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Autore: Leonhard    17/03/2014    1 recensioni
Alessa Gillespie. La strega. Considerata la figlia del demonio da tutti...da tutti? Un episodio segreto della triste infanzia della bambina sta per sorgere...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alessa Gillespie, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Si, lo so: ho segnato come storia completa, ma questo è un caso particolare.

Qualche tempo fa (tipo verso dicembre, o giù di li) mi è stato chiesto di fare una oneshot in visto dell'uscita del secondo film di Silent Hill. Essendo un grande fan di questo titolo, non ho potuto che vedermi il film e, sempre in qualità di fan di questo titolo, ne sono rimasto...beh, non proprio soddisfatto. Quindi, per soddisfare tutti quanti (me e l'utente che mi ha richiesto quest'opera) ho fatto un po' quello che sono riuscito a fare in due ore di lezione (ricordo che io vado in facoltà per scrivere fanfic :P ) che mi potesse far dire “sono soddisfatto”.

Ebbene, il risultato è stato questo capitolo, un extra alla storia Leon che spero vi faccia venir voglia di leggere e rileggere tutto il malloppo.

Questo è il mio saluto al fandom Silent Hill. Spero che mi seguirete anche in altri fandom. Buona lettura a tutti.

Leonhard

 

 

La prima volta che l’altra me è uscita dalla stanza, la prima volta che mi ha lasciata da sola con Leon, mi sentii meglio: quella bambina mi metteva angoscia, mi inquietava. Ma ero veramente così prima di essere purificata? Ci credo che mettevo paura a tutti.

La prima volta che uscì avvolse la città con fumosa oscurità, ghermendo quanta più gente poteva. Quelli che non morivano sarebbero stati uccisi dopo. Quando tornò mi fece vedere la scena con i miei occhi, come se fossi andata io lì.

Come se avessi fatto io tutto quello.

Fece lo stesso quando portò via Leon.

Lei era sempre lì per me. Lei, la parte di me in grado di camminare e vedere, di sentire gli odori ed i suoi. Lei, la mia unica compagnia, che leggeva per me, trovava di che nutrirmi e di che passare il tempo. Facciamo così: lei d’ora in poi, sarà “Lei”.

Per mia zia, invece, richiesi un particolare tipo di ‘presenza’.

Sbucai fuori dal pavimento in legno, davanti agli occhi inorriditi di zia Cristabella. Lessi il terrore nei suoi occhi, mentre tutti gli altri si accalcavano contro la porta, nel tentativo di uscire di lì. l’oscurità, la polvere, la ruggine, il ferro, era tutto sotto il mio comando. E zia Cristabella davanti a me, con quello sguardo terrorizzato: era bellissimo.

E la uccisi, oh se la uccisi! La uccisi e la uccisi bene. Certo che la uccisi, la uccisi…la uccisi e la uccisi. La u-c-c-i-s-i, uc-ci-si. La sensazione del filo spinato, spuntato, ovviamente, che le penetrava le carni, quella sua ultima preghiera di rimanere pura me la presi con ferro e sangue.

E la uccisi. La UCCISI.

Nella mia camera, nel mio letto, era silenzioso come sempre. Il cigolio profondo delle pale, il brulicare di vermi dentro i muri e il sibilo delle braci sotto le grate di ferro del pavimento erano rumori che dopo trenta anni erano diventati parte di me, ormai. Lei mi aveva letto tanti libri, e con la mente fantasticavo. Sentivo il mio odio crescere senza scampo, ma ormai non avevo più nessuno da odiare. L’ultima volta che Lei venne aveva tra le mani un foglio.

“Forse ti aiuterà a passare questo periodo di solitudine che ti aspetta” disse. Solo questo, poi mi mise il foglio sulla tenda sopra di me e svanì. Gettai un’occhiata al foglio: c’era un paesaggio assolato, con il cielo azzurro e l'erba verde, tutto colorato grossolanamente con matite colorate. In mezzo al foglio, c’era la caricatura infantile di una persona. Una bambina. Sé stessa. Ricordò.

Ricordò che in un altro tempo, ormai irrimediabilmente perduto per sempre, lo aveva giudicato incompleto. Cosa mancava?

Zia Cristabella? Incredibile come quella persona, la stessa su cui aveva fantasticato per trenta anni, escogitando ed immaginando per lei le morti più atroci, lente e terrificanti, ora le mancasse. Pensò dovesse essere per la sua malinconia, il suo senso di smarrimento, senza qualcuno da odiare.

Leon? Sì, forse. ma ormai era un mostro, insensibile al dolore ed ai sentimenti, il suo unico scopo era girare per la città e compiere il suo volere.

 

Si ricordava del parco. A Silent Hill c'era un parco giochi. Era bello, colorato, divertente. La mascotte era un coniglio bianco. Sorrideva, il coniglio bianco. Agitava la mano, salutava i bambini, li attirava a sé. Sempre sorridente. A lui quel sorriso non era mai piaciuto fino in fondo. Aveva un che di maligno. Un sorriso circospetto, quasi sinistro. Un sorriso che prometteva cose. Cose belle e cose brutte.

Per questo lui non andava mai al parco giochi. Adesso il coniglietto bianco era in un ambiente che più gli si confaceva, secondo lui: sembrava meno una contraddizione, ma continuava a non piacergli. Ogni volta che ci capitava deglutiva e sperava di non doversi attardare troppo.

Era convinto che l'avesse disegnato.

Le piaceva disegnare e a lui piacevano i suoi disegni, Dio gli era testimone.

Adesso però Dio non c'era più e tutto quello che poteva fare era giurare, anche se non sapeva di preciso su cosa.

Sulla sua vita? Nah, giurare su qualcosa che non gli apparteneva era privo di senso.

Silent Hill era peggiorata da quando Alessa aveva trovato una mietitrice che potesse camminare alla luce della nebbia. Confondersi tra i sopravvissuti ed aprirle le porte che per quasi un lustro erano state saldamente barricate per lei. Così aveva fatto.

Sua zia era morta per merito/colpa sua, di questo suo...aspetta, com'era...? Ah, sì: Cavallo di Troia. Ricordava a scuola: i compagni, la signora maestra, l'Iliade, che aveva fatto tanto ridere con i suoi nomi assurdi su cui i più simpatici facevano doppisensi a non finire.

Adesso la sua aula era buia, silenziosa, con polvere e calcinacci sui banchi e sul pavimento. Nel vano sotto i banchi si era creata polvere, a ricoprire tutto cià che era rimasto là sotto: matite, penne, quaderni e cartelline, cancellini, gomme, fogli, evidenziatori e righelli, tutti coperti da uno strato di polvere. Beati i pennarelli, che non erano vivi.

Il suo compito lo svolgeva ogni tanto: il più del tempo lo passava a vagare senza meta in quella che era diventata Silent Hill. Alessa era diventata più spietata, più cattiva, più diabolica. Era cambiata.

La città aveva cominciato a marcire, mentre la notte durava molto più del giorno e molto più del solito. Non parlavano praticamente più: una volta si facevano tante chiacchierate, in un angolo comune del suo cervello grigio e martoriato.

Si trovavano nella sua camera, seduti sul suo vecchio tappeto rosso, a parlare e parlare e parlare. Aveva fatto passare i mesi, gli anni così, ma adesso quella stanza nella sua mente era vuota e silenziosa. Allora si sedeva su quel tappeto rosso e parlava da solo, immaginandosi la vecchia Alessa davanti a lui, che lo guardava con un mezzo sorriso intimidito e che a tratti allungava una mano nella sua direzione, cercando un contatto.

In fondo, pensava, anche lei ha paura di ciò che sta facendo. Ciò che li circondava non era nebbia e neve, ma fuoco, metallo e ruggine. Ciò che si sentiva non era il lento e delicato posarsi della neve a terra ed il lieve, quasi impercettibile fruscio della nebbia che avanza, ma un forte, sinistro clangore ed il lamento disperato di centinaia di...cose...sepolte nelle spaccature roventi.

Non erano nel paradiso di Alessa, ma nell'Inferno di Lei.

In quel posto non era nato per far star bene Alessa, ma per far morire chiunque altro.

Alessa gli chiese di andare al parco giochi. Proprio lì? Chiese lui. La donna conosceva il motivo per cui era restio ad andare, ma non era disposta a discutere con lui. Ripeté l'ordine con voce più decisa. Lui si volse e con movimenti lenti s'incamminò verso il parco giochi, senza aggiungere niente.

Percepì Alessa come “passeggera”. Non era nulla di strano, in fondo, avere un'entità demoniaca all'interno del corpo: era come se l'avesse caricata sulle spalle.

Il luna park lo accolse con la sua insegna, una volta bella e sgargiante, con tante luci e tanti suoni, adesso silenziosa ed arrugginita, decisamente poco invitante. Attraversò la biglietteria, cercando di far finta di non vedere i coniglietti bianchi abbandonati per il parco. Una ragazza gli tagliò la strada: quella stessa ragazza che, a detta di Alessa, avrebbe dovuto seguire e proteggere.

 

Quando Alessa entrò nel suo corpo, la mente di Testa di Piramide sembrò svuotarsi completamente. Smise di girare e la giostra di fermò su un corridoio sotterraneo. Lasciando andare avanti quella ragazza, la “sorella” di Alessa

Sorella, figlia, stessa persona...ha senso, ormai?

provò a tornare nella sua stanza. Nella camera col tappeto rosso. Non c'era più nessuno e non era nemmeno in grado di immaginare Alessa. Allora si sedette, ma non parlò: si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che lo aiutasse a ricordare quella ragazza con cui aveva parlato per tanto tempo, ma che non riusciva a ricordarsi il volto.

Vide un foglio poggiato su quello che una volta era stato il suo letto e lo prese. Fu solo in quel momento che vide. Era bizzarro come non se ne fosse mai accorto, sebbene l'avesse sempre avuto sotto gli occhi. Il suo braccio era muscoloso e piagato e chiazzato di carne marcescente, la sua pelle era di un disgustoso colore oscillante tra l'ocra ed il verde fango.

Alessa non aveva mai parlato di marcescenza, di una lenta e progressiva morte. Ma lei voleva quello e lui glielo avrebbe dato. Da quanto tempo, sperava di morire?

 

Guardò il disegno e si chiese come avesse fatto a dimenticare Alessa. La sua fidanzata, quella ragazzina spaventata e guardinga. Scese dalla giostra e seguì il corridoio. Avrebbe dato la vita, sarebbe marcito lentamente e sarebbe caduto a pezzi, ma l'avrebbe protetta. Avrebbe vegliato su di lei.

Tutto pur di rivedere i suoi capelli, ciò che l'aveva affascinato anche prima che Silent Hill “saltasse”.

Tutto pur di rivedere i suoi capelli biondi.

Tutto.

   
 
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