Once in a lifetime
Di Elwerien
One day your story will be told,
One of the lucky ones, who’s made his name
One day they’ll make you glorious,
Beneath the lights of your deserved fame.
[James
Blunt, “One of the brightest stars”]
Se qualcuno l’avesse visto in quel momento, avrebbe
potuto considerare quella scena uno spettacolo triste.
Non era normale che un ragazzino tanto giovane sedesse in
un luogo tanto sperduto. Da solo, per di più.
Ma Kakashi Hatake aveva da tempo rinunciato alla
spensieratezza dell’infanzia. In fretta erano stati abbandonati i giochi
puerili, per essere sostituiti da kunai, shuriken e racconti di quella guerra
che imperversava fuori dalle sicure mura di Konoha. Il ragazzino che sedeva con
le spalle innaturalmente curve davanti ad un blocco di pietra portava un
coprifronte: era un ninja, un combattente. Un jonin.
Pareva non pensare a nulla, seduto in mezzo alla radura
con gli occhi chiusi. Un taglio non ancora del tutto rimarginato attraversava
la parte sinistra del volto, sfregiando anche la palpebra: senza dubbio,
bruciava. Una ferita probabilmente di guerra, che doveva averlo fatto soffrire
molto, forse gli aveva persino rubato la vista.
Eppure, era così giovane. Troppo pochi erano i suoi
inverni per essere condannato al buio eterno, per rischiare la vita in
battaglia. Poco più che un bambino, ma che di certo rischiava
continuamente la morte, in missione. Finché avesse avuto respiro, quella
e forse altre cicatrici sarebbero rimaste come segno indelebile di una lotta, di
una battaglia per la sopravvivenza o per prevalere.
Il ninja da poco promosso jonin non accennava ad alzarsi.
Pareva inchiodato a quel terreno, e se avesse avuto gli occhi aperti si sarebbe
detto ipnotizzato dalle scritte che troneggiavano sulla lastra di pietra che
aveva davanti, scritte che parevano incatenate ad un grido annunciatore di
gloria, di gesta, un grido che risuonava muto e inascoltato, inutile.
Quello che l’ignaro spettatore avrebbe capito
rimanendo ad osservarlo ancora, era che quello spettacolo non era semplicemente
triste.
Era straziante.
***
Sì, doveva bruciare quello squarcio indelebile.
Taceva il giovane ninja, ma dentro urlava.
E si malediceva.
Non poteva non farlo. Sapeva che il peso che gravava sulla
sua anima non l’avrebbe abbandonato tanto presto, né facilmente.
Se l’era caricato lui, lui aveva scelto di portarlo.
Perché era giusto. Perché così doveva
essere. Perché sapeva che, se avesse aperto gli occhi, avrebbe scorto un
nome aggiunto di fresco sulla lapide degli eroi.
Obito Uchiha.
Un’incisione recente, una calligrafia perfetta e
squadrata, senza neanche la minima traccia di una sbavatura o di un colpo
troppo forte dato dallo scalpello dello scultore. Il marmo di quella lastra era
troppo sacro perché un errore potesse scalfirne la perfezione e
offendere la memoria di coloro che erano lì commemorati.
Eppure, mai quanto in quel momento Kakashi avrebbe potuto
dire di sapere che la vita di un ninja era sotto il continuo tiro di sbagli. La
morte stessa poteva essere in agguato dietro ad un errore, e nel mettere
inutilmente e continuamente a repentaglio la propria vita Kakashi non vedeva
niente di eroico. Sentiva di odiare quella lapide perfetta, ma nel trattenersi
dal ridurla in polvere realizzò che quello era solo un modo per odiare
di riflesso se stesso.
Probabilmente si odiava, anche se non avrebbe saputo dirlo
con certezza perché si sentiva vuoto, privo di qualsiasi sentimento
umano. Ma, in fondo, avrebbe potuto essere altrimenti?
Da dietro le palpebre abbassate, la mente sconvolta
rivedeva la stessa scena, la ripercorreva in una sorta di eterna punizione e di
continuo tormento.
Era strano, davvero strano come il corpo di una persona
potesse soccombere, stravolto da massi che ne impedivano la fuga e che lo
condannavano, come imponenti esecutori del destino.
Destino. Era così che avrebbe
dovuto chiamare quella forza omicida, qualunque cosa fosse, che lo aveva
privato prima del padre e poi dell’amico? Non trovava risposte, per
quanto si sforzasse, e la tortura che lo rendeva continuo spettatore della
tragica fine di Obito continuava, eterna, lunga e sofferente.
La Terza Grande Guerra
ninja… quel lungo periodo di combattimenti finì grazie al
sacrificio di molto shinobi senza nome. Ma allo stesso tempo, furono eroi
famosi… e furono lasciate
leggende che venissero tramandate di generazione in generazione.*
Di quella missione ricordava ciò che bastava a
lacerargli l’anima. Gli artigli che la straziavano erano fatti di
rimorso, colpa e rimpianto, e gli squarci erano infettati dal desiderio di
tornare indietro e cambiare le cose.
Ma già anni prima, quando il padre era morto, aveva
capito che non era possibile ingannare lo svolgersi degli eventi, che mai e poi
mai sarebbe riuscito a fare pieghe del tempo per rimediare agli errori e ai
dolori. Quella volta, avrebbe voluto poter impedire alla Zanna Bianca di Konoha
di fallire la sua ultima missione, e scoperto di non poterlo fare, aveva preso
ad odiarlo, a disprezzarlo, a nascondere parte del proprio volto perché
il riflesso dello specchio non gli riportasse la grande somiglianza con lui.
Adesso che Obito era morto, di nuovo era tornata la brama
di sistemare le cose, e ancora aveva dovuto affrontare il fatto che,
semplicemente, non era possibile. La differenza era che, se anni prima a
sbagliare era stato suo padre, adesso aveva commesso lui l’errore.
Strano, incredibile, agghiacciante come i due eventi potessero facilmente
essere collegati, con un filo oltremodo sottile ma altrettanto resistente: la
morte del padre e il suo disprezzo l’avevano portato a non seguire le sue
orme, e questo, solo questo l’aveva condotto alla morte dell’amico.
Quando gli
avevano portato la notizia che Sakumo Hatake si era tolto la vita, Kakashi
aveva capito che cosa lo avesse spinto a quel gesto. Non era scampato al
disonore di aver abbandonato una missione per portare in salvo i suoi compagni.
E in quel momento aveva giurato che il codice ninja, quello sarebbe stato il
suo ideale di vita. E fu così fino a quando, quel giorno maledetto,
abbandonò i suoi compagni per portare a termine la missione.
Tutti i ninja commettevano degli errori, questo lo sapeva
bene.
Non aveva però mai compreso quanto grande fosse il
dolore che uno shinobi provava quando capiva quanto quel fallo gli era costato.
E di colpo, quel giorno, provò per suo padre l’antico rispetto da
tempo abbandonato ma che gli doveva come figlio, capì quanto avesse
sofferto Sakumo nella solitudine della sua depressione.
Più forte che mai, le immagini della sua tortura
tornarono a farsi sentire.
Kakashi Hatake era appena diventato jonin. Un’ottima
carriera la sua: diplomato all’Accademia a cinque anni, chuunin a sei,
con la sua nuova promozione aveva soddisfatto le aspettative di molti.
Non si poteva dire con esattezza cosa provasse invece lui:
la sua espressione imperturbabile e i suoi modi di fare lievemente arroganti
non erano cambiati, e un occhio non esperto avrebbe detto che quel nuovo
traguardo lo lasciava indifferente. In realtà fremeva d’orgoglio e
di voglia di mettersi alla prova, ma dal momento che non aveva un padre
né una madre da rendere fieri, e aveva più considerazione per le
missioni che per i suoi compagni, non trovava necessario esternare i propri
sentimenti. E il giorno in cui il suo maestro, Minato Namizake, gli
affidò per la prima volta il comando di una missione, si congratulò
segretamente con se stesso, ben deciso a non tralasciare nulla per la buona
riuscita di quella. Non seppe dissimulare la propria irritazione per la
presenza di Obito, ma non se ne curò, perché non l’aveva
mai fatto e non vedeva proprio perché avrebbe dovuto iniziare quel
giorno, quando era lui a dettare le regole. Obito era il suo esatto contrario:
perennemente in ritardo, sempre allegro e fondamentalmente incapace, queste sue
caratteristiche avevano il potere
di farlo irritare non appena lo vedeva. Non si capacitava di come un componente
del famoso e ammirato clan Uchiha potesse essere così privo di talento,
e dentro di sé era sicuro che quell’inetto non sarebbe mai
riuscito ad attivare il suo sharingan.
No, non erano mai andati d’accordo, lui e Obito. Neanche
quando Rin venne rapita dai nemici, quel giorno maledetto che doveva
festeggiare la sua promozione.
Rin, la dolce Rin. Forse proprio per la sua dolcezza non
l’aveva mai presa in considerazione, anche se più volte si era
dimostrata essenziale in missione, con le sue arti mediche; Rin, che Kakashi
sapeva essere invaghita di lui, senza essersi mai preoccupato di alimentare o
spegnere le sue speranze. Rin, l’oggetto dei pensieri di Obito, Rin, che
adesso era in pericolo di vita. La stessa Rin che lui quel giorno decise di
abbandonare, determinato a mantenere quella promessa che si era fatto anni
prima, al funerale del padre.
Il codice ninja
prima di tutto, si
era detto, senza versare una lacrima davanti alla bara, e la missione davanti ai compagni.
E
Obito, disgustato da lui, da quella sua decisione che di umano non pareva avere
nulla, disertò il codice, le regole e il capitano per seguire ciò
che il suo carattere, la sua anima, il suo stesso essere lo spingevano a
compiere.
Solo più tardi Kakashi avrebbe capito
l’enormità della sua pazzia, il vero peso del suo errore e di
quello sbaglio che non sarebbe mai riuscito a perdonarsi. Ancora non poteva
saperlo, ma gli eventi di quel giorno l’avrebbero portato al grande
cambiamento della sua vita. Non sapeva che da lì a qualche anno avrebbe
impedito ai giovani appena usciti dall’accademia di diventare genin se
non avessero prima superato una prova, quella stessa prova che lui adesso si
stava preparando ad affrontare a rischio della vita.
Quando si gettò fuori dal suo nascondiglio,
avvertì chiaramente lo sguardo perplesso di Obito su di lui, e quando
gli parò lo spalle andando a ricevere un kunai in pieno viso, lo senti
soffocare un urlo; quando infine il sangue colò dal suo occhio sinistro,
ormai inutilizzabile, lo vide tremare.
E lui, Hatake Kakashi, avrebbe fatto lo stesso per lui?
Per qualsiasi altro?
Sarebbe mai stato capace di urlare, di tremare in quel
modo per qualcuno? Non l’aveva mai fatto per suo padre, e nemmeno per se
stesso. Le parole che Obito gli aveva sputato in faccia poco prima gli invasero
la mente.
“Perché
ti rifiuti di aiutare Rin? Tu solo hai la forza di salvarla!”
Lui aveva risposto duramente, quasi infastidito di fronte
all’ingenuità dell’altro.
“La cosa
più importante per uno shinobi è essere uno strumento in grado di
portare a termine una missione, nient’altro. Le emozioni sono una cosa
non necessaria… superflua.”
“Dici sul
serio? Davvero tu… tu pensi
in questo modo?”*
Obito aveva espresso in una frase tutto il suo stupore, la
sua incredulità davanti alle fredde parole dell’altro. Eppure,
Kakashi sapeva di non essere insensibile. Ricordava di aver pianto, la notte
dopo il funerale di Sakumo, sfogando le lacrime che aveva trattenuto, testardo,
davanti alla bara. A volte, raramente, aveva sorriso da sotto la maschera,
guardando Rin e Obito, ma come le lacrime aveva soffocato anche quei sorrisi. E
un tonfo proveniente dal cuore l’aveva fatto tremare impercettibilmente
quando Rin era stata rapita, ma la mente fredda e calcolatrice l’aveva
messo subito a tacere. Mentre, inquieto, si aggirava nel fitto della foresta,
l’immagine del suo team gli esplose davanti agli occhi, e le parole di
Obito continuavano a rimbombare nella sua testa. Ci fu un doloroso attimo, nel
quale gli parve di sentire qualcosa dentro di sé spaccarsi di fronte
all’improvvisa consapevolezza di quanto grande ed imperdonabile fosse
stato il suo errore; altrettanto
repentinamente si trovò a rivalutare se stesso e gli altri, ed Obito
aveva fatto scattare quel misterioso procedimento. Capì che quanto gli
aveva detto il suo compagno era vero, che i
ninja che non rispettano il codice sono spazzatura, ma quelli che abbandonavano
i propri compagni erano ancora peggio della spazzatura; e nauseato da se
stesso, provò un sincero moto di rispetto per l’Uchiha. Quando
vide i massi rovinare sul corpo di Obito, quella stessa ragione che
l’aveva plasmato in quei cinque anni aveva cercato di dargli ad intendere
che il dolore che provava era dovuto al lungo taglio che lo sfregiava, e che
gli aveva rubato il suo occhio sinistro; ma questa volta il cuore, ancora
scosso, non si fece ingannare, e le lacrime che quella notte aveva giurato che
non sarebbero mai più scese non resistettero a lungo alla sua presa
ferrea, ma scivolarono sulle sue gote polverose, abbondanti e limpide.
Il corpo di Obito era per metà sepolto da quel
masso che, assassino, gli stava rubando la vita. Aveva spinto lui –lui- in salvo dalla frana, ma era stato
travolto. Sorrideva. Perché sorrideva?
Era riuscito ad attivare il suo sharingan. Proprio un bel
colpo, aveva pensato Kakashi, e si era ripromesso di dirglielo, ma le parole
gli morirono in gola quando il polverone si diradò e scorse
l’amico bloccato fra le macerie. In un primo momento, non volle credere a
quello che vide, e si augurò che fosse solo un brutto tiro giocatogli dalla vista rovinata. Lui e Obito avevano appena
combattuto insieme, come compagni; solo adesso si era ricreduto su di lui, i
suoi gesti e le sue parole gli avevano artigliato l’anima e la
realtà che conosceva aveva iniziato a vacillare.
Poi, Obito aveva parlato –e quella era la scena su
cui la tortura insisteva maggiormente, facendogliela rivedere più e
più volte, all’infinito, nella testa. Sotto la guida delle ultime
parole dell’Uchiha, il Team Namizake si riunì per l’ultima
volta. C’era Rin, il ninja medico, china sui due, tremante per il dolore;
Obito, che una volta Kakashi aveva definito perdente ma che adesso sapeva
essere di gran lunga migliore di lui, schiacciato dalla Morte imminente; e infine
lui, il capitano della missione, sdraiato sulla polvere e in preda ai rimorsi,
ai rimpianti e al dolore, sapendo di avere ormai perso colui che non era solo
un impaccio, come aveva sempre detto, e neanche un compagno: di più,
Obito Uchiha era probabilmente il suo unico amico. Mentre Rin li operava,
sentì come se qualcosa dentro di sé stesse cambiando; e senza
chiedere l’approvazione alla ragione, l’anima revocò quella
promessa che mai avrebbe dovuto pronunciare. Il codice ninja perse ogni valore,
e il nuovo Kakashi venne forgiato, mentre i tre compagni, consci della fine
imminente, pronunciavano un muto addio.
Quando Obito esalò l’ultimo respiro, Kakashi
aprì gli occhi.
Quello destro non era cambiato. Il sinistro, sollevata la
palpebra, rivelò un cupo bagliore rosso e tutta la potenza dello
sharingan.
“Io sto per
morire… ma posso diventare il
tuo occhio… e da adesso in poi vedrò il futuro…”*
***
Kakashi non si era mosso. Aveva sopportato di vedere
ancora le immagini della tortura, e non si era lamentato; gli occhi erano rimasti
chiusi, e da quando si era sistemato davanti alla lapide, non li aveva aperti.
Dentro di sé sapeva che l’ultimo dono di
Obito aveva un valore inestimabile, un’arma che molti ninja avrebbero
fatto carte false per ottenere. Ma la macabra consapevolezza che
quell’occhio non gli apparteneva, che quell’iride potente era
dell’amico, ormai morto, lo agghiacciava. Col tempo avrebbe compreso che
lo sharingan che brillava nella sua orbita segnata faceva sì che il
legame col suo compagno continuasse ad essere intessuto, e che era lo stesso
Obito che combatteva con lui, a fianco a fianco, come la prima volta che
entrambi compresero quello che voleva dire il gioco di squadra, la prima volta
che le loro mosse si sincronizzarono sul filo dell’affiatamento, quando
nacque la loro effimera amicizia e il reciproco rispetto.
Finalmente, Kakashi decise di aprire gli occhi. Si
intravide un bagliore rosso; promise a se stesso che quella non sarebbe stata
l’unica volta che lui avrebbe fatto visita a quel marmo cupo. Mentre
formulava quel rapido pensiero, gli occhi feriti dal sole si abituarono alla
luce, e fu allora che davvero vide.
Vide, e la realtà si spalancò davanti a lui
per la prima volta da quando l’amico era morto, guardandola con
quell’occhio che no, non era davvero suo; quell’occhio che era
rosso e che pareva colare sangue, quell’iride cerchiata che apparteneva
alla prima persona che aveva visto morire, al primo che avesse disprezzato e
che in realtà alla fine l’aveva battuto. Perché con la sua
morte aveva infine compreso qual era la cosa richiesta a qualsiasi ninja, genin
o jonin che fosse.
In un segno di
rispetto per quella persona valorosa che era morta per i suoi amici, Kakashi si
coprì parte del viso col coprifronte, fino a nascondere l’ultimo
dono che Obito aveva voluto fargli. E per la prima volta nella sua vita,
assunse quell’aspetto che l’avrebbe caratterizzato per sempre,
negli anni a venire, quando sarebbe stato famoso, leggendario, quando anche
nelle contrade lontane si sarebbe parlato di Kakashi Hatake, lo shinobi che
possedeva lo sharingan. Avrebbero parlato di lui e della sua fama, ma nessuno
avrebbe mai pronunciato anche quel nome, Obito Uchiha, e nessuno avrebbe saputo
che con il copy ninja combatteva anche lui.
Da dietro la maschera, il jonin che in futuro avrebbe
compiuto grandi ed eroiche imprese non fu capace di trattenere le lacrime.
La battaglia di Ponte
Kanabi… quel giorno, due eroi che portavano lo sharingan nacquero a
Konoha.
Uno di loro ebbe il suo nome
inciso su una lapide. L’altro, invece, si guadagnò il nome di
“Sharingan Kakashi”, e divenne famoso persino nelle altre Terre.*
***Fine***
*Dal
capitolo 241, 243 e 244 del manga. Le frasi non mi appartengono e sono di
Masashi Kishimoto.
Note dell’autrice:
Prima classificata
*.* e chi se lo aspettava?
Approfitto
dello spazio per ringraziare Scarcy90 per il concorso e per i commenti. Faccio
poi i complimenti a tutte le partecipanti, specie alle altre podiste, Blackie e V@le! Mi raccomando,
leggete le loro storie!
Spero poi
che a voi lettori la storia sia piaciuta!
Un bacio,
Serena.