HUSH, BABY
L’aria
pungente della notte le colpiva il viso, come tanti spilli che si
conficcavano
nella pelle tormentandola.
Una
sensazione che rispecchiava in pieno il suo stato d’animo:
tormento.
Era
come se
due eserciti contrapposti lottassero senza tregua dentro di lei,
colpendosi,
sfregiandosi, spargendo sangue incuranti.
Da
una parte
i ricordi felici, quelli che scaldavano il cuore.
Dall’altra
la
violenza, il dolore e il sacrificio.
L’eterna
lotta fra il bene e il male, che mai poteva giungere al termine.
Anche
se ora
poteva bearsi di tutto ciò che aveva sempre desiderato (una
famiglia, dei veri
amici, una vita serena e tanto amore che la circondava), niente avrebbe
mai
cancellato quel senso di amarezza che viveva in lei, costringendola di
tanto in
tanto a tornare indietro con la mente a qualcosa che faticava a dover
ricordare.
Non
fatica a
mettere a fuoco le immagini, no.
Quelle
erano
tatuate in lei in modo indelebile.
Fatica
a
renderle meno nitide.
Ogni
volta
che ripensava a quei momenti, tornava di nuovo ad avere dieci anni, ad
essere
solo una piccola bambina indifesa e ignara della cattiveria di cui sono
capaci
gli adulti.
I
bambini
sono creature primordiali, intatti e immacolati, che nella loro
spensieratezza
vivono ogni giorno rincorrendo i loro sogni e immaginandosi un futuro
perfetto.
Gli
adulti,
invece, solo esseri spietati e mossi dalla sete di potere, che li
logora
lentamente, come una malattia che si espande nelle vene.
Due
facce
della stessa medaglia.
Così
differenti, eppure correlate fra loro da un legame inscindibile.
Perché
tutti
i bambini diventano uomini, e nessun uomo, prima di essere tale, non
è stato a
sua volta un bambino.
Come
si può,
allora, cambiare drasticamente il modo di vedere la vita?
Come
si può
svegliarsi sognatori e addormentarsi da assassini?
Non
c’era
una vera risposta alle sue domande, se non che la vita ci spinge a
cambiare per
sopravvivere.
Era
la legge
della natura.
Le
pecore
sono destinate a soccombere, i lupi a trionfare vittoriosi.
E
così le
pecore scelgono di diventare lupi, per affermare la loro supremazia.
Questo
era
successo ad Arlong.
Un
agnello
che sognava una vita normale, ma che alla fine aveva scelto di
diventare un
lupo, quando questa gli era stata negata.
Ma
non lo
avrebbe di certo perdonato per questo.
Non
provava
nessuna pietà per lui.
Il
risentimento non si può far cadere sugli innocenti.
Alla
fine,
lui stesso aveva fatto agli altri ciò che gli altri avevano
fatto a lui.
Era
diventato uguale ai suoi carnefici.
E
questo non
meritava nessun perdono.
Anche
lei si
era vista costretta a diventare un lupo, con la sola differenza che non
era
stata una sua scelta.
Lei
non
aveva mai scelto nulla di sua spontanea volontà.
Perché
lei
voleva essere una pecora.
Una
bambina
che rincorre il suo sogno.
Ora
lo era di
nuovo, grazie ai suoi compagni che l’avevano resa libera.
Loro
stessi
erano dei bambini.
E
anche chi,
come quel burbero spadaccino, aveva tutta l’apparenza di un
feroce lupo,
nascondeva in sé un animo buono, puro e senza macchia.
Questo
doveva renderla felice.
Ma
non quel
giorno.
Quel
giorno
che aveva passato a far finta di nulla, sforzandosi di sorridere per
sembrare
normale, nascondendo a tutti il suo dolore.
Si
era
svegliata senza pensieri, come in un giorno qualunque; poi aveva deciso
di
aggiornare il diario di bordo.
E
quella era
stata la firma per la sua condanna.
Era
rimasta
a fissare la data riportata sulla pagina con gli occhi sgranati,
incapace anche
di respirare.
Nella
sua
testa rimbombava lo scatto di un grilletto premuto, reso sordo dallo
scoppio
del proiettile che usciva alla velocità della luce, mirando
dritto verso di
lei.
Una
donna
dai capelli porpora, rasati ai lati, dal sorriso fiero anche in punto
di morte,
soddisfatta di quello che aveva ottenuto dalla vita.
Una
madre
che aveva amato fino all’ultimo le sue figlie, pur sapendo di
non avere con
loro alcun legame di sangue, perché l’amore che le
univa valeva molto di più
della genetica.
“Nami, Nojiko: vi voglio bene”
Queste
erano
state le sue ultime parole, prima che quel proiettile le bucasse la
fronte.
Aveva
accettato la sua fine senza rimpianti, perché negare di non
avere una famiglia
sarebbe stata per lei la peggiore delle morti.
Bellemere.
La
donna che
più aveva amato e ammirato al mondo era venuta a mancare
esattamente lo stesso
giorno di dieci anni fa.
L’amarezza
di quel ricordo si era impossessata di lei, facendola sentire come un
fantasma
che si aggirava senza meta né sentimenti, ma che voleva
nasconderlo agli occhi
degli altri.
E
ora che le
tenebre erano calate sulla terra, avvolgendola come una cappa scura,
poteva
finalmente dare sfogo a quell’agonia straziante che le stava
lacerando lo
spirito.
Una
lacrima,
pungente come l’aria, scese lungo il suo viso perfetto,
lasciando un segno del
suo passaggio, come una cicatrice che racchiudeva in sé un
ricordo indelebile.
Poi
un’altra.
E
un’altra
ancora.
Sentiva
freddo, ma non era il clima di quelle acque a gelarla.
Era
lei che
era fredda.
Vuota.
Lei,
che per
tutti era fuoco, in quei momenti diventava solo il lucignolo di una
candela
spenta.
Si
strinse
nelle spalle, mentre il pianto aumentava.
Con
gli
occhi appannati, alzò il volto al cielo, alla ricerca della
stella più
luminosa, che per lei aveva sempre rappresentato la figura della madre.
Ma
non
c’erano stelle quella notte, perché le nubi
portate dal vento freddo celavano
la luce degli astri portatori di gioia per gli uomini.
Era
come se
anche il cielo stesso fosse in lutto.
A
volte,
però, quello che cerchiamo nelle stelle, possiamo trovarlo
anche sulla terra.
Basta
solo
accorgersene.
Distratta
nel suo pianto, non sentì i passi pesanti che si
avvicinavano a lei, lenti e
cadenzati, accompagnati da un sinistro suono metallico.
Avrebbe
capito subito chi era il suo disturbatore, se non fosse stata
così persa in
quel baratro in cui era caduta.
-
Ehi, mocciosa. Che ci fai ancora sveglia?-
Fu
la sua
voce baritonale a riportarla sulla terra.
Lo
sentiva
poco distante da sé, ma non poteva girarsi.
Non
voleva
girarsi.
Odiava
mostrarsi vulnerabile, soprattutto davanti a lui, che fra tutti era
quello che
meno tollerava l’essere deboli.
L’avrebbe
certamente derisa, e in quel momento aveva bisogno di tutto
fuorché di
provocazioni inutili.
Attenta
a
non farsi scoprire, si asciugò le tracce rimaste dalle
lacrime.
-
Non ho sonno…-
La
voce le
tremava, ancora rotta dal pianto.
Sperò
che
Zoro non lo notasse, anche se era difficile sfuggire ai suoi sensi iper
sviluppati.
Inutile.
Se
n’era
accorto eccome.
Lo
capì
quando la affiancò, poggiando i gomiti al parapetto e
fissandola con la coda
dell’occhio.
Zoro
era
tante cose: un buzzurro insensibile e pieno di sé, un nemico
temibile, un
demone indomabile; ma era prima di tutto un vero amico su cui contare.
Era
sempre
pronto ad aiutarli, senza mai chiedere nulla.
Non
poteva
negare di volere qualcosa di più da lui, oltre
all’amicizia, ma sapeva anche
che nel cuore di quell’uomo di marmo non c’era
spazio per l’amore.
Si
era
accontentata di essergli solo amica, di essere la sua compagna di
bevute
notturne.
Tuttavia,
non poteva fare a meno di essere felice quando lo vedeva preoccuparsi
per lei.
-
Qualcosa non va?-
Ecco
la
fatidica domanda.
Non
che
avesse paura a rispondere, sapeva che anche Zoro aveva perso una
persona cara e
sentiva la sua mancanza: ciò che la intimoriva era il poter
scoppiare a
piangere di fronte a lui.
Lui
aveva
grande ammirazione per le donne forti, e le lacrime non erano segno di
forza.
Voleva
che
la vedesse come una donna di cui essere fieri, e non come una
femminuccia
qualunque.
-
Sono solo sovrappensiero, tutto qui-
Sentiva
il
suo sguardo su di lei, pesante una tonnellata.
Evidentemente
non se l’era bevuta.
Lo
vide
girarsi di schiena e allontanarsi dietro di lei.
Si
stupì:
Zoro non era uno che mollava così facilmente.
Se
voleva
una cosa, faceva di tutto pur di ottenerla.
I
suoi pensieri
vennero interrotti di nuovo, stavolta da un peso che le gravava sulle
spalle.
Stava
tanto
male da sentirsi addirittura un macigno?
No.
Qualcosa
si
era posato su di lei.
O
meglio,
qualcuno aveva posato qualcosa su di lei.
Portò
istintivamente le mani alle spalle, sfiorando con le dita un tessuto
morbido e
caldo.
Una
coperta.
La
figura
del samurai fece di nuovo capolino accanto a lei, nella stessa
posizione di
prima, come se non se ne fosse mai andato.
Sorrise,
avvolgendosi nella stoffa.
Il
primo
sorriso della giornata.
Era
un gesto
che chiunque avrebbe ritenuto opportuno fare, ma che fatto da Zoro
assumeva un
valore inestimabile.
Non
era uno
da gesti carini o da smancerie, eppure in quella semplice azione
c’era
gentilezza, un sentimento di cui anche lui, in fondo, era capace.
-
Almeno pensa con una coperta addosso,
altrimenti ti beccherai un malanno-
Ovviamente
il gesto carino doveva essere accompagnato da un tono autoritario,
perché
mostrare premura non era da veri uomini.
Bisognava
fare i duri.
-
Detto da uno che va in giro a petto
nudo…-
-
Tsk! Io sono un vero uomo, e i veri uomini
non sentono il freddo. Il loro corpo e il loro spirito sono temprati
dalle dure
prove a cui vengono sottoposti-
E
di nuovo
si metteva a fare la predica sui suoi principi etici e morali.
Ormai
aveva
sentito tante volte quelle frasi, ma si stupiva sempre di come lui le
seguisse
giorno dopo giorno, senza mai venirne meno.
Lo
trovava
noioso, ma anche incredibilmente ammirevole.
Lei,
che
rubava e ingannava senza pentimenti, che cambiava idea a seconda di
cosa le
conveniva, non riusciva a capacitarsi di come si potesse non
trasgredire alle
regole.
Lui,
invece,
lo faceva con naturalezza, come se fosse nato per fare quello.
Perché
venir
meno a uno solo dei principi sarebbe stato un disonore.
Se
tutti gli
uomini avessero preso esempio da lui, il mondo sarebbe stato un posto
migliore.
Fu
con quel
pensiero che la sua mente tornò a Bellmere, e agli uomini
che senza onore
avevano stroncato la sua vita come si straccia un foglio di carta.
Non
erano
nemmeno degni di essere chiamati uomini.
Le
lacrime
spinsero per riprendere a uscire, mentre la battaglia dentro di lei
ricominciava.
-
Ti conosco. Lo so che c’è
qualcosa che non
va. È tutto il giorno che sei strana…-
Abbassò
lo
sguardo, alla stregua di un peccatore che viene smascherato.
Era
nuda di
fronte a lui, non riusciva a nascondergli nulla.
Ancora
si
chiedeva come facesse a capirla così bene.
Sapeva
che
poteva appoggiarsi a lui in ogni momento, che Zoro era la roccia alla
quale
aggrapparsi per non precipitare.
Non
aveva
senso cercare di mostrarsi forti con lui, perché con il suo
solo sguardo sicuro
e fiero, o il suo tono baritonale e autoritario, era in grado di far
vacillare
le certezze di chiunque.
Sentiva
di
potergli parlare, sicura che lui l’avrebbe capita.
La
paura che
la deridesse era infondata.
Lui,
che per
primo aveva provato sulla sua pelle il dolore per la perdita di una
persona
amata, non si sarebbe mai lontanamente sognato di prendersi gioco di
lei.
Alzò
gli
occhi per incontrare il suo, l’unico rimasto, ma forte e
orgoglioso come un
tempo.
La
prima
lacrima scese, mentre la barriera che aveva creato fra loro si
sgretolava.
-
Bellemere…-
Fu
la sola
cosa che riuscì a dire, pronunciandola con un filo di voce,
rendendola simile a
una disperata richiesta di aiuto.
Ormai
al
limite, si gettò sul suo petto, scoppiando in un pianto
liberatorio.
Non
si
aspettava che la coccolasse, sapeva che non era un gesto da lui, le
bastava
solo che la facesse restare per qualche minuto con il volto nascosto
nel suo
petto, un rifugio sicuro e indistruttibile.
Arrestò
i
singhiozzi solo per pochi secondi, quando sentì le sue
possenti braccia
avvolgerla come una seconda coperta, e le sue grandi mani passare
lentamente
avanti e indietro accarezzandole la schiena.
-
Va tutto bene-
Tre
parole,
che in quel momento per lei significavano tutto.
Le
aveva
pronunciate con sicurezza, come se sapesse già che sarebbe
riuscito a darle
pace.
Era
quello
che aveva bisogno di sentire.
Si
strinse
ancora di più a lui, riprendendo a piangere.
Un
bacio,
delicato e silenzioso, si posò sul suo capo.
Forse
si era
sbagliata anche sul fatto che lei e Zoro non potessero essere qualcosa
di più
che semplici amici.
Forse
quella
giornata così buia avrebbe avuto un piccolo lieto fine, una
luce in fondo al
tunnel.
Lentamente,
una nuova speranza si accese in lei, come una scintilla di vita nuova.
Nella
battaglia fra bene e male, un esercito stava per proclamarsi vincitore,
dopo un
lungo spargimento di sangue.
Un’ultima
lacrima cadde silenziosa sul torace del samurai, accarezzandogli la
pelle,
quasi come fosse un’amante premurosa.
Ma
in quella
lacrima non c’era più dolore.
Era
una
lacrima di serenità.
ANGOLO
DELL’AUTORE
Sì,
lo so…è
l’ennesima cavolata, ma che ci volete fare? Anche
l’ispirazione va in vacanza a
volte, e resta quello che resta...Spero che vi sia piaciuta almeno un
po’, è
una ff senza pretese, un piccolo momento di fluff e di tristezza.
Fatemi
sapere che ne pensate, se vi va!
Baci
Place