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Autore: jesuisstupide    28/03/2014    1 recensioni
Crono è stato sconfitto. Pian piano tutti i mezzosangue del mondo vengono portati al Campo e riconosciuti dal loro genitore divino e tra loro c'è anche Katrina Volger, ragazza di 14 anni che mai avrebbe immaginato di non essere del tutto umana. E dato che nessuno semidio può permettersi di non avere problemi anche Katrina si troverà presto coinvolta in un'impresa che la porterà a scoprire una nuova minaccia per il mondo e per l'Olimpo.
Il rating potrebbe cambiare
Genere: Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Incontro un po’ di gente strana in metropolitana.

La mia storia, o meglio, la parte interessante della mia storia inizia l’estate del mio 15° compleanno. Durante una vacanza. Che fortuna.
La mia famiglia non viaggia molto, nonostante possiamo essere tranquillamente definiti “schifosamente ricchi”, a mamma non piaceva lasciare il suo laboratorio per troppo tempo e papà era sempre pieno di lavoro.
Fatto sta che questa era la mia prima gita da quando avevo 10 anni e per questo ero un tantino esaltata, anche se stavamo solo andando a New York, a sole 225 miglia dalla mia casa a Washington.
“Sei eccitata” dichiarò mio padre, osservandomi con la coda dell’occhio mentre guidava “Non stai ferma un attimo”.
Spostai lo sguardo da dal paesaggio per lanciargli un’occhiataccia.
“Soffro di ADHD” gli dissi con tono ironico “Non sto MAI ferma”.
Scoppiammo a ridere. Era un vecchio scherzo tra noi. Soffrivo di ADHD e di dislessia e papà lo sapeva bene; era stato proprio lui che, dopo la mia 4°espulsione, aveva proposto di istruirmi a casa, da privatista.
In circa tre ore arrivammo a New York, lasciammo i bagagli al Ritz Hotel vicino a Central Park e poi ci lanciammo subito alla visita. Girammo tutto il Central Park, vedemmo la Statua della Libertà e altri monumenti curiosamente danneggiati (una statua della dea Pomona aveva un curioso sguardo irritato) e soprattutto l’Empire State Building.
Più ci avvicinavamo alla struttura più mamma diventava apprensiva.
“Non parlare con nessuno. Non entrare. E per amor del dio, non allontanarti da me”
Io, da pessima figlia iperattiva quale ero, ignorai le sue raccomandazioni. Approfittai della prima comitiva che ci passò accanto per allontanarmi da lei e avvicinarmi al palazzo, da cui mi sentivo attratta.
“… la scorsa estate la zona dell’Empire State Building è stata una delle più colpite dal cataclisma che ha devastato l’intero paese. Curiosamente la struttura è stata una delle meno danneggiate forse…”
Il gruppo a cui mi ero unita era una scolaresca. Delle medie, a giudicare dall’altezza di alcuni degli studenti.
Tra loro c’era una ragazza, visibilmente più grande degli altri; aveva capelli rosso cupo, tagliati in modo irregolare con ciocche di vari colori, acconciati in due code, folte e basse, pallidissima, vestita come la versione gotica di un cartone animato giapponese. Spiccava su tutti non solo per l’aspetto fisico, ma anche perché sembrava immersa in un mondo tutto suo: fissava la sommità dell’empire State Building senza muovere un muscolo, giocherellando con una bacchetta cinese per i capelli; sembrava intenta in una silenziosa conversazione con sé stessa.
Mossi un passo verso di lei, quando qualcuno mi afferrò il braccio.
Era mia madre. Ed era decisamente preoccupata.
“Katrina! Ti ho detto di rimanere accanto a me. Non sai cosa ti può succedere” mi fissò negli occhi accigliata “Cosa è successo bambina?”
“Niente mamma. Non devi preoccuparti”
Cercai di essere il più convincente possibile, ma lei era la mia mamma, mi conosceva da sempre e mi amava da sempre. Non c’era verso di ingannarla. Esitò un po’ prima di domandarmi:
“Hai… hai visto altre cose?”
Abbassai lo sguardo. Durante l’ultimo viaggio a Miami avevo detto a mamma di aver visto degli uomini-cavallo galoppare per le Everglades con in groppa alcuni ragazzini. L’avevo spaventata a morte.
“Nulla mamma, non ho visto nulla” la guardai dritta negli occhi sentendomi un verme “Lo giuro sul fiume Stige”
Lei si rilassò. Quella frase mi era stata insegnata proprio lei ed aveva da sempre il potere di calmarla, come se non potessi mentirle quando la pronunciavo.
 
Quella stessa notte sognai per la prima volta nella mia vita. Ed ebbi un incubo.
Stavo cadendo in un pozzo senza fondo. Accanto a me galleggiavano vari pezzi meccanici: eliche, lamiere, persino un motore jet. Ma quando allungavo le mani per prenderli, quelli si spostavano come se avessero avuto vita propria. Quando toccai il fondo mi ritrovai a fissare nelle orbite vuote di un volto deforme e barbuto. Da principio non vidi niente, ma continuai a tenere gli occhi fissi in lui, inspiegabilmente attratta da quel vuoto. Di colpo apparve un’immagine, un luogo con mattoni a vista e vetrate e binari del treno. Poi tutto scomparve, lasciando solo una voce.
Mi sveglia con una parola in testa, la parola pronunciata dalla voce.
-Presto-
 
La mattina successiva riuscii a convincere mia madre a prendersi una pausa dal suo ruolo di genitore-sempre-in-ansia per fare una romantica uscita con papà. O meglio io cercai di convincerla e mio padre la prese praticamente di peso, raccomandandomi di tenere il cellulare acceso per ogni evenienza. Li salutai allegra dalla finestra della stanza per poi precipitarmi a preparare lo zaino. Buttai dentro una bottiglietta d’acqua, alcuni snack, soldi e una cartina della città; incerta osservai il mio blocco da disegno per poi decidermi ad infilare anche quello nella sacca. Mi allacciai la catenina con il pendente circolare inciso, unico regalo di mio padre, presi il cellulare ed uscii.
Muovermi da sola a New York fu meno complicato del previsto: avevo segnato tutte le informazioni necessarie sulla cartina e quando la mia dislessia rendeva impossibili decifrare le indicazioni riuscivo a trovare sempre qualche passante disposto ad aiutarmi.
Dopo varie peripezie ed una fermata della metro sbagliata riuscii ad arrivare alla mia meta, la New York City Hall, una fermata fantasma della metro; era uno dei luoghi preferiti da mia madre, non faceva che parlarne, lamentandosi del fatto che fosse stata chiusa.
Era il luogo del sogno.
Scesi le scale velocemente, precipitandomi direttamente sulla banchina dell’unico binario.
Non so cosa mi aspettassi di trovare: un fantasma, un leone gigante, altri uomini-cavallo,
l’uomo del sogno… invece nella galleria non c’era niente, neanche una vecchia locomotiva abbandonata. Era una stazione magnifica, in stile romano, con mattoni a vista, infissi in ferro battuto e splendide vetrate. Magnifica, ma pur sempre una normalissima stazione.
Sospirai, dandomi dell’idiota. Avevo fatto un sogno, nulla più. La gente sognava ogni notte e nessuno andava in giro cercando di dare una spiegazione ai sogni. A parte gli psicanalisti, ma loro sono un mondo a parte.
Mi sedetti a terra, sfilai il blocco da disegno dallo zaino e iniziai a tracciare linee a matita sul foglio bianco, lasciando che l’ “artisticità” del posto mi ispirasse un progetto (un paio di ali che potessero chiudersi e aprirsi). Come al solito disegnare mi aiutò.
Rimasi lì seduta a disegnare fino a quando un rumore di passi concitati rimbombò nelle gallerie attirando la mia attenzione. Poco dopo comparve una donna graziosa, con lunghissimi capelli lisci, biondo grano,  un fisico da modella fasciato da un abito prendisole rosso cupo e il viso nascosto da un cappello a tesa larga bianco. Emanava un odore ferroso, famigliare e fortissimo, tanto forte che sentivo riuscivo a sentire anche da questa distanza.
Sembrava preoccupata e si guardava intorno come se stessa cercando una via di fuga. Quando mi vide raddrizzò le spalle e si avvicinò a passo affrettato. Tic Tic Tic Tic. I suoi tacchi a spillo risuonavano sul pavimento, una colonna sonora degna di un film dell’orrore.
“Ciao piccolina” mi salutò con voce dolce e musicale, quasi falsa nella sua perfezione “Ti andrebbe di aiutarmi, piccolina?”
Pian piano che si avvicinava il mio ciondolo si faceva sempre più caldo, arrivando ad essere incandescente quando la donna si fermò davanti a me.
Era così alta che dovetti alzare lo sguardo per guardarla in volto. All’inizio fu difficile distinguere i suoi lineamenti, distorti da una sorta di… nebbia che mi rendeva stanca e sonnolenta, ma grazie al calore della collana e al nauseabondo odore emanato dalla donna stessa, riuscii a rimanere abbastanza lucida perché la nebbia si disperdesse.
Non l’avesse mai fatto. La sua faccia era assolutamente orrenda, terrificante.
Da dove comincio? Non aveva gli occhi, solo un paio di orbite vuote e nere, circondate da vene in rilievo, di color nero-bluastro che le attraversavano tutto il viso, dando alla sua pelle pallida l’aspetto di una prugna rugosa; la bocca poi sembrava un taglio fatto con un coltello che le andava da una guancia all’altra, con le “labbra” sporche di quello che sembrava un rossetto rosso messo molto male (avete presente la bocca di Joker nei film di Batman? La sua bocca era identica).
Purtroppo non era rossetto rosso. Lo realizzai quando capii perché il suo odore mi risultasse familiare. Era l’odore del sangue, che le impiastricciava la faccia e, cosa ben più inquietante, le tingeva completamente l’abito.
“Sapresti indicarmi un’altra uscita” continuò accarezzandomi il collo.
Ero terrorizzata. Aprii la bocca per gridare quando qualcuno mi precedette.
“Lamia!” urlò qualcuno alle spalle del mostro.
Veloce la donna mi strinse saldamente il collo, puntandomi alla giugulare l’altra mano, trasformatasi in una sorta di artiglio, con lunghissime unghie affilate. Una mossa ed ero morta. In un modo atroce, tra l’altro.
La nuova arrivata era la ragazza goth di ieri. Con lei c’erano un ragazzino biondo simile ad un putto e un ragazzo di circa 23 anno, con folti capelli ricci. Il piccolo stringeva spaventato una fionda in legno, mentre gli altri avevano sguardi feroci - quel tipo di sguardo che non vorresti mai rivolgessero a te – e in mano impugnavano… oh santo cielo!  Avevano delle armi! Vere armi dall’aria pericolosa, un bastone dall’aria appuntita e una spada corta, entrambe non in ferro, ma in un materiale che somigliava incredibilmente al bronzo.
“Lascia la mortale, Lamia”
La voce della goth suonava così sicura, imperiosa che mi sembrò impossibile che qualcuno potesse opporsi.
Lamia, evidentemente, non la pensava allo stesso modo.
“Non credo lo farò. Vedi sorellina – sorellina?! – questa deliziosa mortale è l’unica cosa che ti impedisce di uccidermi. Quindi sarebbe controproducente lasciarla andare.”
Non capivo molto, ma ero certa di essere in pericolo, un pericolo mortale; ero capitata nel bel mezzo di una sorta di litigio di famiglia tra killer.
Vorrei dire di aver mantenuto un contegno ineccepibile, di essermi comportata coraggiosamente, invece mi limitai ad emettere uno squittio che suonava vagamente come un “aiuto” e ad accasciarmi. Le unghie di Lamia mi graffiarono il collo, mentre il mio corpo cadeva verso il pavimento, ma la mossa distrasse il mostro, dando alla goth-girl il tempo di… beh! di fare qualcosa. La vidi mormorare alcune parole incomprensibili e Lamia venne colpita da una strana forza. Mentre veniva scagliata lontano, il mostro si aggrappò alla mia catenina; per un attimo sentii mancarmi il respiro e pensai che sarei morta soffocata, poi la chiusura si ruppe ed io caddi in ginocchio.
La mia salvatrice mi mise una mano sulla spalla.
“Tutto bene? Mi spiace per mia sorella, non sta bene. Non so proprio dove abbia preso quella pistola.”
La guardai dritto negli occhi, verdi, ipnotici e per un attimo le credetti; c’era davvero una pistola che non ricordavo nelle mani di Lamia, una pistola non un artiglio. Poi il ragazzo riccio ci passo accanto e l’illusione creata dalla ragazza si infranse; non c’era possibilità di spiegare le zampe pelose, né gli zoccoli.
“Mirna” urlò alla ragazza che si alzò in piedi e si preparò ad attaccare Lamia.
Per alcuni istanti le due sorelle si fronteggiarono, poi si slanciarono l’una contro l’altra, facendo cozzare tra loro la lama della spada e gli artigli, producendo un rumore metallico. Con un urlo molto simile ad un belato anche la mezza capra si buttò nello scontro, mirando con il bastone al collo di Lamia, la quale non si fece spaventare; respinse Mirna, facendola barcollare per la forza della spinta e parò il colpo del secondo avversario, prendendo un’estremità dell’arma e usandola come perno per scagliare, con una forza insospettabile, l’avversario contro un muro. Mirna e il ragazzo capra, però, si ripresero in fretta e si scagliarono contemporaneamente contro il mostro che parò i loro colpi usando i due artigli.
Erano in una situazione di stallo.
Dopo alcuni secondi interminabili, Lamia concentrò tutta la sua forza nelle braccia e spinse i nemici. Poi alzò un braccio e, pronunciate alcune parole, immobilizzò i due a terra, disarmandoli. Con ferocia si lanciò contro la sorella, sollevando un artiglio per colpirle il cuore.
Qualcosa mi sfiorò l’orecchio e colpì il mostro proprio in mezzo alla fronte. Mi voltai e vidi il ragazzino biondo tremante, ma con in mano la fionda con cui aveva scagliato il sasso.
Mirna approfittò dell’attimo di distrazione dell’avversaria, rotolò su un fianco, riprese la spada e con uno slancio energico trapassò lo stomaco della sorella.
Lamia spalancò la bocca e sgranò le orbite vuote, in un’espressione di stupore comica ed insieme raccapricciante, poi esplose in una nuvola di polvere dorata, simile alla sabbia. Poi anche la polvere scomparve.
Mirna si rialzò spazzolandosi abiti a capelli per pulirsi dai resti dell’esplosione del mostro, poi si chinò nuovamente a raccogliere qualcosa da terra.
Avevo appena assistito ad un omicidio. Qualcosa scattò nel mio cervello e, quasi senza pensarci, mi alzai di scatto, presi lo zainetto e mi precipitai verso l’uscita.

SPAZIETTO MIO:

allora... sono in madornale ritardo, se di ritardo si pulò parlare dopo più di due mesi di completa assenza. Spero che questo capitolo piaccia perchè è stato un parto plurigemellare con un travaglio lungo mesi. E spero di essere riuscita ad usare lo stesso tono presente nei libri di "Percy Jackson"
  
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