita sua.
Non era nemmeno lontanamente paragonabile a quel “Non farti più vedere in questo edificio, puttanella da quattro soldi” con il quale quel gentiluomo del direttore la stava liquidando in quel momento.
…mai un insulto le era parso avere un suono più dolce.

Un gruppetto di bambini giocavano sullo scivolo, impolverati, con le ginocchia sbucciate e un sorriso perenne sui volti sereni e sudati.
Helena, seduta su una panchina poco lontana, sorrise suo malgrado di fronte a quello spettacolo di gioia e spensieratezza, carezzando affettuosamente la sua macchina fotografica come fosse un gatto addormentatosi sulle sue ginocchia.
Avrebbe dovuto essere tesa, triste e preoccupata per il suo futuro, per il fatto di aver perso l’unico barlume di ( seppur squallida e ripugnante ) stabilità della sua vita, per non parlare della sua sola fonte di sostentamento, per quanto magra fosse… Ma anche sforzandosi di setacciare le sue emozioni alla ricerca di una qualche traccia di negatività, Helena non riusciva a trovarne neanche una briciola : era anestetizzata da una sensazione di libertà che la pervadeva tutta in un moto di felicità pura e cristallina.
Una felicità fanciullesca, come quella di quei bambini laggiù.
La giovane reclinò il capo, chiudendo gli occhi : per ora le andava bene così.
Anzi, con un bel cappuccino dello Starbucks che si trovava di fronte all’entrata del parco sarebbe stato ancora meglio.


Con il bicchierone di cappuccino ormai quasi vuoto in mano, Helena passeggiava per il marciapiede a passi lenti, godendosi la limpida freschezza di quella mite giornata di fine inverno e guardandosi attorno, incuriosita di volta in volta da un dettaglio diverso : il barbone spiritoso che esponeva un cartello per l’elemosina che recitava a caratteri cubitali : “Ho bisogno di soldi per mangiare, con i bottoni ed i gettoni telefonici non ci faccio nulla, grazie!”, il gatto pezzato di rosso, nero, grigio e bianco che sonnecchiava a pancia all’aria sul davanzale di una finestra…
L’uomo sottile e vestito di nero che sostava di fronte ad un portone enorme, accendendosi una sigaretta con espressione indifferente.
Il sole lo illuminava in pieno, disegnandone con la propria luce i lineamenti fini ed armoniosi ed il contrasto fra la sua carnagione impeccabilmente pallida e i vestiti, i capelli e gli occhiali completamente neri.
Helena si voltò per guardarlo di nuovo, dopo averlo superato nel suo cammino.
Bello. Non il nonplusultra della mascolinità, ma davvero bello, e sicuramente consapevole di esserlo.
Insomma, sembrava essersi messo in posa, come se attendesse da un momento all’altro di venire immortalato in foto… Non era un atteggiamento da persona insicura.
…forse era un modello?
Bè, ad essere sinceri non credeva che la sua statura fosse sufficiente a farlo ingaggiare come modello da un’agenzia di moda.
Un vero peccato, perché probabilmente doveva essere anche molto fotogenico.
Senza che Helena se ne avvedesse, le dita della sua mano libera avevano artigliato la macchina fotografica che portava a tracolla, in una muta ed inconfondibile richiesta.
La luce era ottima… Lui sembrava ignaro della sua presenza, continuando a fumare la sua sigaretta ormai dimezzata tra un tiro e l’altro…Bastava azzeccare il momento in cui non vi fosse stata troppa gente di mezzo fra loro due…
Helena sentì la frenesia salire a passi incessanti dentro di lei.
Bevve l’ultimo goccio di cappuccino rimasto nel bicchiere di plastica per poi gettarlo in un cestino accanto a lei.
Tolse il tappo all’obbiettivo, afferrò saldamente l’apparecchio con entrambe le mani…
Clic!


Immersa nella luce rossastra dello sgabuzzino dell’appartamento adibito a camera oscura, Helena aspettò con impazienza che il volto dell’uomo emergesse dai flutti della vaschetta nel quale aveva affogato il piccolo rettangolo di carta che si sarebbe presto trasformato in una fotografia vera e propria.
Eccolo!, si disse la ragazza esultante quando finalmente l’immagine divenne nitida.
Lui, in tutto il suo splendore.


Così, sotto il bizzarro chiarore cremisi della stanza, battezzata da una miscela di composti chimici, era venuta alla luce quella che in tanti avrebbero potuto definire la propria ossessione.
Di certo quell’attrazione ne aveva tutti i tratti tipici.
Di lui non sapeva nulla. Ma proprio nulla di nulla.
L’unico risultato che aveva ricavato dai suoi dilettanteschi appostamenti era che praticamente ogni giorno, alla stessa ora, lui usciva fuori dal portone di quello stabile, si accendeva la sua brava sigaretta, consumandola in cinque minuti al massimo, e poi tornava dentro, a far solo Dio sapeva che.
Il resto aveva dovuto scoprirlo attraverso i giornali e le emittenti radiofoniche che ascoltava di solito ( visto il suo totale disprezzo per il tubo catodico ).
Non sapeva che lui fosse famoso. Neanche lo sospettava.
Aveva imputato quello strano senso di familiarità che gli ispiravano i suoi tratti a qualcosa di molto più “aulico”, molto più etereo e sottile…
Lo aveva riconosciuto come sua Musa.
Come se lo conoscesse da sempre, come se il suo cuore avesse accelerato i suoi battiti la prima volta che lo aveva incontrato per avvisarla del fatto che…Era lui.
Lo aveva eletto come sua fonte di massima ispirazione artistica...
…trovarselo spiattellato sulla copertina di un settimanale scandalistico era stata un po’ una delusione, di conseguenza.
Scoprire che il suo volto era passato sotto la lente distorta di un teleobiettivo da paparazzo le aveva fatto ribollire il sangue nelle vene dalla rabbia, pur comprendendo quanto fosse sciocco irritarsi per qualcosa di simile.
Ma la sua Musa era stata deturpata ed appiattita, e non poteva fare a meno di provare quel sentimento furibondo dentro di sé.
Per questo aveva seguitato a fotografare l’uomo da diverse angolazioni, con diversi filtri ed espedienti che le costavano davvero tanto, forse troppo.
Ma rinunciare al pranzo o alla cena non le era mai sembrato tanto facile, in cambio dello scatto perfetto, in cambio dell’Arte con la “A” maiuscola.
Ogni guizzo del suo sguardo, ogni piega assunta dalle sue labbra le parlava di uno stato d’animo diverso, e ad ogni nuova foto le pareva di conoscerlo meglio…
Quando poi era riuscita ad associare il suo volto alla sua voce, credette di averlo finalmente catturato in tutta la sua essenza.
L’immagine perfetta abbinata alla voce perfetta : distaccata, e un po’ narcisista…Come lui.


Helena tornò al presente, e alla sua mela color rubino che ancora splendeva debolmente nell’ultimo fulgore del crepuscolo che stava fuggendo via dal soggiorno.
Non accese la luce, la penombra le sembrava una compagna più consona da abbinare ai suoi pensieri, anche se la allontanava da lui, impedendole di vederlo…
D’altronde era abituata a restare nell’ombra, lei.
Era il suo compito, e non le dispiaceva poi tanto.
Dal buio possono nascere anche cose belle, pensò Helena con un lieve sorriso malinconico.
Se non ci fosse il buio sarebbe impossibile vedere le stelle.
La giovane si avvicinò alla parete delle foto, gli occhi puntati ancora sulla stessa di prima.
Allungò una mano, e le sue dita planarono come piume sulla guancia dell’uomo in una carezza inutile, poiché quest’ultimo non l’avrebbe mai avvertita sulla sua pelle.
La sua pelle… Che consistenza avrà mai avuto?
E i suoi occhi? Dal vero avranno brillato della stessa luce che ostentavano sulla pellicola?
Non aveva una risposta a quelle domande… Ma non le era mai importato, prima d’allora.
Forse era solo stanchezza, forse erano solo quelle dannate gambe gonfie e doloranti, forse era il fatto che quell’appartamento, come il suo cuore, non le era mai sembrata tanto vuoto, e buio…Ma senza nessuna stella a cui offrire il proprio colore come sfondo.
Le cadde la mela di mano, rotolando verso un angolo lontano del soggiorno, ma non ci badò granchè.
L’Arte, le Muse, lo Scatto Perfetto… Quella sera le sembravano davvero solo invenzioni stantie ed inutili, di fronte alla voglia che le era presa di toccare, assaggiare, carezzare lui…Brian. Per una volta lo avrebbe chiamato con il suo nome.
Helena si sedette pian piano a terra, ed ebbe la sensazione in quel modo di stare immergendosi lentamente nel buio sempre più profondo della sua casa.
Era così che avrebbe passato la sua esistenza? Persa nelle tenebre di quell’appartamento sgangherato, nel buio rassicurante ed alienante della piccionaia dalla quale assisteva quotidianamente alla ridicola messinscena della sua vita?
- No.-
Ebbe bisogno di pronunciarlo ad alta voce, per crederci veramente…
- No.-
…e dovette ripeterlo ancora una volta, per capire che…
- No.-
…che era vero. Che la sua vita non sarebbe sempre rimasta così, che quella stasi inconcludente sarebbe finita per sempre a partire da – perché no? – quella sera stessa.
Ricominciare da zero non le faceva paura, perché sapeva quale sarebbe stato il suo punto di partenza…E il suo punto d’arrivo.
Si rialzò in piedi, aguzzando la vista per intravedere la debole macchia lattescente del volto dell’uomo, della sua ex-Musa disegnata contro il muro che si faceva sempre più scuro col passare dei minuti, e con tono di sfida alzò il mento, esclamando : - Ti conquisterò, Brian Molko.-
Dopodiché allungò un braccio verso il vicino interruttore del lampadario principale, e accese finalmente la luce.

   
 
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