Storie originali > Giallo
Segui la storia  |       
Autore: MatteoIacobucci    31/03/2014    1 recensioni
L'arrivo a Torino di Alex, ragazzino di diciotto anni ed elemento del PSD(Promesse settore detective), progetto del ministero per plasmare nuovi detective, sconvolge la vita di Flavio, esperto investigatore privatista. Alex ha un'incredibile capacità deduttiva che lo distingue dai compagni di corso e appare infallibile, risolvendo ogni caso con estrema facilità. Flavio cela un terribile segreto che è oggetto di discussione anche tra i figli dell'uomo e Alex, spinto dalla voglia di verità e dai sentimenti per Bianca, figlia dell'uomo, cerca in tutti i modi di farvi luce. Mettendo da parte divergenze caratteriali e rivalità professionali, i due dovranno collaborare per un obbiettivo comune: vendicare il loro passato ed impedire che il loro futuro venga distrutto. L'intelletto di Alex farà la differenza o il ragazzo sarà l'ennesima vittima del male?
La pubblicazione avverrà a FILE. Una serie di FILE comporranno un caso poliziesco.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Volevo andarmene, onestamente. I miei capelli neri cadevano sulla mia fronte corrucciata e toccavano le folte sopracciglia.  Gli occhi scuri scrutavano ogni millimetro del vuoto. Per me, che avevo sempre vissuto in una piccola città, era uno shock arrivare in una metropoli come Torino. Ritrovarsi a diciotto anni, a cambiare realtà e abitudini è dura per chiunque. Il taxi su cui ormai ero salito stava giungendo a destinazione e doveva portarmi davanti ad un’abitazione nella quale avrei dovuto abitare per chissà quanto tempo.
Avevo superato brillantemente il corso ministeriale PSD (Promesse Settore Detective) e, sempre per ordini dall’alto, mi accingevo a trasferirmi in una grande città per un periodo di collaborazione con un’agenzia investigativa che si era messa a disposizione del Ministero per scopi puramente economici. Il Ministero offriva una rendita annuale di dodicimila euro a ogni agenzia che si dimostrasse volenterosa e ciò si traduceva in mille euro al mese. Un bel gruzzolo se sommati ai proventi dell’agenzia stessa.
«Siamo arrivati, fratellone?».
«Non ancora, Andrea. Porta ancora un po’ di pazienza». 
Per lo più mi ritrovavo con il mio fratellino a carico. Andrea non era un elemento di disturbo. Assolutamente. Sapete però com’è … occuparsi di un bimbo di cinque anni è impegnativo per chi è genitore, figuriamoci per un ragazzino. Il fatto è che mio fratello maggiore era in viaggio per motivi universitari nei vecchi USA, mia madre lavorava presso una compagnia televisiva abbastanza nota in Giappone e non avevamo un padre da circa cinque anni. 
«Siamo arrivati ragazzo» la voce del tassista risuonò nel silenzio dell’auto coperto solo dal rumore incessante e fastidioso del motore. Il mio fratellino si distolse dal suo giochino, il noto cubo di Rubik e alzò la testa per guardare in che posto ci trovassimo. Ricordo che la sua espressione non mi piacque per niente e che sembrò essere ad un passo dal pianto.
«Grazie signore, quanto le devo?» dissi esibendomi nel mio miglior sorriso triste.
«Quindici euro» rispose lui con freddezza. Afferrò le banconote e ripartì sgommando. 
Andrea aveva voluto per forza venire con me. Non gli andava l’idea di vivere negli Stati Uniti con Leonardo, né quella di cambiare completamente cultura in Giappone, seppur ci lavorasse la mamma, donna straordinaria e nel pieno della carriera giornalistica. Per esclusione era stato affidato a me e lui a casa, nella nostra piccola Fondi, si era dimostrato entusiasta, tanto da definire il lavoro di detective privato «uno spasso». D’un tratto però si era immobilizzato, con lo sguardo rivolto sull’asfalto reso ancor più grigio dalle nuvole dei primi giorni di Settembre. 
Eravamo fermi di fronte ad un cancello ferrato color ruggine. Fissavamo il palazzotto che c’era al di là del giardinetto tenuto in ordine quanto bastava per fare una discreta impressione. A tutto ciò faceva da contorno un tempo non certo da suscitare applausi e feste. Il cielo di Torino era grigio, fumoso e tremendamente morto
Nella mia città avevo risolto un buon numero di casi aiutando la polizia come consulente. Non è difficile farsi notare quando tuo padre è un giornalista di nera che collabora con le forze dell’ordine e contribuisce a salvar loro la faccia quando è necessario. 
«Dobbiamo suonare, piccolo» sussurrai
«Sicuro?».
Risi. La tenerezza di un bambino che aveva paura della nuova realtà.
«Eh sì. Non vorrai mica buscarti un raffreddore?» Non mi rispose per nulla. Abbassò la testa e scomparve nel suo piumotto color verde scuro. Mi abbassai sulle ginocchia, gli sollevai la testa e lo guardai negli occhi.
«Andrà tutto bene» tentai di consolarlo sorridendogli.
Mi guardò con aria sfiduciata e per un attimo mi sentii come uno sfigato.
«Tu non dovrai temere nulla. Starai con me, andrai a scuola, come sempre. Non abbiamo alternative, fratellino. Ti prometto che se farai il bravoavrai un bellissimo regalo, siamo d’accordo?».
Il suo sguardo s’illuminò. Forse lo avevo parzialmente rassicurato e quella era la cosa più importante. Ci accostammo dunque al cancello e una targa di pietra recitò:

AGENZIA INVESTIGATIVA FLAVIO MOGGELLI

C’era poi un campanello con scritta scolorita che diceva: MOGGELLI.
Non feci in tempo a suonare che alle mie spalle si era insediato qualcuno.
«Scusa, cosa stai facendo?» mi domando candidamente.
Mi girai. Devo ammettere che non me ne pentii affatto. Incontrai gli occhi neri di una ragazza pressoché della mia età, forse leggermente più piccola, ma doveva essere comunque questione di poco.
 Il viso che mi ero ritrovato di fronte era davvero gradevole e quanto di più affascinante potessi desiderare: gli occhi scuri mi interrogavano lasciandomi senza parole; le sottili sopracciglia, il nasino minuto e la bocca piccolina erano il preludio di una cascata di capelli neri scalati, lunghissimi e molto ben tenuti. Dopo essere stato circa dieci secondi a fissarla come un perfetto idiota, la lingua cominciò a voler essere indipendente dal cervello e così riuscii a bofonchiare qualcosa.
«Mi chiamo Alex e sono stato mandato qui dal Ministero. Sai, è per quel progetto che ha a che fare con il signor Moggelli».
«Ah sì, hai ragione!» esclamò entusiasta «Dovevo immaginarlo. Be’ ma chi è questo bimbo?» chiese illuminandosi mentre si rivolgeva ad Andrea.
«É il mio fratellino. Si chiama Andrea» risposi ancora disorientato.
La ragazza tentò di socializzare con mio fratello, ma il piccoletto era abbastanza diffidente e quindi si nascose dietro la mia figura, peraltro non certo imponente.
«Scusalo» dissi con un po’ di imbarazzo. «È molto timido».
«Oh, figurati. Ma che ci facciamo ancora qui? Entriamo, ti faccio vedere casa e agenzia». 
Così dicendo aprì il cancelletto con un mazzo di chiavi vecchio quanto il mondo e lo richiuse con disinvoltura.
«A proposito, che scema, non mi sono nemmeno presentata. Mi chiamo Bianca. Sono la figlia del signor Moggelli»
«Molto piacere. In qualche senso l’avevo già immaginato» sussurrai.
«Roba da detective?» domandò.
«Già» e risi in modo naturale. Lei fece lo stesso. 

Bianca aprì la porta in mogano ed entrò. La casa si apriva con un corridoio abbastanza stretto, dove c’era solo un piccolo mobiletto con su un telefono fisso.
La ragazza ci fece strada dimostrando di essere un’ottima padrona di casa. Svoltò a destra e ci portò in una cucina abbastanza accogliente decorata con soprammobili rustici. Oltre al consueto piano di lavoro, con tanto di forno e quant’altro, c’erano la lavastoviglie e un tavolo, sempre di mogano, con al centro un contenitore di frutta finta. La stanza si chiudeva con una piccola poltroncina di colore rosso fuoco sistemata sul lato nord. Usciti dalla cucina, proprio di fronte a noi, c’era un salottino abbastanza spazioso, con un divano bianco ad angolo e una televisione al plasma ultimo modello. Proprio sotto la tv attaccata a muro vi era un uno splendido camino e una vetrinetta verticale incastonata nel muro che conteneva chiavi, ninnoli e fotografie in bianco nero. Non mancavano altre poltroncine e un tavolo interamente di vetro con alcuni posacenere e foto di famiglia datate in cui appariva un’altra donna stupenda almeno quanto Bianca. 
«Vedi quei posacenere vuoti?» mi domandò Bianca. «Lascia che arrivi mio padre e diventeranno pieni. Tu fumi?» chiese scherzosamente. 
«No, per niente».
«Meno male …».
 Alle spalle del divano ad angolo, verso sinistra, era posta una scrivania di legno antico che dava le spalle ad una grande vetrata, coperta da tende color salmone. Accanto ad essa, verso l’angolo più cieco della stanza, un’antica lampada ricamata con decorazioni bronzee molto eleganti. 
Verso la parte destra del salottino sorgeva un’altra vetrata, poi c’era una libreria molto grande dove erano stati custoditi una moltitudine di libri che toccavano i più svariati argomenti e infine alcune piante che sentivano indubbiamente la presenza del tempo. C’era inoltre una scala di marmo che portava al piano superiore. Al secondo piano erano situate quattro camere da letto, due bagni e una piccola saletta esterna con panchina, tavolino e sedie. Una sorta di studio nel corridoio, praticamente. C’erano poi numerose finestre e diversi balconi. Scendemmo di nuovo al piano di sotto, con Bianca che continuava a parlare e con me che, in tutta sincerità, non le prestavo molta attenzione.
Ero molto impegnato ad ambientarmi in quella casa, ma soprattutto a considerare ancora l’opzione di andare via, fare una faccina dolce e salutare per sempre.
Alla fine del piccolo corridoio situato all’entrata c’era un’ulteriore  porta di legno, molto più vecchia delle altre presenti in casa. Quella, mi spiegò Bianca pazientemente, dava accesso all’ufficio investigativo. 
«Si può …?».
«Vuoi entrare, eh?» mi chiese ironicamente. 
«Be’, diciamo che non mi dispiacerebbe».

L’ufficio era arredato in modo abbastanza sobrio ed era alquanto spazioso.
Una scrivania di legno con delle sedie modernissime troneggiava in fondo alla stanza; un piccolo salottino era stato allestito ai piedi delle due sedie poste di fronte alla scrivania del detective. A tutto si aggiungevano una televisione attaccata al muro e rivolta verso la scrivania, una libreria con poche pratiche cartacee disposte in evidente disordine e fogli sparsi a terra, molti dei quali calpestati. A dire la verità mi sembrava tutto, davvero tutto, tranne che l’ufficio di un detective. Mi avevano detto che l’agenzia non andava come avrebbe dovuto e che attraversava un periodo di magra dovuto al carattere «instabile e rissoso» del responsabile, ma cercai comunque di far buon viso a cattivo gioco.
Verso il fondo dell’ufficio, a sinistra della scrivania, c’era un piccolo portoncino di legno. Doveva essere un’entrata secondaria della casa o qualcosa del genere.
«Allora, che ve ne pare?» ci domandò Bianca facendoci sobbalzare. Aveva parlato per almeno quindici minuti di fila, ma io non avevo praticamente ascoltato nulla.
«Tutto molto carino, complimenti» affermai educatamente.
«Sono contento che ti piaccia. Tu e tuo fratello dormirete in camere separate, ma comunque vicine. Va bene?».
«Certo, è perfetto. Ti ringrazio molto di avermi “guidato”»
«Di niente» rispose con un largo sorriso.

Il portoncino dell’ufficio si aprì improvvisamente. La chiave girò nella toppa e quando la serratura scattò mi ritrovai di fronte un uomo altissimo, che sfiorava sicuramente il metro e novanta. Era molto magro, direi longilineo. Aveva sicuramente qualche chiletto in più, che però non aggravava affatto la sua persona. La barba incolta gli incorniciava il volto e l’espressione tesa e aggressiva mi fecero immediatamente intuire chi fosse.
Alla nostra vista si sorprese, quasi non si aspettasse di trovarci lì.
«Bianca, cosa ci fai qui?» domandò con voce possente. 
«Ciao papà. Stavo mostrando la casa ad Alex».
«Alex?» pronunciò il mio nome quasi con disprezzo. «Ah» continuò poi, «sei tu ragazzo?» mi chiese.
Gli tesi la mano per stringergliela, per presentarmi con educazione, ma lui la guardò con diffidenza e sorrise in modo sarcastico inarcando un sopracciglio e accomodandosi alla sua scrivania.
«Allora se non sbaglio,» prese in mano alcune carte «tu dovresti essere il ragazzino che il Ministero ha mandato qui, dico bene?».
«Sì».
«Be’ ragazzo, non hai l’aria tanto sveglia». 
Che gentile, vero? Aveva subito instaurato un clima pesante e mi era già simpatico come un mal di denti il giorno di Natale.
Bianca aveva corrucciato la fronte e aveva risposto:
«Bel modo di accoglierlo … papà, sii gentile almeno con lui».
Flavio intanto si era tolto la giacca ed era rimasto in camicia bianca con cravatta nera. 
«Che significa?» domandò a sua figlia. «Io sono sempre gentile. Piuttosto, oggi non hai compiti da fare?».
«Be’, certo, ma …».
«E allora falli, no?».
«Antipatico!» lo apostrofò facendogli una linguaccia.
Bianca si allontanò con un’espressione serena sul viso. 
Cercai di convincermi che Flavio non fosse davvero così scorbutico, ma che fingesse per rafforzare un carattere normale che però lavorava in un ambiente particolare. Forse però stavo fantasticando troppo e mentre ero assorto nei miei pensieri la voce dura, rude e ferma dell’uomo mi richiamò all’attenzione.
«Come hai detto di chiamarti?»
«Alex» risposi.
«Alex, siediti di fronte a me e attendi un momento».
Feci come aveva detto. Flavio teneva la testa abbassata sulle pratiche, le esaminava, le spulciava minuziosamente e talvolta le correggeva a penna rossa. Poi alcune le strappava e le buttava nel cestino situato sotto la scrivania ed altre invece le riponeva in un cassetto. Il silenzio totale durò circa dieci minuti. 
Poi, ad un tratto, il signor Moggelli cominciò a parlare sollevando lentamente la testa dalle pratiche e guardandomi fisso.
«Allora, Alex, spiegami» esordì. «Perché vuoi fare il detective?».
«Be’ vede signore, io …».
Mi interruppe.
«Non cominciare ad incantarmi con questi formalismi. Dammi del “tu” e chiamami Flavio»
«D’accordo» asserii. «Come dicevo, fare il detective è sempre stato il mio grande sogno».
Fece un mezzo sorriso, naturalmente sarcastico, prese fiato e rispose con una calma invidiabile.
«Quindi, tu ti sei trasferito da … da dove ti sei trasferito?» si sporse in avanti.
«Fondi».
«Dove si trova?».
«Provincia di Latina».
«Dicevo … ti sei trasferito da Fondi, piccola città ridente, a Torino grande metropoli, per coronare il tuo sogno? Buona fortuna, ragazzo».
«Cosa vuol dire?».
«Vedi, le pratiche che ho letto fin ora … riguardavano solo te. Qui c’è il certificato di provenienza del PSD, quella sottospecie di corso che hai frequentato nel quale l’unica cosa che fanno è rendervi ridicoli, alcune parole scritte dal commissario Gabriele Colarte e qualche articolo di giornale che parla di te, del tuo talento per i misteri e cose così». Si chinò in avanti posando i gomiti sulla scrivania e mi sorrise furbescamente. «Ho fatto qualche telefonata in giro e mi hanno detto che al PSD hai fatto scintille» il suo sorriso si accentuò e divenne inquietante. «Cosa spinge un ragazzino come te a … a volersi immischiare in un mondo complicato e sporco come quello degli investigatori?».
«Diciamo che ho sempre amato collaborare con la giustizia, con quella vera».
«Cosa vuoi dire?» sussurrò mantenendo il ghigno.
«Che mi piacerebbe garantire la vera giustizia».
«E cosa ti fa pensare che non tutta la giustizia sia autentica?».
«Be’ tante cose … »
Incrociò le braccia dietro la nuca. «Sei vago, ragazzo … perché non approfondisci e mi fai capire davvero cosa pensi?».
«Semplicemente penso che non sempre la legge sia uguale per tutti» risposi con naturalezza.
Il suo volto s’incupì. Agli uffici del PSD mi avevano detto che Flavio era stato per quindici anni nelle forze dell’ordine, che era un uomo integerrimo e duro come l’acciaio, un sergente inespugnabile che faceva rigare dritto i suoi sottoposti con un solo sguardo. Si alzò lentamente dalla sedia e andò verso la sua destra, a consultare la libreria. Poi prese un fascicolo di colore giallo ocra e lo lanciò sul tavolo in segno di sfida. Si risedette al suo posto e cominciò a parlare prendendo tanto fiato.
«Davvero pensi questo, ragazzo?»
«Perché non dovrei?» raccolsi il guanto di sfida. 
Aprì il fascicolo. All’interno c’erano un sacco di cartelline trasparenti, documenti, molti articoli di giornale, ritagli fotografici, attestati al merito poliziesco e quant’altro.
Prese una cartellina ed estrasse un foglio di giornale sbiadito.

«Padova» disse cominciando a leggere. «Brillante operazione poliziesca nella città veneta. La collaborazione delle forze dell’ordine regionali con quelle della città di Torino è stata  provvidenziale per catturare Giancarlo Fannorini, noto ricettatore. Per Fannorini sono stati necessari tre anni di appostamenti. I leader dell’operazione sono stati l’ispettore Giovanni Andrelli del distretto padovano e l’agente Flavio Moggelli del commissario plenario di Torino, coordinato dall’ispettore piemontese Vincenzo Ducato».

Stetti zitto.
Prese un altro articolo e ricominciò a leggere.

«Torino. La polizia ha finalmente arrestato Bernardo Mastroni, noto spacciatore e assassino che aveva seminato panico in tutto il nord del Belpaese. Mastroni è stato brillantemente fermato al termine di un inseguimento quasi cinematografico dall’ispettore Flavio Moggelli, che ha sottolineato come questa sia stata la vittoria definitiva della giustizia».

Mi guardò con aria di sfida e sospirò soddisfatto. 
«Allora, ragazzino. Cosa ti fa pensare che esista una giustizia fasulla?».
«Il fatto che ci sono decine di reati rimasti impuniti».
«Davvero? E tu sai il perché?».
«Perché la polizia si rifiuta di indagare oltre».
Diede un violentissimo pugno sulla scrivania. Dopo aver resistito a quel colpo, sarebbe durata ancora una buona decina d’anni. Si alzò di scatto e ispezionò la stanza con il suo passo aggressivo e felpato.
«Che insolenza!» esclamò all’improvviso. «Un ragazzino viene nello studio di un uomo di giustizia a dire che … che la giustizia è corrotta! Non hai un briciolo di vergogna!».
«Cosa c’è? Ho solo espresso un’opinione».
«Abbastanza stupida, direi».
«Stronzate».
La stanza si gelò. Ci eravamo conosciuti da nemmeno mezz’ora eppure avevamo già instaurato un clima pesante. Mi guardò con occhi di fuoco, spiritati. Le sue braccia possenti appoggiate alla scrivania tremavano per l’agitazione. Si era sbottonato la camicia, perciò notai ancor di più il suo respiro affannoso, un misto di adrenalina all’ennesima potenza mescolata con tanta rabbia repressa.
Poi si voltò e vide mio fratello. Già, Andrea era rimasto seduto su una piccola sedia sistemata ad est della stanza. Non mi ero nemmeno accorto ci fosse, in quanto non aveva ancora mai aperto bocca. 
«Chi è quel piccoletto?» domandò a voce alta.
«Mio fratello Andrea» risposi. 
«Resterà con noi?».
«Se ci sono io deve starci anche lui».
Si avvicinò con aria da sbruffone a mio fratello, gli si mise davanti e abbassandosi sulle ginocchia gli chiese:
«Allora giovanotto, quanti anni hai?».
«Cinque» rispose timidamente Andrea.
«Bene. Quindi vai ancora all’asilo?».
«Sì».
«Mi sembri un po’ agitato. Vuoi qualcosa da bere, vuoi mangiare qualcosa?».
Scoprii che Flavio con i bambini sapeva essere quantomeno premuroso. Dovevo aspettarmelo, dopotutto aveva anche lui una figlia, seppur già adolescente. 
«No, grazie signore» rispose educatamente mio fratello.
«I tuoi genitori ti hanno educato bene. Sicuro però di non volere niente? Ho della cioccolata in casa, un po’ di torta al limone, dell’aranciata e …».
«No grazie, sto bene così» lo frenò Andrea. 
Flavio si sollevò da terra e disse:
«Ok. Allora mangerai a cena come tutti». Poi ritornò alla scrivania con fare militaresco. «Bene, ragazzo.» disse guardando l’orologio a pendolo alla sua destra. «Sono le sette e trenta. Tra poco si cena. Tu intanto sistema la tua roba e quella di tuo fratello nelle camere da letto. Fatti aiutare da Bianca, per il bambino».
«Grazie mille». Mi alzai e gli augurai buon lavoro. Presi per mano Andrea ed uscii dall’ufficio, poi mi diressi nel corridoio ripensando alla conversazione di poco prima. Entrai in salotto e Bianca mi vide, così decise di accompagnarmi alle camere da letto. Per le scale parlò del più e del meno, dei suoi impegni scolastici, del mestiere di suo padre così affascinante e del fatto che da lui potevo imparare molto.
Al piano superiore mi mostrò la mia stanza. Era una camera normale, con un piccolo balconcino e terrazzo per affacciarmi. Il letto era disposto in modo verticale verso la parte sinistra della stanza. In fondo a sinistra c’era una piccola scrivania e a destra un armadio che avrebbe potuto contenere un loft.
Nella camera di Andrea vi era un lettino messo in modo orizzontale, una piccola finestrella, un armadio di fronte al letto e, anche per lui, una piccola scrivania di legno piena zeppa di foglietti e colori a pastello. 
«Allora, che ne dite?» domandò Bianca portandosi le mani ai fianchi.
«Ci troveremo benissimo».
«Sono felice. Hai già fatto amicizia con papà?» mi sorrise. 
«Amicizia è una parola grossa, diciamo che abbiamo avuto modo di parlare».
«Scommetto che avete discusso, non è vero?» si rabbuiò in viso.
«Be’…»
«Lo sapevo!» esclamò piuttosto irritata. «É sempre il solito burbero. Ma gliene dirò quattro!».
«No, no … abbiamo solo parlato un po’!».
«Quindi non avete litigato?»
«No, battibeccato, ma sempre con il dovuto rispetto».
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Giallo / Vai alla pagina dell'autore: MatteoIacobucci