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Autore: Castiel Who    21/03/2014    3 recensioni
Ben e Martin sono migliori amici. Martin, però, è conscio di provare sentimenti che vanno ben più in là della semplice amicizia e rimanere indifferente (soprattutto quando lui e Ben dividono le stanze d'Hotel) è sempre più difficile. Non vuole fare nulla per rovinare la loro amicizia ma, una notte, ubriaco, si confida con Moffat. Moffat inizia a tentare di spingerlo a farsi avanti, ma Ben legge i loro continui bisbigli segreti come prova di un loro coinvolgimento sentimentale. Geloso, inizia a fare dispetti e a commentare sarcasticamente tutto quello che fa Moffat.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Mark Gatiss, Martin Freeman, Rupert Graves, Steven Moffat
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si svegliò di buon’ora. La luce che riusciva a penetrare dalle imposte semi-serrate colpì i suoi occhi quasi dolorosamente. Li richiuse all’istante. Forse era un segno che Martin non fosse pronto, mentalmente quanto fisicamente, ad affrontare la giornata. Dai rumori della stanza, stabilì che Benedict fosse già in piedi da un pezzo. Riconobbe il suono della carta che veniva sfogliata e messa da parte; probabilmente l’attore stava studiando il copione del nuovo film che avrebbe dovuto iniziare a girare a breve, appena finite le riprese di Sherlock.

Arricciò il naso, indeciso sul da farsi. Aveva voglia di spalancare le palpebre con la possibilità che il rosso potesse spostare la propria attenzione su di lui? No di certo, ma, d’altro canto, quali altre scelte aveva a disposizione? Ripensando alla sera prima, si accorse di avere un vago accenno di nausea provocata da tutto l’alcol che aveva generosamente regalato al suo fegato. Inoltre, per la prima volta da un tempo che non era neanche in grado di quantificare, seppe con logorante certezza che i suoi sentimenti per Benedict non erano più un segreto riservato soltanto a sé stesso. Seppur senza esternarlo, Martin si angosciò. La sua non era mancanza di fiducia nei confronti di Moffat, nonostante una reazione simile lo potesse far credere. Piuttosto si trattava della consapevolezza di trovarsi esposto: l’essere aperto in due su un tavolo chirurgico, dove chiunque può vedere cosa si cela sotto il tessuto epiteliale e essere in potere di lacerare gli organi interni con un bisturi.

Da sobrio, riguardo al suo cuore, non avrebbe pronunciato una sola parola di troppo, tanto era timoroso che qualsiasi cosa potesse dire un giorno gli si ritorcesse contro come un serpente velenoso, facendolo soffrire e, eventualmente, provocando la perdita della più grande amicizia che avesse mai avuto. Benedict era troppo importante per lui, motivo per cui non avrebbe mai corso un rischio del genere.

Finalmente deciso, affrontò gli invadenti raggi del sole che inondavano la camera e scalciò via le pesanti coperte e lenzuola. Cumberbatch alzò la testa dai fogli che stava contemplando distrattamente. Il biondo notò che i vestiti che indossava non erano più quelli con il quale lo aveva trovato addormentato nel letto al suo rientro. Ciò testimoniava che fosse attivo da più di quanto non si aspettasse. Il suo sguardo si posò poi sui morbidi boccoli rossi che se ne stavano sparati in qualsiasi direzione, indomati come la criniera di un leone. Immaginò le possibili situazioni che prevedevano un risultato simile e tutto ciò che riuscì a ricavarne fu accompagnato dalla sua presenza nuda in un letto. Dita curiose che si insinuano in quella matassa color carota, i sospiri di piacere dell’altro quando inizia a tirare con dolcezza, senza indolenzire in minima parte lo scalpo. La reazione del suo corpo fu tutt’altro che inaspettata.  

«Buongiorno, Martin. » Lo salutò Benedict con un sorriso familiare.

Martin si sentì impallidire, quasi fosse sicuro che i suoi pensieri venissero letti uno a uno, poi arrossì violentemente. «Ehi, Ben. » Disse in un soffio, prima di afferrare dei vestiti alla rinfusa e sgattaiolare nel bagno con il pretesto di farsi una doccia. Una doccia terribilmente lunga.

Dio solo sapeva quando odiasse il suo corpo per il comportamento da adolescente alla prima cotta che non aveva remore a imporgli.

 

«Non sei stato in vena di fare le ore piccole, ieri sera, eh? »

Benedict sbocconcellò la mollica del panino che aveva davanti con aria assonnata. «Uhm, no. In effetti non mi sentivo del tutto bene. Ho pensato fosse saggio riposarsi un po’. » Spiegò flemmatico.

«Mi spiace, Ben, » si scusò Martin, sinceramente mortificato. «Peccato che tu sia stato costretto ad andartene così presto, ti sei perso la reazione di Steven quando ha scoperto che qualche coglione ha rovesciato il proprio cocktail nella sua giacca. Era veramente incazzato. » Raccontò, poi.

Qualche coglione. Ben si chiese se Martin avrebbe adottato una scelta di parole differente, se solo avesse conosciuto l’identità del ‘coglione’ in questione. A mente fredda, si rese conto di quanto quel suo gesto fosse stato oltremodo infantile. Eppure, nonostante ciò, non riusciva proprio a pentirsene.

«È possibile che se lo sia rovesciato da solo e poi abbia addossato la colpa su qualcun altro. Sai com’è distratto, all’infuori delle ore di lavoro. » Ribatté con cipiglio scettico.

Martin alzò un sopracciglio, confuso. «A dire il vero, no. Steven non mi ha mai dato questa impressione. »

«Strano che tu non l’abbia notato. » Commentò Benedict, tentando si suonare meno acido possibile. Che l’argomento “Steven Moffat” gli facesse saltare i nervi era un fatto già appurato da non troppe ore. L’unica cosa che fu in potere di fare era nascondere la propria irritazione e reprimere i moti di gelosia, che gli tornavano a gola come conati di vomito. Si irrigidì sulla propria sedia e si guardò attorno, alla ricerca di qualche volto conosciuto che potesse aver fatto capolino nella sala da pranzo dell’albergo. Non scorgere la figura di Moffat fu un sollievo per l’anima.

«Spero che tu ti renda conto che oggi sei strano. » Si sincerò Martin, appoggiando le labbra sulla sua tazza da tè.

«Io non sono strano. » Ribatté il rosso, che assunse un’espressione da cane bastonato.

«Ben, ti stai guardando intorno come se debba scoppiare una bomba da un momento all’altro, » Gli fece notare l’altro. «Per caso sei il fottuto 007 e io non ne sapevo niente? »

Benedict sorrise divertito. «Chissà, magari lo sono. »

«E qual è la tua missione, signor Bond, James Bond? »

«Top secret. »

«Al diavolo. » Esclamò Martin, trattenendo a stento le risate che, improvvisamente, proruppero spontaneamente, con gran naturalità. «Comunque sei un pessimo agente segreto, visto e considerato che ti ho scoperto subito. La regina sarà terribilmente delusa del tuo operato. »

Benedict abbassò la voce di vari toni e si protese in avanti, quasi stesse per confidare un segreto. «Troverò il modo di redimermi. »

«Sono spiacente, ma temo che il cuore di sua maestà rimarrà per sempre afflitto dalla tua mancanza di riserbo. » Rispose l’altro con altrettanto impeto recitativo. Con il sorriso che quello scambio di battute gli aveva stampato in faccia, levò lo sguardo oltre le spalle del rosso per vedere i clienti meno mattinieri dell’albergo fare la loro entrata nella sala.
Fra i tanti, riconobbe la forma solida e familiare di Steven farsi strada verso i balconi del self-service. Nonostante la sfuriata rivolta a chissà chi della sera precedente, l’uomo parve aver riacquistato la sua flemma e essersi riposato al meglio. «Guarda un po’ chi si è finalmente svegliato. » Commentò distrattamente Freeman più a sé stesso che a chiunque altro. Agitò la mano in direzione del soggetto delle sue improvvise attenzioni prima che questi si dirigesse al proprio tavolo assegnato.

Incuriosito, Benedict si voltò appena in tempo per vedere la simpatizzante risposta dell’ultima persona che avrebbe voluto trovare alle sue spalle. Seppur in quel momento nutrisse ancora una certa incertezza riguardo alla natura dell’irritazione spontanea che provava alla sola vista di Moffat, l’attore presto si scoprì a serrare i denti con una forza eccessiva. La serenità di poco prima aveva abbandonato i suoi lineamenti con una velocità strabiliante.

Il richiamo di Martin lo riscosse dal torpore che avvertiva chiaramente fargli perdere la lucidità. «Ben? Va tutto bene? »

Si maledisse in tutte le lingue che conosceva. «Uhm, » Chiosò dopo una pausa di riflessione considerevolmente lunga, per essere a riguardo di una domanda tanto semplice. Se avesse continuato così per ancora molto, il passo successivo sarebbe stato buttare giù tutti i santi del paradiso.

«Bella risposta. »

Dannazione, perché deve sempre leggermi come un maledettissimo libro? Si domandò mentalmente.

Magari prova i miei stessi sentimenti. Gli rispose la vocina che adorava far capolino nella sua mente e tormentarlo ancor più di quanto già non facesse per conto proprio.

No. È impossibile. Non sono uno stupido ingenuo.

In compenso la cocciutaggine non si fa mancare.

«Non vedo cosa dovrebbe esserci che non va, tutto qui. » Proruppe, sorprendendo anche sé stesso. Non era da tutti sostenere un dibattito interiore e, allo stesso tempo, mentire al proprio migliore amico e convincerlo di qualcosa di assolutamente falso. Se la cosa fosse riuscita, ne avrebbe trovato un motivo di orgoglio.

Questa volta il biondo andò dritto al punto. «Lo sguardo assassino che hai appena lanciato a Steven, tanto per cominciare. »

«Non ho lanciato a Steven nessun- »

«Cristo santo, Ben, non cercare di darmela a bere. Sai bene che non funziona con me. » Lo ammonì Martin, prima che si potesse spingere oltre. «Se tu potessi fulminarlo con la sola volontà che ti si legge negli occhi, presto avremmo un processo penale per omicidio colposo a cui prendere parte. »

Cumberbatch corse ai ripari più in fretta che poté. «Devo ammettere che sei dotato di una fantasia superba, » Si schiarì la voce e prese una sorsata del proprio Earl Grey. Stava diventando freddo. «Ma io, davvero, non riesco a capire il motivo delle tue accuse. Sono forse apparso un po’ imbronciato? »

«Un po’ imbronciato? Parli come se non ti avessi visto con i miei occhi! Sono certo che anche Steven se ne è accorto. È successo qualcosa fra voi due del quale dovrei essere messo al corrente? Ti ha volutamente calpestato un’unghia incarnita? » Si informò l’altro.

«Assolutamente no. »

Smettila, Martin. Smettila, ti prego. Ben ebbe l’accortezza di supplicarlo in un modo che poteva essere udito solo attraverso l’uso di poteri telepatici. Si sentì cadere preda dell’agitazione. In qualche modo, Martin gli si era ritorto contro e lo aveva messo con le spalle al muro, senza lasciargli intravedere alcuno spiraglio di via d’uscita.

Per sua immensa fortuna, non gli fu concesso di replicare oltre: un’esclamazione di disgusto proruppe dal tavolo di Moffat, situato qualche metro più in là rispetto al loro. L’uomo apparve visibilmente stomacato da qualcosa di impossibile da definire con esatta certezza. Benedict, suo malgrado, non riuscì a trattenere un sorriso carico di soddisfazione. Ci è cascato.

«Ma che cazzo... » Iniziò l’attore biondo con un accenno di sbigottimento che sembrava star a dire cos’altro può succedere, ancora? «Steven, c’è qualcosa che non va? »

È preoccupato per lui! Sbottò Benedict contro sé stesso. Il flebile brio che era riuscito a pervaderlo sfumò in un battito di ciglia. Contrariato, represse un gemito e si esibì in un’espressione stupefatta degna delle sue doti recitative. Si sarebbe volentieri messo in un angolino, con le braccia incrociate sul petto e un’espressione imbronciata stampata in faccia da far invidia a un bambino viziato nel pieno dei suoi capricci.

«Ho messo il sale nel tè anziché lo zucchero, dannazione! » Sbottò burbero l’interpellato. Entrambi i due amici non riuscirono a stabilire se quell’improvvisa esplosione di rabbia era rivolta alla sua disattenzione oppure a qualcos’altro.

«Ma quella che hai sul tavolo è una zuccheriera. » Osservò Freeman con piglio scettico.

«E’ proprio questo il punto! Non capisco come ciò sia possibile. »

«Forse il cameriere si è sbagliato. Può succedere, non è la fine del mondo. »

O forse li ho scambiati io di proposito. Suggerì mentalmente Benedict. Si sentiva meschino, preda di un diavolo interiore. Anzi, di un pixie. Un diavolo si sarebbe mosso unicamente per soddisfare i suoi fini malvagi, mentre lui era vittima e carnefice di un dispettoso impulso vendicatore. Quell’esserino immaginario che covava dentro di sé era completamente fuori dal suo controllo e non si sarebbe fermato per nessuna ragione al mondo, se non per compiacersi del raggiungimento del suo obiettivo. Il suo animo ruggiva implacabile e reclamava miomiomio.

 

***

 

«Stop! Buona! » Urlò una voce fuori campo proveniente da dietro svariati monitor di tutte le dimensioni possibili.

Sherlock e John si fermarono all’istante, interrompendo il flusso di emozioni che li pervase a causa del pericolo celato dietro all’ultimo nodo da sbrigliare della rete criminale di James Moriarty. Improvvisamente non erano più preoccupati della loro sorte, non sentivano più l’adrenalina pompare nelle loro vene o la paura pressante di andare incontro alla morte. Semplicemente, in un attimo Sherlock Holmes e John Watson avevano cessato di esistere. Al loro posto ora, con indosso lo stesso aspetto e gli stessi vestiti, si presentarono Benedict Cumberbatch e Martin Freeman.

I due attori sorrisero soddisfatti del lavoro appena portato a termine. In studio si respirava un’aria di completa armonia che ben si distingueva dai claustrofobici luoghi di lavoro impregnati di rogne e antipatie.

«Ci pensi? Siamo già terribilmente vicini a finire anche questa stagione. » Osservò Martin allungandosi ad afferrare la tazza a righe bianche e blu. Come in ogni buon set inglese che si rispetti, il tè non poteva mancare.

«Già, » commentò il finto moro. «Mi mancherà essere Sherlock, sarà come avere un vuoto fino alle prossime riprese. Calarsi nella sua pelle da una sensazione elettrizzante. »

L’altro stuzzicò con le unghie il bordo dell’etichetta con su scritto di pennarello nero a punta larga il suo nome a caratteri maiuscoli. La trama sottostante era diventata inaspettatamente interessante. «A me mancherai tu. » Mormorò in un soffio appena percettibile.

Benedict si irrigidì tutto d’un colpo, convinto che le orecchie gli avessero giocato un brutto scherzo. Per la prima volta nella sua intera carriera ringraziò di avere chili di make up ben distribuiti su tutta la faccia a nascondere il rossore che, sicuro come l’oro, aveva preso il sopravvento sulle sue guance.

«Ma che diavolo! »

I due attori si voltarono con una sincronia quasi perfetta. Oltre le postazioni delle telecamere e gli obbiettivi, Moffat lanciava imprecazioni inarticolate alla volta della propria assistente. La povera sventurata gesticolò all’aria con un plico di dossier dall’aspetto assurdamente pesante. Benedict ipotizzò che facesse pesi almeno tre volte a settimana per tenersi allenata.

«Non mi importa se tu non eri qui, maledizione! Me ne stanno capitando di tutti i colori! » Sbraitò disperato l’uomo.

Seguirono una serie di tentate spiegazioni in toni striduli da parte della ragazza dalla forza sovraumana. «Della colla! Come te la spieghi tutta quella dannata colla sulla mia sedia? È piovuta dal cielo, forse? » Moffat non le lasciò il tempo necessario a formulare una risposta. «Certo che no! Perché abbiamo un tetto sopra la testa e, in ogni caso, non ho mai sentito parlare di perturbazioni cariche di colla vinilica! »

A Cumberbatch fu impossibile trattenere una risata. Se l’immagine di Steven fuori di sé era comica, vederlo infuriare a causa di un’enorme macchia bianca e appiccicosa magicamente apparsa sul suo fondoschiena era il massimo che il suo autocontrollo potesse tollerare.

Martin gli riservò un’occhiataccia. «Non può essere un caso. » Ragionò con un tono che ricordava fin troppo John quando constatava l’ovvio. Pure l’espressione facciale e la rigida postura militare erano le stesse. Adorabile.

No.

Benedict si girò verso il muro di finto cartongesso in modo da poter nascondere il suo divertimento dalla vista degli altri. Inevitabilmente, gli montò su la sensazione di aver oltrepassato un limite non segnato. La paura mista all’eccitazione del momento lo fecero tremare sul posto come se fosse sconquassato dai singhiozzi. Sperò con tutto il cuore che l’altro attore non se ne rendesse conto; l’impressione che stesse ridendo delle disgrazie altrui sarebbe stato il male minore.

«Fanculo. » Dopo aver dato sfoggio della propria finezza, Martin lo afferrò per la manica della giacca del completo di sartoria e lo trascinò via con sé. Non sembrava adirato, sebbene la sua affermazione suggerisse tutto il contrario, ma era nemmeno lo stereotipo dell’allegria. Nonostante le gambe del biondo fossero notevolmente più corte delle sue, per poter stare al passo Benedict fu costretto a procedere ad ampie falcate e trattenersi dal fare domande di qualsivoglia tipo.

Lasciata alle spalle l’insegna luminosa on air, percorsero un paio di corridoi e si fermarono davanti alla porta dello sgabuzzino delle inservienti. Martin si guardò attorno circospetto, controllando che non ci fosse nessuno nei paraggi, poi girò la maniglia e entrò, seguito a ruota dal più alto. Una volta dentro, la prima cosa che fece fu accendere la luce e chiudere la porta a chiave.

«Da come ti comporti mi viene da pensare che di noi due sia tu, l’agente segreto. » Scherzò Benedict nascondendo l’insopportabile ansia che gli contorceva le viscere in modo tutt’altro che piacevole. Da Oscar.

Sciò! Questo non è il momento migliore!

Freeman sbuffò sonoramente. «Per quanto credi ancora di continuare con questa farsa? » Domandò, sedendosi su un enorme scatolone senza badare alla sua robustezza. Era un’autentica fortuna che questi non fosse vuoto come appariva. «Ti avverto subito che negare alcunché è del tutto inutile. L’ho capito che sei stato tu. » Aggiunse.

«A fare cosa? »

«Lo sai benissimo. Steven. » Martin incrociò le braccia al petto con fare teatrale e dondolò distrattamente le gambe, troppo corte per toccare il pavimento.

Beccato.

Benedict capì di essere stato messo con le spalle al muro. La consapevolezza lo colpì tutta insieme, come quando il mare si ritira dalla riva talmente tanto da formare un’onda abbastanza grande da travolgere e portarsi via qualsiasi cosa, La gioia dei surfisti; l’unica pecca era che lui non sapesse nemmeno che forma avesse una tavola da surf. Era destinato a diventare poco più di un relitto.

Martin riprese la parola. «Sul serio credevi che fossi così stupido da non accorgermene? Quanti altri scherzi pensi che gli servano ancora prima di- »

No.

«No. »

«No? »

«No, non credo che tu sia stupido. E non credo che nemmeno Steven lo sia. Solo... » Non ci riusciva. Dentro di Benedict era scattato qualcosa che gli aveva bloccato totalmente l’apparato fonatorio, impedendogli di continuare. Se fosse stato un robot si sarebbe potuto dire che il suo sistema era andato in crash.

Diglielo. Suggerì l’intrepida vocina che solo lui era in grado di sentire.

No.

Infondo desideravi di essere scoperto. Se gli scherzi di per sé ti danno piacere, l’idea che Martin sappia che non son altro che prove inconfutabili della tua gelosia ti eccita.

N-

Basta negare! Io sono te, ricordi?

Aveva ragione. Era giunta la fatidica ora di smettere di mentire a sé stesso. Era una battaglia già persa in partenza; senza contare che prima o poi sarebbe finito col soffrire di personalità multipla, cosa che non lo allettava per niente.

«Era ciò che mi sentivo di fare. » Ammise dopo una lunga pausa della quale il biondo non osò privarlo.

«Perché? »

«Ci deve essere per forza un motivo? »

«Cazzo Ben, certo che deve esserci! Quel povero stronzo non si merita di trovare cocktail non identificati nella giacca o il sale nel tè mattutino o, peggio ancora, della colla sul culo! »

«E non hai ancora visto dove sono le sue chiavi della camera. » Si sentì di aggiungere l’attore con un cipiglio degno di un bulletto soddisfatto di aver portato a termine la missione routinaria che prevedeva di infilare la testa del secchione della classe nel primo sanitario disponibile. Era come se i dilemmi c he lo avevano assillato fino a un attimo prima si fossero dissolti nel nulla.

Martin scosse la testa. «Ho quasi paura di scoprirlo. » Facendo forza sulle braccia, Martin scivolò giù dallo scatolone e atterrò sui propri piedi.

«Prima o poi lo finirà quel cappuccino di Starbucks. » Osservò con nonchalance, gli occhi che quasi brillavano di luce loro.

«Gesù, Ben! » Ogni tentativo di continuare a mantenere un’aria severa sfumò come se non fosse mai esistito. Martin scoppiò a ridere di gusto. «Oh, mio Dio. » Disse con un filo di voce solo quando riuscì a riprendere fiato.

«Cosa? » Domandò l’interpellato nel vedere l’altro avvicinarsi pericolosamente a lui. Il panico che gli montò in corpo divenne sempre più difficile da controllare: capì che era la fine quando iniziò a fare domande a raffica in perfetto stile Sherlock. «Ho fatto qualcosa di sbagliato? Ho esagerato un po’ troppo? Ho... »

Non gli fu permesso di dire andare oltre. Martin lo aveva afferrato per il colletto della camicia viola e con uno strattone lo aveva attirato a sé così violentemente da rischiare di far cadere a terra entrambi. In un attimo le loro labbra furono premute le une contro le altre in un bacio carico di urgenza. Benedict non si oppose al modo tutt’altro che delicato con cui Martin aveva deciso di baciarlo e, passato l’attimo di stupore, si lasciò andare.

Le loro bocche si allontanarono per poi unirsi di nuovo, incapaci di stare lontane per più di mezzo secondo. Le braccia di Martin finirono intorno al collo dell’uomo più alto, mentre le mani di quest’ultimo andarono a posarsi teneramente sui suoi fianchi. Successivamente, le labbra di uno si dischiusero sotto l’umido invito della lingua dell’altro, facendo perdere al loro primo, pazzesco bacio ogni parvenza di castità. Se fosse possibile congelare un attimo per l’eternità, Benedict avrebbe scelto questo a occhi chiusi.

«Cristo santo. » Fu il commento di Freeman non appena si separarono quel tanto da consentirgli di ridare fiato ai polmoni.

«Uhm... » Farfugliò Benedict, incapace di formulare frasi di senso compiuto. Appoggiò la propria fronte su quella di Martin, fissandolo negli occhi come se fosse sufficiente a trasmettergli il vortice di emozioni in cui era rimasto intrappolato.

«È questo che vuoi, Ben? »

Il tempo delle dichiarazioni esplicite era ancora lontano, ma Cumberbatch non ne aveva bisogno. Al momento, il suo amore preferiva trasmetterlo così come aveva scelto Martin per entrambi. Chiuse gli occhi e si lasciò divorare.

Sì.

 

Fine

   
 
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