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Autore: Cygnus_X1    31/03/2014    8 recensioni
"Delle volte si chiedeva davvero perché si ostinasse a vivere. In fondo non era nient’altro che una schiava, sbattuta qua e là tra i lavori più umilianti e duri, carne da macello che se non esisteva era meglio per tutti. Non serviva a niente e a nessuno, neanche come materiale per gli ingegneri genetici. [...] A questo punto, tanto valeva morire. Almeno non avrebbe sofferto più.
E invece continuava a vivere, con rabbia, sbattendo ogni giorno in faccia agli “individui geneticamente adeguati” con la violenza di un pugno che anche lei, anche un Errore così eclatante era degna di vivere. Lei era una persona. Anche se il suo DNA era sbagliato. Anche se non era “fisicamente perfetta”, come il Governo avrebbe voluto.
Anche se il suo occhio sinistro era grigio come la nebbia di novembre, e quello destro azzurro ghiaccio.
Lei era Freya, ed era viva, ed era più di un Errore con un occhio grigio e uno blu. Lei aveva dei pensieri e delle emozioni. Lei non era inferiore ai Perfetti. Almeno, non perché un ingegnere genetico stupido le aveva progettato male il DNA.
Era davvero un peccato che lei fosse l’unica a pensarla in questo modo."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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There’s something wrong with me, chemically
Something wrong with me inherently
The wrong mix in the wrong genes
Depeche Mode – Wrong
 

 
Era un’altra giornata di pioggia. Pioggia battente che tamburellava ritmica e ripetitiva sui tetti e sulle strade. Pioggia tetra che velava di un monotono color grigio tutto il mondo intorno. Pioggia fredda, gelida, ghiacciata; pioggia che non dava tregua.
Non si riuscivano a vedere le stelle, con quella pioggia.
Non sapeva perché l’attirassero in quel modo. Non sapeva perché la loro evanescente luce gelida la confortasse così tanto. Forse era perché si sentiva altrettanto fragile, minuscola e gelida, mentre cercava di continuare a far splendere la sua fiammetta debole e insignificante lottando contro le tenebre troppo vaste che la opprimevano.
Delle volte si chiedeva davvero perché si ostinasse a vivere. In fondo non era nient’altro che una schiava, sbattuta di qua e di là tra i lavori più umilianti e duri, carne da macello che se non esisteva era meglio per tutti. Non serviva a niente e a nessuno, neanche come materiale per gli ingegneri genetici: nessuno se ne faceva niente nemmeno delle sue molecole. A questo punto, tanto valeva morire. Almeno non avrebbe sofferto più.
E invece continuava a vivere, con rabbia, sbattendo ogni giorno in faccia agli “individui geneticamente adeguati” con la violenza di un pugno che anche lei, anche un Errore così eclatante era degna di vivere. Lei era una persona. Anche se il suo DNA era sbagliato. Anche se non era “fisicamente perfetta”, come il Governo avrebbe voluto.
Anche se il suo occhio sinistro era grigio come la nebbia di novembre, e quello destro azzurro ghiaccio.
Lei era Freya, ed era viva, ed era più di un Errore con un occhio grigio e uno blu. Lei aveva dei pensieri e delle emozioni. Lei non era inferiore ai Perfetti. Almeno, non perché un ingegnere genetico stupido le aveva progettato male il DNA.
Era davvero un peccato che lei fosse l’unica a pensarla in questo modo.


 
Uscire di notte era proibito.
C’erano telecamere a infrarossi ovunque, e ronde di droidi sorveglianti per tutta la città. Le punizioni per i trasgressori erano severe, e non veniva visto di buon occhio chiunque violasse le leggi, soprattutto dopo la rivolta di trent’anni prima. Ma Freya non era più una bambina, aveva diciassette anni ormai, e sapeva come muoversi senza essere presa.
Anche guardare le stelle era proibito.
Freya non sapeva bene il perché. Di nuovo, il motivo doveva essere la rivolta, il cui simbolo era stato una stella a cinque punte bianca inscritta in un cerchio su campo blu scuro. La ragazza ricordava una scritta su un muro che aveva intravisto di sfuggita una mattina, il motto della rivolta, che recitava “Quando anche le stelle gridano”. Ricordava che le Ombre avevano catturato il responsabile, il ragazzo che aveva scritto quella frase, e l’avevano giustiziato, e la scritta era stata eliminata subito; ma ricordava anche che era stata proprio quella frase a spingerla a sollevare gli occhi per la prima volta al cielo, più in alto del suo misero orizzonte di Errore.
Come quella rivolta aveva dimostrato, le stelle erano pericolose. Esortavano a pensare, e a sognare, cose davvero rischiose in una società dove era lo stesso Governo a stabilire il tuo lavoro, il tuo futuro, la tua vita. La tanto decantata libertà di scelta, i sogni, non c’era spazio per quelle cose. Era stato così durante il Vecchio Ordine, ma ormai quel periodo era finito. Era il 2113, ormai.
Da cinquant’anni esatti il Vecchio Ordine era terminato, e per sempre.
Sarebbe stato davvero bello se non fosse stato così. In un mondo come quello del Vecchio Ordine non sarebbero esistiti i Perfetti e gli Errori, in un mondo come quello lei non sarebbe stata disprezzata per i suoi occhi diversi.
A volte Freya si chiedeva se fosse la sola persona a pensare ancora al Vecchio Ordine.
Poi si ricordava semplicemente che le altre persone non pensavano e basta.


 
Non sapeva se anche questo derivasse dal suo essere un Errore. Questa sua voglia di ribellione, di rompere le regole di quel mondo che le faceva schifo. Sapeva di pensare e riflettere sulle cose molto oltre il limite di quanto fosse consentito dal Governo. Era diventata molto abile a nascondere le emozioni, a mantenere un’espressione vuota e fredda come se non pensasse davvero a niente. Congelava i sentimenti dentro di sé, bloccava tutto quello che provava all’istante per non lasciar trasparire niente, trasformava lentamente se stessa in un blocco di ghiaccio.
Se voleva sopravvivere, doveva farlo. Le Ombre sapevano essere micidiali.
Certo, lei era un Errore, a nessuno importava mai di un Errore.
Il Governo probabilmente non sapeva neanche che esisteva.
Non aveva un futuro, una vita. Non li aveva mai avuti e mai li avrebbe avuti. E la sua unica colpa era stata nascere.
Uscire dalla macchina incubatrice con quei suoi occhi diversi.
Lei non era come altri Errori, lei l’imperfezione, il difetto, ce l’aveva fin troppo visibile. Vedeva ogni singola, fulminea occhiata di disprezzo che i Perfetti le scoccavano quando la guardavano; leggeva emozioni che duravano un battito di ciglia e lampi di un istante sui volti della gente. Sapeva cosa passava per i loro piccoli cervelli deformati dal Governo, lo percepiva nelle frecce gelide che le scagliavano discretamente addosso, lo avvertiva come un’ombra tra i frammenti di sguardi infastiditi che coglieva qua e là con i suoi occhi di Errore.
Ma in fondo loro non potevano farci niente.
Erano stati indottrinati così.
Non era colpa loro se erano nati Perfetti e lei no.
Che senso aveva odiarli?


 
Ovviamente, come tutti, aveva sentito parlare del Vecchio Ordine solo attraverso il filtro del Governo. Aveva letto solo quello che ordinava il Governo.
Eppure non riusciva a vedere quel periodo in maniera completamente negativa, come avrebbe voluto il Governo.
Il Vecchio Ordine era per lei una specie di sogno infranto, un’immagine dorata e indistinta che s’intravedeva riflessa nei frammenti di uno specchio rotto.
Si poteva provare nostalgia per qualcosa che non si è mai vissuto?
Freya credeva di sì.
Era proprio questo che provava: un misto di malinconica nostalgia e rabbia disperata.
Rimpiangeva la libertà di poter scegliere e costruire la propria vita, rimpiangeva quello che il Governo definiva “disordine e imprevedibilità che condussero a discriminazioni e guerre inutili”, rimpiangeva un futuro che i suoi occhi di Errore le negavano e che, se fosse venuta al mondo solo cinquant’anni prima, prima dell’avvento del Governo e della programmazione del DNA, sarebbe stato suo.
Rimpiangeva qualcosa che non aveva mai avuto.
Ma, anche se non poteva, non voleva e non doveva ammettere nemmeno a se stessa, contemporaneamente sognava, con una speranza di bambina, di poter, magari un giorno, vivere per davvero.


 
Freya aprì gli occhi, mentre un brivido le scorreva lungo la schiena. La sottile pioggia autunnale continuava a scendere piano.
Era rimasta lì, avvolta in un cappotto ormai fradicio, mentre i suoi pensieri vagavano in alto. Rabbrividì ancora, mentre il gelo della notte le entrava dentro. Non era stata una buona idea restare tutto quel tempo fuori, ma aveva bisogno di pensare.
Ora però doveva tornare a casa.
Per quanto i tetti abbandonati dei bassifondi della città fossero relativamente sicuri, e le ronde notturne fossero meno pressanti con la pioggia, non era mai prudente rimanere fuori casa così tanto.
Freya si alzò, intirizzita, e mosse le mani fredde per recuperare un po’ di sensibilità. Uscì lentamente dall’ombra del camino, camminando leggera sulle tegole spezzate. Si mosse piano, nera come il cielo nero della notte, scivolando agile fino all’orlo del tetto.
La vecchia scala metallica era in parte crollata, e mancava quasi del tutto il corrimano. Freya però era leggera e agile, e si muoveva con sicurezza; sapeva tutti i segreti di quella scala, erano anni, ormai, che ne faceva uso.
Atterrò con un saltello sull’asfalto bagnato. Si accucciò nell’angolo del vicolo ombroso, ascoltando i suoni della città silenziosa.
C’era il suo respiro, lieve, soffice, appena accennato.
C’era la pioggia, con il suo suono liquido, sottile, che permeava tutta l’aria intorno.
C’era il tuono cupo, affievolito e reso morbido dalla distanza, della musica di una festa di Perfetti, altrove, nei quartieri alti della città.
Nient’altro.
Non si sentivano i cigolii sgraziati e cadenzati delle giunture dei droidi guardiani bagnate dalla pioggia.
Freya uscì dal vicolo. Corse, rapida, infilandosi in una stradina stretta e oscura, muovendosi dentro il buio, da un’ombra all’altra. Seguì un percorso tortuoso, contorto, che conosceva solo lei e che le avrebbe permesso di evitare telecamere a infrarossi ed eventuali ronde; e lentamente si lasciava alle spalle la città fantasma, morta, e tornava nella città dei vivi, luccicante e pericolosa.
Infine si fermò, all’angolo dell’ennesima stradina buia, proprio sul confine tra la zona abbandonata e il quartiere dei reietti: Errori come lei, “individui geneticamente scorretti” e criminali vari; tutti quelli che non stavano simpatici al Governo finivano lì. Casa sua era a un quarto d’ora di cammino. Girò l’angolo. Ora doveva raddoppiare l’attenzione.
Vide un’ombra, alta, grande, di fronte a lei, di colpo.
Una persona. Un uomo.
La prima cosa che pensò fu che non aveva rispettato la distanza regolamentare. Lo spazio che li separava era molto meno di un metro.
Lo stupore durò solo una frazione insignificante di attimo. Poi venne il terrore.
L’avevano presa.
Sollevò lo sguardo, cercando il volto della sua condanna.
Si corresse: un ragazzo, non un uomo. Sui vent’anni. Molto alto, dal fisico asciutto. Pelle perfettamente ambrata, lineamenti sottili. Capelli dorati, appiccicati al viso dalla pioggia. Occhi dalla forma allungata, scurissimi.
Era la perfezione.
Se Freya non fosse stata già al limite del terrore, l’aspetto di quel ragazzo l’avrebbe mandata ancora più nel panico.
Un Perfetto.
Era già morta.
Era a venti centimetri dal Perfetto più perfetto che avesse mai visto. All’una di notte. Fuori dal limite consentito agli Errori. Non aveva speranza. I ciuffi neri di capelli che le ricadevano di solito davanti al volto le si erano incollati alla pelle, e Freya sapeva che i suoi occhi di Errore erano lì, in bella mostra.
Un frammento sperduto, l’unica parte della sua mente rimasta lucida, le gridava di fare qualcosa, allontanarsi, voltarsi e correre; qualsiasi luogo era meglio di lì. Il Perfetto sembrava sbalordito quanto lei. Ma la paura sbigottita la bloccava. Era congelata di fronte alla sua morte.
«Ti prego, aiutami»
Freya sussultò, sentì il suo cuore accelerare.
Le aveva parlato.
Un Perfetto le aveva parlato.
Si chiese se fosse saggio rispondere. Ma se lui l’avesse voluta denunciare, che avesse parlato o no, era morta comunque.
«Il contatto verbale è proibito», sussurrò piano. Non aveva trovato niente di meglio da dire. Ma il ragazzo si avvicinò ancora di più. Ora sarebbe bastato un niente, e si sarebbero toccati.
Poi il Perfetto le prese le spalle, piano.
Freya non poté trattenere un’esclamazione soffocata di sorpresa, mentre una scossa correva su e giù dentro di lei dai punti in cui le mani di quel ragazzo fuori dal comune la toccavano.
«Ti prego. Ho bisogno di aiuto»
La ragazza si sentiva strana. Tutto quanto le sembrava irreale, e lei si sentiva immersa in una nebbia opaca. Non era capace di riflettere lucidamente, la sua testa era invasa da un misto di paura e stupore che le contorceva i pensieri. Saettò gli occhi un’ultima volta in quelli del ragazzo, per un solo istante. E si stupì di non cogliere disprezzo, odio o commiserazione. Quello che vedeva era solo una profonda, buia disperazione.
Controllò che non ci fosse nessuno dall’altra parte della strada e gli fece cenno di seguirla.


 
Casa.
L’odore amaro e aleggiante del caffè freddo. Il rombo cupo e costante della strada principale, appena due isolati più in là. Sul pavimento, accanto alla finestra, un alone delle violente luci al neon della strada, fuori, oltre le tende consumate e il vetro.
Freya cercò l’interruttore sulla parete con la mano. La luce gialla, fumosa, di una lampada scese soffusa ovunque, mostrando i dettagli della piccola stanza.
Un tavolo in un angolo con una macchia di caffè scuro. Una vecchia poltrona sgangherata, sbiadita. Soffitto basso, piastrelle scheggiate, una porta più in là, sulla destra.
La ragazza si tolse il cappotto fradicio e lo appese a gocciolare su un attaccapanni sbilenco, vicino alla porta d’ingresso. Sbirciava quello strano Perfetto mentre si guardava intorno, visibilmente spaesato. Freya gli si avvicinò, ben attenta a rimanere oltre il metro di distanza, per prendergli il giaccone. Era un bel cappotto, di una stoffa morbida e calda. La ragazza lo appese a un termosifone per farlo asciugare più in fretta.
Teneva gli occhi bassi, cercando di evitare che lui vedesse di nuovo il suo difetto e la disprezzasse più di quanto sicuramente già faceva, ma ogni tanto sollevava rapidissimamente lo sguardo, e lo squadrava. Era davvero alto, o almeno così sembrava a lei che era così minuta. Si era scompigliato i capelli bagnati con le mani, e ora gli stavano dritti e sparati in tutte le direzioni, e alla luce calda della stanza sembravano ancora più dorati. Indossava una divisa di un blu elegante, che gli stava a pennello e cadeva perfettamente sulle spalle ampie. Non come i vestiti che il Governo assegnava a lei, vecchie tute sformate di una taglia troppo grande, che la infagottavano facendola apparire ancora più piccola. No, tutto in lui era perfezione. Sembrava la personificazione di quelle immagini del Governo sulla progettazione del DNA e sui Perfetti.
In quel momento lui alzò lo sguardo, intercettando il suo. Freya sussultò e si girò subito dall’altra parte, imbarazzata. Lui però le si avvicinò, e la ragazza sentì il suo cuore accelerare. Quel ragazzo così angelico la terrorizzava.
«Grazie di avermi aiutato» le disse sorridendo appena. Le tese la mano. «Sono Mizar»
Niente da fare, non riusciva a evitare di trasalire quando le parlava. La ragazza esitò. Si costrinse a stringere la sua mano perfetta, ma gli occhi non vollero saperne di sollevarsi e restarono piantati sulla crepa spigolosa di una piastrella. «Freya» sussurrò. La voce le tremò involontariamente.
«Bel nome»
Seguirono minuti di immobile, imbarazzante silenzio. La ragazza si chiese cosa dovesse fare. Doveva dire qualcosa? Doveva fare qualcosa? Non le era capitato tanto spesso di avere a che fare con dei Perfetti. E, soprattutto, mai e poi mai direttamente.
Era proibito.
«Posso chiederti una cosa?» La voce le uscì appena accennata. Era certa che la paura spirasse da ogni parola come un fantasma pallido e urlante. Perché doveva avere così paura?
«Posso chiederti da cosa stavi scappando?»
«Non ti darò problemi con le Ombre, non preoccuparti. Me ne andrò domani»
La ragazza si limitò ad annuire, senza sollevare lo sguardo. Non gli chiese perché, non gli chiese dove sarebbe andato.
Lei era solo un Errore.
Gli fece cenno di seguirla oltre la porta, fin nella stanza che era la sua camera. Un luogo piccolo, dalle pareti azzurrine, il linoleum sbiadito, con un letto ammaccato in un angolo. Glielo indicò.
«Puoi dormire lì»
«E tu?»
«Andrò di là, sulla poltrona»
Ma lui scosse la testa.
«Quella là, così rovinata? Non dirlo neanche. Questa è casa tua. Dormirò io sul pavimento»
Discussero per qualche minuto, infine Freya cedette. Prese da un vecchio armadio delle coperte che sapevano di polvere e sapone. Poi Mizar si ritirò di là, e Freya chiuse la porta.
La ragazza non resistette più di cinque minuti.
Tornò nell’altra stanza in fretta, prima di pentirsi. «Se vuoi allontanarti dalla città alta senza farti prendere evita le strade principali. Ci sono sensori, telecamere e ronde. Quando sarai uscito dalla città ti consiglio di passare sui tetti, sono più sicuri. E sarebbe meglio se partissi di notte, con la pioggia»
Mizar si bloccò. Smise di trafficare con le coperte per un attimo, alzò gli occhi verso di lei, incontrando i suoi. Per un istante si guardarono, poi Freya abbassò lo sguardo di nuovo sulle sue mani che si tormentavano.
«Grazie»
Lei arrossì. Sperò con tutta sé stessa che i capelli le nascondessero a sufficienza il viso.
«Mi dispiacerebbe che le Ombre ti prendessero. Sei... gentile. Non ho mai incontrato un Perfetto gentile, prima»
Si girò e rientrò in camera, chiudendo la porta dietro di sé. Era turbata, ma non sapeva perché. Si infilò tra le coperte fredde, sollevata.
Restò per molto tempo al buio, con gli occhi chiusi, ad ascoltare il suono della pioggia, senza pensare a niente.


 
Sembrava che la pioggia non volesse mai smettere.
Quando Freya si alzò, la mattina dopo, aveva dormito appena quattro ore e sentiva la testa pesante e i pensieri lenti. I suoi occhi corsero fuori dalla finestra. Era il quarto giorno di seguito che pioveva, continuava a piovere senza smettere mai.
La ragazza, ancora stordita dal sonno, si rigirò tra le coperte del letto, cercando di trovare la forza di uscire e affrontare il freddo.
Odiava il lavoro che il Governo le aveva assegnato. Ma era solo un Errore: quelli come lei non potevano sperare in un lavoro decente. Per il Governo quelli come lei avrebbero fatto meglio a non esistere.
Erano Errori. Erano sbagliati.
Freya si mosse piano per la casa. Cercò di non fare rumore per non svegliare Mizar. Non sapeva a che ora si alzassero solitamente i Perfetti, ma dubitava che fosse così presto. Infatti, quando passò in sala, trovò il ragazzo ancora addormentato.
Indugiò un istante a guardarlo, avvolto nelle coperte con i capelli dorati sparati in tutte le direzioni. Un Perfetto diverso, gentile. Aveva agito d’istinto quando aveva deciso di aiutarlo, là fuori nella strada, proprio perché le sembrava diverso. Chissà se avrebbe seguito il suo consiglio. Chissà da cosa stava scappando.
Scosse le spalle. Non erano certo affari suoi, in fondo.
Quando uscì, il freddo intenso la investì. Tirò su il cappuccio, celando in parte il suo volto, e si mosse per le strade grigie della città grigia, immersa in un morbido silenzio grigio. La pioggia scendeva sottile, entrava nei vestiti, intirizziva le mani, gelava i volti. Freya sollevò per un istante gli occhi al cielo, per poi riabbassarli sulla strada che stava percorrendo. Si diede della stupida.
Le era venuto in mente il pensiero estremamente sciocco che il cielo, quel giorno, era dello stesso colore del suo occhio sinistro.


 
Era stato parecchio tempo prima. Undici anni esatti.
Era un’altra giornata piovosa di novembre. Umida, fredda. Il debole vento attraversava i vestiti e le faceva venire i brividi. Il codice appena tatuato sul polso bruciava ancora un po’.
I droidi li avevano portati tutti fuori dal Primo Centro, i duecento bambini nati nel 2096, dove si erano disposti in fila per numero di nascita, rigorosamente a un metro di distanza l’uno dall’altro. Lei era la numero 169. Gli altri bambini disobbedivano alla regola di guardare avanti per saettarle occhiate fugaci. Lei sapeva di essere strana, ma non ci aveva mai fatto troppo caso. Ora, in mezzo a quella fila di bambini biondi e castani, con i suoi capelli nerissimi e la pelle troppo chiara, si sentiva a disagio. Perché tutti continuavano a guardarla negli occhi? Cos’aveva lei di strano?
Uno dei droidi cominciò a chiamare nome e numero di matricola dei bambini. Uno dopo l’altro, partendo dal primo, i bambini si avviarono verso un altro dei droidi, che assegnava loro un posto nel vagone che li avrebbe portati nella nuova casa.
«Joel, 166/2096»
Il droide aveva una voce metallica, strana. Era brutta. Strideva.
«Karina, 167/2096»
Chissà se il Centro di Educazione era tanto più grande del Primo Centro. Dalle immagini sembrava un posto strano ed enorme.
«William, 168/2096»
Ecco, ora toccava a lei. Avrebbe sentito quella voce aspra dire “Freya, 169/2096”, già si immaginava come sarebbe stato sfrecciare tra i grattacieli su quel treno strambo...
«Marcus, 170/2096»
Cosa? Perché l’avevano saltata? Perché non avevano chiamato anche lei? Doveva esserci uno sbaglio. Un errore. Cosa doveva fare? Doveva dirglielo? Ma non si poteva avere un “contatto verbale”, era proibito. No, se lo diceva magari si arrabbiavano e la punivano. Lei non voleva essere punita, le punizioni facevano male. No, non l’avrebbe detto. Sarebbe stata ferma, e loro si sarebbero accorti dell’errore e l’avrebbero chiamata.
«Brian, 200/2096»
L’ultimo bambino entrò nel vagone. Era rimasta da sola. Il droide ripose il computer da cui leggeva, un altro chiuse la porta. Il treno partì subito.
Freya non capiva. Cosa stava succedendo? Non osava alzare gli occhi da terra per sbirciare i droidi. Sentiva i loro movimenti, il suono del metallo. Uno di loro si avvicinò a lei.
« Freya, 169/2096»
Prima che lei potesse stupirsi, le ordinò di seguirla. La bambina si affrettò ad ubbidire.
Le strade erano strette. Il droide camminava troppo veloce per le sue gambe corte. Mentre correva per stargli dietro, il suo cervello era affollato dalle domande. Dove stava andando? Perché non era andata con gli altri? C’entrava il fatto che gli altri continuavano a guardarla in quel modo strano?
Si immisero in una strada più grande e trafficata. Lei la riconobbe subito: era la strada principale. Le macchine sfrecciavano e le persone affollavano i marciapiedi, ma tenendosi sempre a un metro da chi era vicino.
Non capiva. Il Centro di Educazione era dall’altra parte. Perché andavano nella direzione opposta?
Distratta dai pensieri, tentò di affrettare il passo ma inciampò sui propri piedi. Perse l’equilibrio. Allungò le mani in avanti.
Non era colpa sua se un Perfetto passava proprio in quel momento.
Non era colpa sua ma non importava.
Non avrebbe mai più dimenticato l’occhiata di puro disprezzo glaciale che quel Perfetto le aveva rivolto. Non avrebbe mai più dimenticato l’odio con cui le aveva gridato “immondo Errore”. Non avrebbe mai più dimenticato il gelido dolore della sua prima punizione da Errore.
In quel momento aveva capito tutto. Anche se era solo una bambina. Anche se aveva solo sei anni.
I droidi erano venuti a prelevare i duecento bambini nati nell’anno 2096. I centonovantanove bambini Perfetti erano stati portati al Centro di Educazione. Lei, lei sola, era stata presa e accompagnata nel distretto dei reietti, nella periferia.
Lei era stata l’unico Errore di quell’anno.
Lei non avrebbe mai potuto vivere.
Il sacco di rifornimenti che stava faticosamente trasportando in spalla le scivolò di colpo dalle mani, cadendo a terra. Si sentì un rumore di vetri rotti.
Il droide di sorveglianza si avventò sul luogo del crimine più fulmineo di un avvoltoio, sbattendo i piedi metallici sull’asfalto. Freya non aveva la forza di tentare qualcosa. Non aveva la forza di pensare qualcosa. Così restò ferma, silenziosa e tremante, ad assistere all’esame del robot.
Il sorvegliante di ferro squartò il sacco, riversandone il contenuto sulla strada, sotto la pioggia. In pochi secondi aveva esaminato i danni, elaborato tutti i dati e fatto una stima molto accurata del costo di quel sacco sprecato che ora era da smaltire.
«Danni totali pari a centoquindici dollari» sentenziò il droide con la sua voce piatta, ferrosa. A Freya mancava l’aria. Centoquindici dollari erano un’assurdità. Il sistema li avrebbe scalati dal suo già misero stipendio.
Il guardiano la afferrò per il braccio sinistro, con violenza. Espose al laser rosso dello scanner l’interno del polso, dove era tatuato un codice. Il suo codice. Il codice che le avevano tatuato quel giorno lontano di undici anni prima.
«Matricola numero 169/2096, Freya» sillabò. La ragazza aspettò che il sorvegliante metallico finisse di elaborare e inviare i dati ai computer della rete centrale, e si preparò, già stringendo i denti. Sapeva cosa sarebbe venuto ora.
Il droide emise due beep prolungati. Una spia rossa si accese nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi il cuore, se quello fosse stato un essere umano. Poi, senza preavviso, partì la scarica.
Il dolore le esplose dentro, bruciandola. I suoi nervi, il suo cervello, i suoi occhi; il suo intero corpo prese fuoco.
Fuoco freddo, buio, ghiaccio, lame. Cuore di vetro che scoppia, frammenti che si conficcano da tutte le parti.
Gridare.
Bruciare.
Morire.
Vampe, uragani, il suo corpo che si strappava e si consumava. Cenere.
Poi, di colpo, era tutto finito. Il dolore. La punizione.
Il buio.
Il robot se n’era andato. Gli altri che lavoravano nella sua squadra erano spariti. Anche il sacco da smaltire nei rifiuti non c’era più.
Era rimasta solo lei. E l’asfalto ruvido su cui era rannicchiata. E i suoi brividi. E il freddo.
E le gocce di pioggia che continuavano a cadere, come pugnali di cristallo sulla sua pelle.


 
Sbatté la porta di casa dietro di sé e si fiondò a letto. Non sapeva se Mizar avesse seguito il suo suggerimento di aspettare il buio. Non le interessava. Non voleva che la vedesse. Non voleva che le chiedesse cosa fosse successo.
Tremava ancora.
Ma in fondo a nessuno importava.
Lei era un Errore e basta.
Tirò su appena la manica. La pelle ancora sensibile dopo la scarica le mandò un grido di dolore mentre la stoffa ruvida strofinava sul braccio. All’interno del polso, poco sopra la mano, il codice stampato sulla pelle spiccava nero sul suo braccio pallido. Quel codice la identificava come Errore, e non si poteva togliere. Sulla pelle, appena sopra il codice, una lieve bruciatura.
Chiuse gli occhi, e le lacrime presero a scendere, lacrime per nessun motivo. Era tanto, troppo tempo che non piangeva.
Passi leggeri di là, oltre la porta.
«Freya?»
Mizar.
Maledizione.
La porta cominciò ad aprirsi, piano, quasi timidamente. Il ragazzo si affacciò.
«Freya?»
Non voleva parlare. Non voleva che lui vedesse quello che le avevano fatto, non voleva che le chiedesse, perché era fragile in quel momento, e lui avrebbe provato pietà per lei, e lei non voleva pietà. Ne aveva sopportata fin troppa.
Lui entrò.
«Cosa ti è successo?»
La ragazza scosse la testa. Mizar cercò a tentoni l’interruttore sul muro. Il lampo di luce la stordì, mentre il ragazzo si avvicinava e le prendeva il volto, voltandolo alla luce. Freya non disse niente. Sapeva che la punizione lasciava dei segni. Ma non si scostò, permise che Mizar trattenesse il respiro dallo stupore davanti ai suoi occhi cerchiati e al viso pallidissimo.
«Cosa ti hanno fatto?»
La sua voce. Non pietà, c’era dispiacere nella sua voce. E uno strano, incredibile senso di colpa.
«Sono un Errore. Mi puniscono quando faccio qualcosa di sbagliato»
«Questo non ha senso. Perché punirti se sbagli, quando, secondo loro, tu stessa sei uno sbaglio?»
«Secondo loro sono uno sbaglio? Io sono uno sbaglio. Lo sono e basta»
«No. Tu non sei sbagliata. Sei solo diversa, e solo nell’aspetto. In realtà sei una ragazza, e basta; sei gentile, mi hai aiutato, rischiando tu in prima persona di essere presa dalle Ombre, quando nessuno ti avrebbe biasimato se mi avessi lasciato là. I Perfetti odiano gli Errori, avresti tutto il diritto di odiarci»
«Sono un Errore. Non ho diritto a niente»
Poi, improvvisamente, per un istante Freya sentì tutti i suoi nervi urlare. L’istante dopo era già tutto finito, e lei si trovò a tremare e piangere abbracciata a quel ragazzo così diverso da mandarla in tilt.
«Sai perché sono scappato?» La sua voce era ovattata, perché teneva la testa immersa tra i suoi capelli bagnati. «Una notte sono uscito con altri Perfetti, così, giusto per fare qualcosa di proibito. Ho incontrato uno strano tizio, un vecchio. Mi ha detto cose che mi hanno terrorizzato. Ho capito solo troppo tempo dopo che aveva ragione, e per questo sono scappato. Sai cosa mi aveva detto? La verità. Che il Governo progetta il DNA per eliminare possibili rivolte, dopo quella di trent’anni fa: fa in modo di costruire persone tutte uguali, e le controlla attraverso televisione e social network. Vuole evitare che nascano persone che non può controllare, e per questo ci proibisce di guardarci, di parlarci. Ci dice che i diversi sono sbagliati, perché non li può controllare»
Freya non disse niente. Non riusciva a pensare. Le sensazioni nuove che provava in quel momento sembravano riempirle il cervello.
Le lacrime che continuavano a rotolare lentamente giù dalle sue guance.
Le mani di Mizar strette sulla sua schiena, oltre i vestiti la pelle ancora innaturalmente sensibile.
Il suo respiro sui capelli impregnati di pioggia.
«Me ne sto andando. Secondo quel vecchio ci sono altre persone, nelle campagne oltre le mura di confine, che si sono ribellate al governo. Con un po’ di fortuna potrei raggiungerle»
Si allontanò appena da lei, giusto quel poco che bastava per guardarla negli occhi. La ragazza non riuscì, stavolta, a staccarsi da quello sguardo nero.
«Verrai con me?»
Freya ebbe un brivido involontario. Le mura di confine. Il limite ultimo della città. Non era mai andata così lontano. Non si era mai azzardata nemmeno ad avvicinarsi a meno di qualche isolato. Si era limitata a guardarle e immaginare quello che poteva esserci oltre. L’idea la riempì per un istante di un’ombra di paura.
No.
Aveva sempre paura.
Adesso basta.
Sollevò gli occhi verso Mizar. Verso quello strano ragazzo gentile che l’aveva aiutata. Lui l’aveva aiutata più di quanto avesse fatto lei, perché lui l’aveva aiutata a trovare la speranza.
«Vengo con te»
Aveva una possibilità, una sola possibilità di vivere. Andarsene da quel mondo che la distruggeva un poco alla volta, che consumava lentamente la sua stellina nelle lacrime che lei riversava sul cuscino, al buio, quando era sola, dai suoi occhi sbagliati.
Non l’avrebbe persa per niente al mondo.
Nessuno avrebbe potuto strapparle quella decisione. Voleva provarci.
Doveva provarci.
Si alzò. Cercò la mano di Mizar, la strinse. Lui la guardò e sorrise.
«C’era una cosa, nel Vecchio Ordine. Si chiamava “amicizia”. L’uomo che ho incontrato quella notte mi ha detto che è quando guardi negli occhi di una persona e riesci a leggere i suoi pensieri. Ho appena capito cosa intendeva»
Anche Freya sorrise.
Voleva combattere, vincere, vivere, volare. Voleva buttarsi nel vuoto senza sapere cosa ci sarebbe stato sotto, se un soffio di vento che l’avrebbe sollevata in alto o un baratro senza fondo in cui sarebbe precipitata. Ora che qualcosa era cambiato, ora che le catene che la inchiodavano a terra si erano dissolte in cenere, ora che finalmente tutto il ghiaccio che si portava dentro da troppo tempo si era sciolto in quelle calde lacrime lucenti, ora non poteva più avere paura.
E non l’avrebbe avuta.
Non stavolta.
C’era Mizar con lei. Il suo amico. Avrebbero imparato insieme a vivere.
Aprì la porta. Fuori le nuvole erano svanite nel nulla, disperse in un impalpabile vapore evanescente. L’aria era ancora intrisa dell’odore pungente della pioggia e del metallo bagnato, l’asfalto crepato ancora disseminato di pozzanghere.
Ma le stelle erano sfolgoranti, rilucenti, abbaglianti.
Mizar era lì, accanto a lei, le loro mani ancora unite.
Freya asciugò le lacrime che ancora rigavano le sue guance.
Alzò gli occhi alle stelle.
E oltrepassò la porta.
   
 
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