Fanfic su artisti musicali > Oasis
Segui la storia  |       
Autore: Part of the Masterplan    30/03/2014    0 recensioni
Se n’è andata per sempre, dall’altra parte del mondo. Mi ha lasciato qui, solo, senza i suoi capelli biondi, il suo accento mancuniano, i suoi rimproveri e l’odore di Benson così familiare.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Until Sally I was never happy.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“Vieni con me, ti faccio vedere dove puoi lasciarla.”
La giovane dottoressa dai capelli scuri che tiene tra le braccia un fagottino di coperte colorate obbedisce a testa bassa agli ordini di Meg e scompare dalla mia vista senza degnarmi di uno sguardo, mentre richiudo alle mie spalle la porta di casa sentendo scemare il rumore dei flash impazziti dei fotografi.
Fottetevi tutti, idioti.
Ho un gran mal di testa, come un cerchio che preme senza sosta sulle tempie e sugli occhi, eppure almeno per oggi non ho una sbronza alcolica da smaltire. Forse è stata la puzza di medicinali di quella clinica che, contando tutti i soldi che ci abbiamo lasciato, dovrebbe profumare di paradiso, non di disinfettante. Ti si infila nelle narici, come quell’insopportabile odore che c’era in quella stanza d’ospedale di Manchester, dove ho passato tante notti con una chitarra e gli occhi ossessivamente piantati su uno scricciolo di donna immobile a letto. Ricordavo che a volte fissavo lo sguardo sul suo petto per sincerarmi che stesse respirando, che non decidesse di farmi lo scherzo peggiore che avrebbe potuto fare: abbandonarmi e non tornare mai più.
Premo con decisione sulle palpebre chiuse e tutto diventa nero, una dimensione senza spazio e tempo che vorrei raggiungere fisicamente e in cui vorrei dormire per settimane. Mi hanno detto che tutto sarebbe cambiato, diventando padre, ma io per ora non vedo altro cambiamento che una cazzo di sconosciuta in giro per casa mia con in braccio mia figlia e troppo casino intorno. E’ troppo chiedere un po’ di fottuta pace?
“Arrivederci, signor Gallagher. E congratulazioni!” squittisce la voce della donna in camice bianco alle mie spalle che, recepito il mio grugnito, esce per sempre da casa mia e anche dalla mia vita, spero. Che non si aspetti di tornare qua a fare una visita guidata delle stanze, cazzo.
Sento il rumore dei tacchi di Meg procedere nella stanza sopra a questa, scendere le scale, dal fondo del corridoio avvicinarsi a me. Istintivamente muovo lo sguardo oltre la mia spalla destra, dove riesco a vedere l’arco che si apre sulla cucina, quell’angolo di muro da cui una mattina si sporse con i capelli arruffati e intercettai il suo viso curioso e preoccupato, prima che Meg e Melissa iniziassero a stuzzicarla con battutine e interrogatori a cui lei ha sempre risposto a modo.
Daddy, la piccola sta dormendo.”
Le sue mani stringono le mie spalle e le labbra baciano la mia guancia con forza. Daddy. Quante volte quella parola ha trillato in giro per le stanze e i locali, quando lei e Liam si incontravano, si correvano incontro abbracciandosi come se non si fossero mai visti prima, scambiandosi un tenero bacio sulle labbra. La prima volta che li vidi avrei voluto spaccare in faccia a Liam la sua chitarra acustica del cazzo. Lo presi per un braccio, stringendo il suo parka sopra il gomito e lo strattonai lontano dalla folla. “Che cazzo ti passa per la testa? Perché la baci?” la indicai in lontananza, mentre sorrideva e lasciava la traccia di rossetto scarlatto sull’orlo del bicchiere.
Calm down, knobhead.” mi rise strafottente in faccia, soffiando il fumo dalle labbra “E’ come se fosse mia sorella, non c’è niente che non vada.”
In effetti, riguardandoli con disprezzo dietro gli occhiali da sole, non c’era niente di passionale, sensuale o ambiguo in quel bacio. Era come una carezza, un gesto affettuoso tra due ottimi amici che ogni volta che si incontravano si chiamavano “daddy” e “auntie” dopo la nascita di Lennon. Che cazzo di nome, Lennon. Il baratro dell’ossessione non ha mai fine.
“Mi hai sentita?”
Annuisco distrattamente, rivedendomi davanti quegli abbracci sinceri, quelli che io non riuscivo più a darle, quelli in cui lei era capace di trovare conforto e casa perché io non c’ero più, lontano e perso. L’avevo lasciata da sola, a metà strada chissà dove, al buio. Volevo che quelle labbra fossero mie e non per farci sesso, ma per ritrovare in lei quello che io avevo lasciato indietro, perché per me lei era come quella cazzo di pensilina della fermata dell’autobus quando piove e cerchi riparo. Avrei voluto che quei gesti di affetto fossero per me, per sentirmi accettato e non solo spremuto dalla macchina che mi dà soldi a palate.
“E’ bellissima.” continua Meg prendendo posto vicino a me, affondando nel divano e mettendo una mano sulla mia gamba “Siamo genitori, ti sembra possibile?”
“Contando che ne parliamo da nove mesi, sì.”
Meg scuote appena la testa, un’espressione amara le si dipinge sul volto stanco, che oggi ha sopportato il travaglio, il parto e l’emozione di essere madre. Faccio per alzarmi, ma la sua mano fa pressione sui miei jeans. Cerco il suo sguardo e capisco che non si limiterà a quello, ma inizierà a rimproverarmi qualcosa. Ne approfitto, comunque, per alzarmi in piedi.
“La smetterai ora che c’è Anais, vero?”
“Di far cosa?” domando insofferente.
“Di stare nel tuo mondo, chissà dove. Di non riuscire neanche a stare seduto con me sul divano, di dover sempre scappare. Abbiamo una figlia, Noel.”
“Non rompermi i coglioni almeno oggi, Meg.”
Cammino spedito verso le scale e salgo al piano superiore, mentre il suo grave sospiro risuona nel salotto.
Pensavo fosse molto più facile. Insomma, con lei mi trovavo bene, ci divertivamo, era una di quelle con i contatti giusti e l’inclinazione alle feste folli, le ho dedicato Wonderwall. L’ho scritta pensando a lei? No, non credo, e mi sorprendo a sorridere tra me e me, rispondendo a questa domanda. No, non pensavo a lei. Però gliel’ho dedicata, perché in fondo quelle parole potevano essere il tentativo di dirle “Ehi, Meg, sono una testa di cazzo, ma non sono poi tanto male.” E poi è arrivato tutto di colpo. Una canzone, la convivenza, il matrimonio, la gravidanza, la nascita di Anais questa mattina. Quando sei sulla giostra e non puoi fermarti, perché sadicamente continua, ruota, su e giù, giù e su e come fai a scenderne se non arrendendoti. E con la casa anche i soldi, e con quelli tutta la droga che ci siamo fatti.
Supero la camera da letto degli ospiti, arrivo alla nostra e apro con cautela la porta. La maestosa culla troneggia ai piedi del matrimoniale, su cui mi siedo osservando rapito questa neonata che dorme pacificamente. Sono suo padre. Su questo letto ho rischiato l’overdose, in questo letto per l’ultima volta, si è aggrappata a me con la vana speranza che ne saremmo usciti indenni. Ne siamo usciti devastati, a pezzi, senza istruzioni per tornare ciò che eravamo. Mi ha rivoltato l’anima e, a pensarci bene, mi ha lasciato per sempre proprio stamattina.
Ripenso alla prima volta che la vidi con in braccio Lennon, a quanto fosse bella, all’espressione dolce con cui guardava quel bimbo e gli sussurrava cose buffe all’orecchio. Avrei voluto che quel bambino fosse Anais e che la madre fosse lei, perché solo così ci saremmo salvati da noi stessi, rimanendo uniti.
Il cerchio alla testa è sempre più insopportabile, vado in bagno e mi appoggio al lavandino guardando il mio volto riflesso nello specchio, stanco e nauseato come sono abituato a vederlo da un po’ di anni a questa parte. Quando dormiva in questa casa la mattina mi piaceva rimanere a letto, succube della sbronza, e con gli occhi socchiusi sentirla muoversi in bagno, aprire l’acqua, struccarsi, raggomitolarsi nell’asciugamano profumato e poi venire a sedersi a gambe incrociate sul letto accanto a me. Rimaneva a guardarmi e io la sentivo respirare silenziosamente.
Apro il rubinetto e lascio impetuosamente scorrere l’acqua sulla superficie di candida ceramica, mentre la fisso gorgogliare. Se n’è andata, trincerata dietro a quegli occhiali scuri, all’impassibile e fredda espressione che le deformava il volto ogni volta incontrasse il mio. Ha avuto paura di me, anche se per un solo secondo, ma ha avuto paura, quando le urlavo addosso e quando le affibbiavo colpe che avrei solo dovuto vomitare su uno specchio guardandomi. Non volevo che quegli occhi andassero via e invece ho ottenuto il contrario. Non è capace di aspettare e guarda indietro con rabbia, so che lo sta facendo.
Un leggero tocco sulla porta mi scuote. “Tutto bene, Noel?”
“Sì. Lasciami da solo.”
“Cosa c’è che non va?”
Sento che appoggia la mano alla maniglia, ma almeno ha il buon gusto di non aprirla.
“Non c’è un cazzo che non va. Fammi un gintonic.”
“A quest’ora?”
“Meg, chiudi quella cazzo di bocca e fammi un gintonic, per favore.”
Si allontana spedita, probabilmente indirizzandomi un insulto.
Se n’è andata per sempre, questa volta in maniera definitiva. Nella casa sua e della yankee è rimasto solo uno scatolone con dei vecchi giornali. Eppure ogni lavoro di grafica che ci riguardi, qualunque cosa non coinvolga direttamente la musica… Lei è lì, si percepisce l’energia che ci metteva, si sente che ha voluto davvero lasciare tutto in perfetto ordine prima di salire su quella macchina dai vetri oscurati.
L’acqua ghiacciata mi anestetizza i polpastrelli e mi passo le dita sul volto, sfregando gli occhi rossi.
Lei cercava quello che aveva perso – me – nelle altre persone, nell’affettuosità che tutti, dal primo all’ultimo, le mostravano, negli abbracci, nel riconoscimento del lavoro, nelle battute, in una lattina di birra quando i roadie smontavano gli strumenti e lei si accoccolava sul bordo del palco immerso nel buio a fissare la location ormai deserta. Quando, passando nel backstage, la vedevo rannicchiata là con il cappuccio sulla massa di onde bionde e le spalle strette, pensavo a quanto fosse bella e dannatamente malinconica e a quanto il tempo fosse passato: fino a dieci anni fa quei momenti li condividevamo insieme, spalla contro spalla. Fu la prima a salire sul palco di Maine Road, appena un passo dietro a me, a osservarmi in ogni movimento o smorfia. Tutto quello che non aveva con me, lo aveva frammentariamente dagli altri. Io, al contrario, tutto ciò che non avevo con lei lo trovavo nella mia chitarra e nella cocaina. Forse per questo lei ha retto meno di me, le mancava quella merda di polverina bianca a farle staccare il cervello.
Mi ha detto che mi amava, quella sera, e io cosa ho fatto? Ho finto di non aver sentito, autolesionista coglione.
“Il tuo gintonic è pronto.” Mi avvisa Meg, fredda.
Appoggio l’orecchio alla porta sentendola cullare Anais e uscire dalla stanza dopo poco e solo quando se ne va, rientro in camera da letto, prendendo tra le mani il bicchiere e sorseggiandone avidamente il contenuto.
Temevo i suoi occhi e contemporaneamente mi ci ritrovavo, perché solo lì le mie insicurezze venivano capite e placate, solo lì sentivo di poter andare a prendermi tutto, solo lì ero amato visceralmente in quella maniera che marchia con sangue e le lacrime. A lei ho dedicato canzoni e album interi, eppure non mi ha mai chiesto niente. Era naturale, quando prendevo in mano quella chitarra, che il nostro mondo fosse l’ispirazione, che la sua voce fosse quella che mi faceva capire che guardando indietro tutto aveva senso e che oltre al cinismo, devi avere le palle per amare.
Io, codardo, ammetto solo ora, seduto a fissare un disincantato pomeriggio grigio londinese con un gintonic in mano, che da cinico stronzo quale sono le palle non le ho avute.
E lei non è stata da meno.
Se è vero che siamo fatti della stessa cosa, siamo arrivati al punto in cui siamo solo nebbia e rancore. Mi sento improvvisamente vecchio e mi chiedo quanto era bello essere innocenti, poveri e scapestrati a Burnage, in quelle notti che ti tagliavano il viso dal freddo e la sua pelle calda e arrossata era peggio di una botta di LSD.
Il telefono in camera suona, allungo una mano sollevando la cornetta prima che Anais si svegli e sottovoce rispondo. “Chi è?”
“Noel, sono la mamma.”
Sospiro. “Ciao, mum.”
“Ciao, Noel. Scusa se ti chiamo solo adesso, ma ho appena terminato la chiamata con Lily, è andata all’aeroporto a salutare Sally, partiva per San Francisco.”
Allora la meta era davvero San Francisco. Tra tutte le città possibili, proprio quella, che ha significato così tanto, che è stata l’inizio di quel qualcosa che non riesco ancora a togliermi dalle spalle. Era così maledettamente forte, nonostante sembrasse vulnerabile e senza difese. Aveva difeso se stessa, me, gli Oasis.
“Noel,” continua mia mamma, ignara dei voli suicidi che la mia mente fa nei ricordi “come sta?”
“Chi?” domando. Il mio sguardo fissa un cubetto di ghiaccio che si scioglie pian piano, una goccia di condensa che scivola sulla superficie del bicchiere. Nel momento stesso in cui pongo la domanda, mi rendo conto di quanto sia tutto sbagliato.
“La piccola, Noel! Tua figlia! Anais! Cosa diavolo hai che non va?”
“Oh sì… Lei… Lei sta bene, è molto bella.”
“Verrò presto a trovarla.”
Continua a parlare, non la ascolto, come quando sniffavo la colla e stavo ore seduto immobile in soggiorno sul divano e mia mamma pensava fossi preoccupato per la scuola.
Se n’è andata per sempre, dall’altra parte del mondo. Mi ha lasciato qui, solo, senza i suoi capelli biondi, il suo accento mancuniano, i suoi rimproveri e l’odore di Benson così familiare.
 
I hope the tears don’t stain the world that waits outside,
Where did it all go wrong?
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Oasis / Vai alla pagina dell'autore: Part of the Masterplan