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Autore: musetta78    26/03/2014    33 recensioni
Tranquille, il sadomaso non c'entra nulla, mentre l'episodio 28 assolutamente sì!
Questo racconto, che potrebbe anche diventare l'inizio di una storia a più capitoli, sonnechiava da un po' accanto al caminetto acceso, nel salotto del mio pc, e visto il periodo, ho pensato che a qualcuno avrebbe fatto piacere leggerlo.
Come al solito, mi sono concentrata sull'introspezione dei personaggi, raccontando una versione solo leggermente rivisitata del famoso episodio, attraverso i loro ricordi....buona lettura!
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Oscar François de Jarjayes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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28 sfumature
 
 
 
Sì, ricordava.
Ricordava perfettamente, tutto.
Ricordava i suoi occhi cupi e lontani, persi a contemplare qualcosa che andava al di là di lei, di loro, un ricordo lontano, forse, una speranza perduta.
Ricordava le sue parole semplici, chiare, implacabili.

 “Una rosa sarà sempre una rosa…”
 
Ricordava la propria rabbia, dirompente, lacerante, cieca….e la propria paura, anche.
Aveva gridato, contro di lui, vicina al suo volto fermo, inespressivo, pietrificato.
Sentiva ancora, se ci pensava, il bruciore sulle dita per lo schiaffo che gli aveva dato, con rabbia, con stizza, con insofferenza, perché lui taceva, non rispondeva, non si spiegava, non si scusava.
Attendeva, André.
Attendeva che la tempesta si scagliasse su di lui con tutta la sua furia indomita, e un po’ sperava che spazzasse via tutto di lui, che lo annientasse, che gli togliesse ogni cosa, anche la vita.
Perché lontano da lei non sarebbe stata vita.
Così attendeva la sua furia, il suo odio, la sua paura, la sua follia, e qualunque cosa lei gli avesse dato in quel momento, perché forse sarebbe stata l’ultima.
Ricordava il dolore sul viso, là dove lei lo aveva colpito e dove lui, subito dopo, aveva immaginato una carezza, dolce, leggera, calda; in quell’istante, chissà perché, aveva pensato alla mano di Oscar che percorreva lentamente il suo viso, con delicatezza, con un fremito trattenuto d’emozione, e allora là, dove la pelle bruciava, si era delineata la forma, il contorno preciso di quella mano; la risentì su di sé, come fosse ancora lì.
Sì, anche lui ricordava.
Ricordava, e bruciava ancora dentro di lui, quel ricordo.
E bruciava il fuoco negli occhi di lei mentre le sue piccole mani forti lo assalivano ancora e lo afferravano per il colletto della camicia e lo scuotevano con tutta la forza che avevano e lui, inerme, si lasciava attraversare da quella rabbia, da quel fuoco vivo che lo lacerava, lo feriva e lo infiammava ad un tempo.
E lui sentì il tormento, tutto, e la disperazione di lei invaderlo fin nel profondo, fin dentro il petto, il cuore, l’anima, senza che gli fosse concesso il tempo di ritrarsi, di distogliere gli occhi dai suoi, di allontanare da se quelle mani, quel corpo, quella voce.
La sua voce implorava, urlando, una richiesta disperata.
Ma lui aveva già risposto.
 
“Una rosa non potrà mai essere un lillà, Oscar.”
 
Una verità scomoda, semplice, schiacciante.
Ma ormai non c’era più spazio per le parole, fra loro, non c’era più il tempo ne’ la forza per spiegare, per chiedere di capire, di ascoltare, di accettare, di non aver paura.
Paura ne avevano, fin troppa, entrambi.
Ora più che mai.
André taceva, e moriva, dentro.
Dopo la rabbia, dopo la disperazione, dopo la paura, fu solo il vuoto, dentro di lui, lo stesso vuoto che Oscar vide con stupore, con orrore quasi, negli occhi di lui, un istante prima che le sue mani le afferrassero i polsi stringendo così forte da farle male e da costringerla a lasciare la presa immediatamente; il ricordo di quella paura, di quell’attimo in cui l’universo si era oscurato negli occhi di André, per diventare un abisso profondo, una voragine nera, impenetrabile, incomprensibile, la tormentava ancora.
Conoscersi da una vita e non riconoscersi più, nello spazio di un respiro.


"Così mi fai male, André!"
 
Lo stupore nella voce, nella mente, nel cuore.
Quelle mani grandi, forti, salde, la stavano forzando senza che lei nemmeno si rendesse conto del perché e di cosa lui volesse fare; le sue braccia opponevano invano un’inutile resistenza mentre la sua mente ancora si affannava nel tentativo di ritrovare se stessa in quel vuoto, in quegli occhi estranei in cui non riusciva più a specchiarsi e riconoscersi.
 
Cosa siamo?
Chi siamo?
 
Poi era accaduto tutto rapidamente, troppo rapidamente.
Le sue labbra erano morbide e calde, questo lo ricordava, ma non ricordava come fu che lei schiudesse le proprie e lo lasciasse entrare nella sua bocca, mentre percepiva il corpo di lui addosso, e si sentiva spingere indietro, quasi sollevare dai passi di André che la portavano giù, costringendola addirittura ad aggrapparsi a lui per non cadere nel vuoto.
La sua lingua.
La sua lingua era umida e morbida, si muoveva sicura dentro di lei e non le dava tregua; non realizzò subito che la stava baciando, ma rispose a quel bacio, a quelle carezze liquide, a quei gesti nuovi ed inaspettati senza sapere il perché, senza chiedersi nulla.
Non se l’era ricordato, dopo, che per i primi attimi di quel bacio che lui le aveva rubato, era stata bene e si era sentita improvvisamente di nuovo se stessa; lo ricordava adesso, dopo che il tempo le aveva dato il tempo di ritrovare e rimettere a posto tutti i tasselli di quella sera, e di osservarli ad un passo di distanza e non più solo da dentro, perché da dentro ci si perdeva ogni volta, e faceva troppo male, e la gola si chiudeva in un groppo stretto e doloroso, e le lacrime salivano agli occhi facendoli bruciare; allora lei lottava per non farle uscire, ma non sempre ci riusciva, e a volte le toccava piangere per davvero, ancora.
Anche lui ricordava le labbra bollenti e dolcissime di lei, e i suoi riccioli che gli solleticavano il viso mentre si accostava di più e la sentiva cedere sotto il suo assalto e lasciare che si insinuasse nella sua bocca e che la esplorasse avido e pieno di passione.
Desiderio puro e semplice.
Nessun pensiero, nessuna ragione, nessuna scusa.
La voleva.
Per una volta sola, la prima e l’ultima, forse.
Non importava.
In un attimo aveva abbandonato ogni difesa e il suo corpo aveva preteso e riscosso il prezzo durissimo di un sogno sognato e risognato ogni notte, di un amore mai lasciato libero di essere e di essere vissuto, di un desiderio troppo a lungo inappagato.
Sua.
Così doveva essere e così sarebbe stato.
Ricordava il corpo di Oscar sotto il suo quando le cadde addosso dopo averla spinta sul letto; ogni curva, ogni morbida forma, ogni più piccolo movimento che diventava un sensuale attrito fra i loro corpi, tutto, tutto diventava una provocazione irresistibile per la sua passione feroce.
Ricordava la propria eccitazione, ricordava il profumo di lei e l’illusione che lei lo stesse incoraggiando.
O forse no, forse il tempo gli aveva giocato un brutto scherzo annebbiando il ricordo e lasciandogli la possibilità di illudersi che in quel momento lui avesse davvero frainteso, in buona fede, in totale balia di un bacio troppo profondo e morbido per essere il frutto di una prepotenza.
Eppure subito dopo lei gli aveva chiesto di lasciarla, sennò chiamava aiuto, e nella sua voce c’era paura mescolata a rabbia e a qualcosa che, chissà, in quel momento gli era sembrata emozione, o forse eccitazione trattenuta.
Poi si era ritrovato ad osservare, incredulo, nella propria mano un lembo strappato della sua camicia; e non ricordava.
Proprio no.
Ricordava di averle lasciato i polsi, ad un certo punto, e di aver posato le mani sui suoi fianchi, e di averla percorsa rapidamente, cercandola come un assetato cerca l’acqua fresca di un ruscello;  ricordava le sue curve, i fianchi, la vita, il torace, il seno.
Il seno…
Lì si era fermato.
Ricordava di aver sentito sotto le mani la morbidezza delle sue forme libere dalle fasce, e ricordava anche di aver premuto le mani su quelle rotondità calde e dolcissime; avrebbe voluto entrare in lei in quell’istante, prenderla e farla sua lì, così, senza nemmeno spogliarla o spogliare se stesso; affondare in quel corpo, in quella carne, in quel profumo che gli dava alla testa, in quel calore che sentiva là dove la sua eccitazione premeva ad ogni suo movimento.
Fra le sue gambe aperte.
Poi lei aveva gridato.
Quel grido gli aveva trapassato la mente come una lama affilata e rovente, e l’aveva scosso, ridestato.
Si era sollevato senza capire perché, confuso, stordito, finché non aveva visto quel pezzo di stoffa bianca nella propria mano.
Solo allora si era accorto che lei stava piangendo.
Aveva gli occhi fissi su di lui, lo guardava allucinata, e lui aveva capito che nemmeno lei capiva.
Poi vide un lampo baluginare in quell’azzurro, un fulmineo sgomento e poi un velo di imbarazzo e di dolore.
Aveva distolto lo sguardo da lui e gli aveva chiesto con un filo di voce che cosa ne avrebbe fatto di lei, che cosa intendeva provare.
Ma lui non intendeva provare nulla, lui la voleva e basta.
Lui l’amava e basta, da una vita.
E lei piangeva.
Sempre più forte.
Poi vide lo scempio che aveva fatto.
Vide il volto di lei sconvolto e bagnato di pianto, i capelli arruffati e sparsi disordinatamente sul lenzuolo, la camicia mezza sfilata dai pantaloni e strappata che lasciava scoperta buona parte del suo seno delicato e bellissimo.
Si sentì morire, di nuovo.
 
Chi sono?
Cosa ti ho fatto?
 
L’aveva persa per sempre, ora ne era certo.
Era peggio che morire.
Aveva pensato di andarsene, di lasciarla sola col dolore e la vergogna che lui le aveva causato, ma non ci riuscì.
Ricordava di averci provato, con tutte le sue forze, e ricordava che invece le gambe avevano ceduto e che lui si era ritrovato ancora su di lei scossa dai singhiozzi e troppo sconvolta per reagire in qualsiasi modo che non fosse semplicemente continuare a piangere.
Aveva posato il capo su quel seno morbido e profumato in un gesto delicato, tenero, quasi protettivo; protettivo per lei e per se stesso.
Non poteva lasciarla, non voleva lasciarla.
Chiuse gli occhi e ascoltò il suo cuore.
Batteva impazzito sotto le labbra che lui aveva posato sulla pelle candida di Oscar, perché voleva sentirla ancora, perché non ci voleva credere che l’aveva persa, che aveva rovinato tutto per sempre.
 
“Perdonami”
 
Aveva implorato con la voce rotta dalla morsa che gli chiudeva lo stomaco.
 
“Giuro su Dio che non ti farò mai più una cosa come questa”
 
E lo pensava davvero, con ogni parte di se stesso, e sentiva che mai avrebbe potuto perdonarsi per quel che aveva appena fatto.
Il sommesso pianto di lei riempiva il silenzio con un fragore per lui assordante, quasi insostenibile; doveva parlarle ancora, in quell’istante, dirle tutto, spiegare, o non avrebbe più potuto.
 
“Non c’è nulla che ti voglio dimostrare Oscar, ti prego di credermi. Per vent’anni ho vissuto con te, camminando al tuo fianco, vegliando sui tuoi passi, donandoti ogni respiro, ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo, ho condiviso tutto con te, emozioni, desideri, pensieri, ricordi; attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, ho vissuto di te e per te, solo per te. Io ti amo Oscar, credo di averti sempre amato.”
 
Ricordava le sue parole come se le si fossero impresse nella mente una ad una, incise, marchiate.
Piangeva anche lui, sul suo petto nudo, indifeso come lei, o forse anche di più.
André l’amava, l’aveva sempre amata, e lei non lo sapeva, non se n’era mai resa conto.
Improvvisamente aveva cessato di piangere ed era rimasta in ascolto del proprio silenzio; a malapena si concedeva di respirare mentre realizzava quel che aveva appena fatto.
Lo aveva gettato via con la disinvoltura con cui ci si disfa di un abito vecchio di cui si è stanchi.          
Perché?
Come aveva potuto?
Era André, l’unico amico, l’unico che sapeva tutto di lei, anche quello che lei non gli aveva mai detto, probabilmente anche quello che lei stessa ignorava di sé.
Era André, il compagno della sua vita strana e appartata, il custode dei suoi segreti, lo specchio della sua anima tempestosa, il porto sicuro su cui lasciar infrangere gli eccessi del suo carattere difficile.
Era André, senza un occhio per lei.
Era André, lo stesso di sempre, il fratello, l’amico.
Era André, e lei era solo una povera donna patetica e cieca.
Si diede della stupida, senza mezzi termini.
Lo sentiva piangere adesso e tremare, annientato.
Si sentì male per lui e per se stessa, si sentì perduta e comprese con orrore di aver forse rovinato tutto fra loro; non si era resa conto delle conseguenze del suo gesto.
Voleva fuggire dalla propria vita e dai propri sentimenti, ma soprattutto da quel senso di frustrazione e di vulnerabilità in cui era naufragata a causa di Fersen; voleva dimenticare, cancellare la vergogna per quel che aveva provato, desiderato e fatto, e per le conseguenze che aveva dovuto sopportare.
Si vergognava di se stessa e del proprio essere donna, si vergognava delle ore passate a pensare al conte, fantasticando, sognando ad occhi aperti, immaginando di vivere una vita diversa insieme a lui, in un luogo diverso, chissà…poi c’era stato il ballo, e lei vestita da donna tra le sue braccia, e lui affascinato, rapito, finalmente…era fuggita da lui però, nel momento in cui era stata certa di essere stata riconosciuta; non aveva retto il peso della verità, l’emozione troppo forte e la paura di non essere ricambiata o anche solo semplicemente capita.
Per lei era stato troppo.
Lui ci aveva messo un mese ad andare da lei e chiarire la cosa, per così dire, ed anche allora lei non ce l’aveva fatta, era scappata.
Dirsi addio per sempre era stata l’unica soluzione, allora, e da quel momento si era convinta che l’amore non faceva per lei, che non poteva gestirlo, viverlo, accettarlo.
Faceva troppo male.
E poi la distoglieva dalla sua vita e dagli impegni, che invece richiedevano concentrazione, lucidità, sangue freddo; continuare a fuggire, ecco l’unica soluzione che aveva trovato, e André faceva parte della sua vecchia vita, ovviamente.
Ma non solo.
André, in verità, era tutto ciò che lei non era.
Era un uomo.
Erano cresciuti insieme, come fratelli, avevano ricevuto la stessa istruzione, vestivano allo stesso modo, facevano gli stessi giochi e si comportavano in maniera simile, come due uomini, solo che lei non lo era.
Lei cosa diavolo era?
Non era un uomo vero e non poteva essere nemmeno una donna vera.
Oscillava tra la rabbia e la frustrazione, inesorabilmente.
Era stanca, stanca di combattere contro se stessa, stanca di non capire davvero fino in fondo chi era la vera se stessa.
Perciò aveva scelto la vita più semplice e sicura, l’unica che conosceva: la vita di un uomo.
C’erano cose più importanti dell’amore, infondo, aspirazioni più alte, valori, responsabilità.
Ma in quel momento André, l’uomo vero, stava piangendo come un bambino, col volto nascosto sul suo seno perché l’amava da una vita e lei non se n’era mai accorta e aveva pensato di rinunciare a lui così, da un momento all’altro, come se fosse niente; piangeva per tutto questo e perché era arrivato ad un passo dall’irreparabile.
Ma si era fermato.
Perché era André.
Ricordava che, nel mezzo di quei pensieri, un nodo le stringeva la gola impedendole di parlare; allora aveva fatto l’unica cosa che lì per lì le era sembrata sensata e possibile: gli aveva posato le mani sulle spalle, coi palmi aperti a toccare di lui quanto più poteva, e aveva stretto forte, aggrappandosi quasi a lui, per fargli sentire che lei era lì, che aveva capito, che lo perdonava.
Il corpo di André tremava tutto sopra il suo corpo, e tanto prima lo aveva sentito forte e prepotente, tanto adesso lo percepiva fragile e abbandonato, in balia di un dolore che toglieva tutto, le forze, il respiro, il coraggio.
André l’amava.
Quanto coraggio gli ci era voluto per viverle accanto senza poterglielo dire, imponendosi di tenere nascosto un sentimento così intenso e profondo, senza concedersi nemmeno il lusso di sperare di essere ricambiato?
O forse André sperava, forse aveva sperato, sognato, fino a quella sera, finché le sue parole di ghiaccio non gli avevano frantumato il cuore.
Si sentì sprofondare, come se all’improvviso si fosse aperta una voragine sotto di lei.
Precipitava nel vuoto, nel buio, aggrappata a lui, alle sue spalle solide e scosse dal pianto.
Precipitavano insieme, ognuno chiuso nel suo dolore, nella sua solitudine, nella sua delusione verso una vita che sembrava voler togliere tutto, anche la luce del sole, anche il calore del fuoco.
Possibile che loro non avessero il diritto ad un po’ di felicità?
Faticosamente, con estrema lentezza, André si era alzato, abbandonando per sempre il corpo caldo e profumato di Oscar, sentendo ancora sulle proprie spalle il calore delle sue mani; erano state proprio quelle mani, il loro tocco forte e dolcissimo a dargli la forza di lasciarla, a permettergli di varcare la soglia della sua stanza, a concedersi la flebile speranza che non tutto fosse perduto per sempre.
L’aveva guardata un’ultima volta, ma non negli occhi; l’aveva coperta mentre lei si girava sul fianco per dargli le spalle e piangere ancora un po’, sopraffatta da tutto, da lui, da se stessa, e da quel mistero che racchiudeva le loro vite in una spirale di solitudine.
 
 
 

L’acqua scura della Senna gli scorreva davanti all’occhio stanco ormai da…da quanto?
Non lo sapeva più, potevano essere alcune ore.
Aveva bevuto e avrebbe bevuto ancora, aveva pensato di gettarsi in quell’acqua scura e lasciare che fosse la corrente a trascinarlo via per sempre.
Sparire, da un momento all’altro, chiudere con tutto, col mondo, con Oscar, con se stesso e con la vita.
Cosa avrebbe pensato lei?
Cosa avrebbe fatto?
Quante lacrime avrebbe versato, quanti rimorsi avrebbe avuto?
Cosa avrebbe ricordato di lui?
Almeno adesso lei sapeva, e non avrebbe più potuto ignorare i suoi sentimenti.
Ma a cosa era servito dirglielo, se non poteva continuare a viverle accanto?
Si rigirò la bottiglia vuota tra le mani intirizzite, ormai non sentiva neanche più il freddo.
La luna si rifletteva sull’acqua nera che, increspandosi per effetto della corrente e del vento, dava vita ad una moltitudine di bagliori argentati, che gli sembrarono per un attimo luminosi come i suoi occhi…
Argento vivo….
 
Amore mio, ti rivedo dappertutto, come faccio a stare lontano da te per il resto della mia vita?
 
Una settimana, era trascorsa appena una settimana da quando lei se n’era andata e già non resisteva più all’impulso di correre da lei.
Per fare cosa, poi, non lo sapeva nemmeno lui.
Chiederle perdono?
L’aveva già fatto e lei, in effetti, l’aveva perdonato.
Dirle che l’amava?
Anche quello l’aveva già fatto, e a che cosa era servito?
Doveva sforzarsi di attendere, trovare il modo di sopravvivere fino al suo ritorno e continuare a sperare…sperare….
Sì, ma in cosa?
Dopo quello che le aveva fatto.
Istintivamente alzò il capo e si ritrovò con lo sguardo rivolto verso il cielo limpido di quella notte invernale e da lì, una stella lo scrutava brillando intensamente sui suoi pensieri cupi e confusi.
Una speranza, eh?
“E va bene, Grandier, se proprio vuoi sperare in qualcosa, che sia di rivederla ancora una volta! Poi vedremo se buttarci nel fiume o trovare qualcos’altro in cui sperare.”
Ciò detto, si alzò, a stento, appoggiandosi al muro umido dietro di lui; barcollando, cercò di tornare dal suo cavallo, per vedere se in due erano in grado di ritrovare la strada di casa.
Per quella sera, forse, aveva bevuto abbastanza.
 
 

 
Aveva voluto rimanere sola, lei, dopo quella notte.
Era andata in Normandia senza di lui, aveva trascorso lunghe giornate lente e cupe, aveva passeggiato sulla spiaggia deserta, aveva cavalcato fino a sfinire César, aveva pianto fino a consumarsi gli occhi, e aveva pensato e ripensato a tutto, a Fersen, a lui, a se stessa.
Si era chiesta mille volte perché mai non le fosse dato di poter accarezzare almeno una volta nella vita quella felicità completa a cui solo l’amore corrisposto può portare.
Poteva lei ricambiare i sentimenti di André?
In realtà, si rese conto di non essersi mai fermata ad analizzare i propri sentimenti per lui, di averlo sempre dato per scontato; lui c’è, c’è sempre stato e sempre ci sarà.
O forse no?
Dopo quella notte niente sembrava più così scontato, ed il suo senso di colpa, devastante, nei confronti di un amico che le aveva dedicato la propria vita per amore, era diventato una fitta costante nel cuore e nella mente.
André l’amava…sembrava ancora impossibile, impensabile….e allo stesso tempo suonava così ovvio.
Doveva abituarsi all’idea.
Sentiva di volergli bene, molto, molto bene; certo, lui aveva sbagliato, l’aveva aggredita, ed ogni volta che ripensava a quei momenti si sentiva persa e vulnerabile.
 
“Non ce l’ho con te, comunque, preferisco dimenticare.”
 
Sapeva che era vero, che non lo odiava per quello che aveva fatto e non riusciva proprio a togliersi dalla testa il pensiero che, infondo, anche lei si era comportata come la più arrogante e ingrata delle persone, e che quella frase, quella verità gettata in faccia senza pietà e senza esitazione, se l’era davvero meritata.
Poi avevano perso il controllo, entrambi, ma quello, ci poteva giurare, non sarebbe accaduto mai più.
Guardò fuori dal finestrino della carrozza che la stava riportando a casa, verso ciò che l’aspettava in quella sua nuova vita da uomo; sì, aveva preso senz’altro la decisione giusta, doveva imparare a rinunciare ad André, ora più che mai, perché gli voleva bene e voleva salvarlo da se stessa, dato che, certamente, lei non avrebbe mai potuto ricambiare il suo amore.
Di sicuro, Oscar François de Jarjayes non avrebbe amato più, mai più.
Però, come si sentiva triste e vuota…
 
 
 

 

Eccoci qua!
Come vedete, vi lascio sospesi in quest'attesa di ciò che potrebbe accadere: André sospeso nelle sue incrollabili speranze, Oscar sospesa nei suoi mille dubbi su se stessa, ma cocciutamente decisa a non cambiare la decisione presa.
Spero si noti un certo parallelismo tra i due: anche se alla fine, quella sera, lui è stato l'aggressore e lei la vittima, trovo difficile non attribuire a entrambi le stesse responsabilità e lo stesso fardello di sofferenza, senso di colpa, senso di perdita....
Spero vi sia piaciuta e, sinceramente, spero di avere, un giorno, il tempo di continuarla e frane una long.
Che ne dite, ne varrebbe la perna?
Grazie infinite a chi mi ha letto e a chi mi lascerà un graditissimo commento!

Musetta


 
 
 
 
  
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