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Autore: Heartless Girl    01/04/2014    2 recensioni
Salve a tutti, questa one shot è stata scritta per un concorso di racconti fantasy il cui tema era l'Illusione. Ne ho approfittato per scrivere una storia che avevo in mente da tanto tempo, che secondo me parla un po' di me e un po' di tutti.
Il protagonista è un mezzo demone di nome Alexander che si ritrova a dover combattere contro svariati mostri, ma principalmente contro sè stesso. Il rating è dovuto ad alcune scene di combattimento ed è abbastanza introspettiva. Scritta sulle note di Howl di Florence + the Machine.
Sarò infinitamente grata a chiunque voglia lasciare una recensione, spero che possa essere apprezzata
Enjoy
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Alexander era nel Limbo da quattro giorni, ormai. E ancora non era riuscito nella sua missione. Non si era nemmeno avvicinato all’obiettivo. Camminava sotto la pioggia, lo scroscio dei tuoni gli rimbombava nelle orecchie e scuoteva il terreno. Il cappuccio nero gli copriva il viso, il mantello era zuppo di pioggia. Si rifugiò sotto un portico semi crollato sulla via principale della città deserta. Alzò il viso al cielo e il cappuccio scivolò via. Un lampo guizzò rapido come una frustata. Rivolse lo sguardo al vetro di una finestra, sotto il porticato. Osservò il proprio volto riflesso, i capelli blu umidi che scendevano disordinatamente sulla fronte, la sagoma indefinita della faretra che spuntava dalla schiena, i tratti fini e bellissimi. Si sfilò il mantello, rivelando la corazza nera e rigida, che si adattava al suo corpo e gli lasciava scoperte le spalle. Incontrò i propri occhi nello specchio e distolse lo sguardo dalle pupille blu notte. Non aveva mai sopportato il proprio riflesso, prova schiacciante di quello che era. Le ali viola si agitarono leggermente sulla sua schiena, facendo tintinnare la faretra. Erano ali da demone, diafane e nervose, artigliate e grandi. Non quanto quelle di un vero demone, visto che lo era solo a metà. Abbastanza però perché non fosse umano. Scacciò il pensiero mentre slacciava dalla tracolla della faretra guantino e parabraccio, di cuoio nero. Fissò il parabraccio sull’interno dell’avambraccio sinistro, infilò le prime tre dita della mano destra nel guantino in un gesto abituale e lo allacciò con un movimento preciso. Poi prese la custodia dell’arco lasciata accanto al muro ed estrasse l’arma con delicatezza. Appoggiò un flettente sul polpaccio e tese la corda senza sforzo. Aprì e richiuse l’arco, senza freccia, assaporando il peso familiare nella mano, il freddo del drago d’argento incastonato sull’impugnatura, la sensazione del guantino che gli solleticava la guancia quasi come una carezza, la corda dura che resisteva tra le dita, lo sforzo nei forti muscoli delle spalle. Quell’arco era l’unica eredità di suo padre, un demone bellissimo che aveva visto solo una volta. –Sei potente, Alexandros. Ricordalo sempre. – gli aveva detto, in una lingua antica come il mondo, consegnandogli l’arma. Ma non era per quello che vi era così affezionato. Indossò nuovamente il mantello, drappeggiandolo in modo che non si impigliasse nelle ali e che proteggesse le frecce dall’acqua. Prese un lungo respiro, e corse sotto la pioggia nel buio.
La città che costituiva il Limbo non era molto estesa, ma gli edifici in rovina si sviluppavano verso l’alto per diversi piani. Le strade deserte non erano illuminate se non dai fulmini che solcavano il cielo, gli unici suoni udibili erano i rombi delle costruzioni più malridotte che crollavano su sé stesse. Spuntoni di metallo ossidato sporgevano da palazzi e balconi come ossa da un corpo spezzato. Spesso le finestre ampie erano prive di vetri e al loro interno si potevano scorgere sagome in movimento, ombre di vita nella città morta. La strada era sdrucciolevole e ghiaiosa, punteggiata di rampicanti neri e avvizziti che avevano stritolato le costruzioni arrampicandosi sui muri. Un tempo il Limbo aveva avuto un nome, aveva ospitato abitanti e una forma di civiltà. Poi era divenuto il rifugio di creature più o meno demoniache di ogni tempo e dimensione, che sfruttavano i numerosi Portali presenti in città. E da rifugio era diventato prigione, quando gli umani avevano chiuso gli accessi per intrappolarvi i propri incubi. Alcune di quelle creature non si erano rassegnate e ancora cercavano di fuggire. Così il mondo degli uomini aveva deciso che erano troppo pericolosi, e aveva mandato Alexander a tenerli a bada. Era l’ideale: un guerriero giovane, senza famiglia, un mezzo demone del quale a nessuno importava. A lui andava bene, perché sapeva di non essere bene accetto tra gli umani, così come non lo era tra i demoni. E poi quello era un modo per fuggire da sé stesso, da quella parte di lui che bramava la morte. La pioggia cessò e lui tolse il mantello senza fermarsi. Il suo sangue demoniaco non si era manifestato solo nel suo aspetto fisico. Nel corso della sua vita solitaria Alexander aveva imparato a conoscersi bene. Sapeva di avere un lato oscuro, sapeva quanto era forte. Ma aveva sempre rifiutato l’idea che prendesse il controllo. Quasi sempre.
Mentre camminava, urtò una sporgenza del terreno e si fermò per riprendere l’equilibrio. Sentì uno scalpiccio interrompersi di botto alle sue spalle. Qualcuno camminava seguendo il suo passo per non farsi udire. Si irrigidì. Percorse con lo sguardo blu i palazzi intorno e avvistò un basso edificio dal tetto semi crollato. Spiegò le ali e lo raggiunse in fretta. Corse, ora saltando ora volando, da un tetto all’altro. Si fermò di nuovo. L’inseguitore sembrava scomparso. Proseguì sollevato, ma ancora all’erta.
Poco dopo alzò lo sguardo verso il suo obiettivo finale, un palazzo fatiscente di metallo corroso, a qualche isolato di distanza. La tempesta era passata ma il cielo era ancora gravido di nubi minacciose. Nel Limbo non faceva mai giorno. Scorse ombre scure scivolare sui muri delle case in rovina e decise di tornare a terra, inquieto. Prese le scale che scendevano dal tetto su cui si trovava e raggiunse un pianterreno spoglio, collegato a un largo salone dal soffitto basso stipato di grandi congegni di metallo rugginosi e rotti. Un odore forte di carne morta colpì il ragazzo che si affrettò a nascondersi dietro la carcassa di un grosso macchinario. Un debole bagliore si irradiava da un braciere al centro del salone. Alexander vide un’enorme ombra chinata su quella luce. Una bestia demoniaca alta cinque metri sostava accanto al fuoco e il ragazzo poteva udire il suono delle ossa spezzarsi sotto i suoi denti. Impallidì riconoscendo un Oni. La pelle era di un rosso sanguigno,  due lunghe corna salivano a spirale dalla fronte incorniciata da lunghi capelli sudici. Accanto alle enormi membra era posata una mazza chiodata altrettanto grande. Improvvisamente l’Oni voltò il viso terrificante nella sua direzione, respirando forte e scoprendo le lunghe zanne. Afferrò la clava e si alzò, avanzando in fretta. Era veloce, nonostante la stazza. Alexander allungò una mano verso la faretra ed estrasse una freccia dall’impennaggio blu e nero. Posò l’asta, anch’essa dipinta di nero, sulla finestra dell’arco e attese che l’Oni avanzasse ancora. In un movimento lento e misurato come un respiro portò la corda al viso. Poi scoccò e la punta trafisse il polpaccio del demone, che urlò di dolore. Alexander si voltò e fuggì. Con un ruggito l’Oni gli corse dietro facendo tremare il terreno. Alexander raggiunse l’uscita ma il gigante la bloccò spingendovi uno dei rottami metallici, che lo mancò per un pelo. Il giovane arciere cominciò ad arrampicarvisi freneticamente. Quando si voltò era faccia a faccia con l’Oni. Tirò di nuovo a velocità fulminea, colpendo il mostro alla spalla. Questo non impedì alla creatura di spedirlo contro la parete opposta con una manata. Sentì un artiglio lacerargli la guancia. Alexander protesse la faretra e il corpo con le ali, ma l’impatto lo lasciò senza fiato. Perse l’arco, che scivolò sul pavimento liscio per una decina di metri. La paura lo assalì, seguita dalla consapevolezza di un’altra presenza nell’ambiente.
L’inseguitore, un’ombra scura e vaporosa, fluttuava indefinita alle spalle dell’Oni, sussurrando. Alexander coglieva le parole come se l’ombra fosse parte di lui. Uccidilo, avanti. Sai come fare. La mano del mezzo demone scattò verso il pugnale che portava alla cintura. L’Oni incombeva su di lui. Alzò la sua arma. Alexander attese, improvvisamente tranquillo. Dentro di lui si affacciò lentamente un istinto nuovo eppure conosciuto, antico come la sua origine. Strisciò lentamente nel suo cuore, indurendolo, spezzando le sbarre dietro cui era stato rinchiuso. La mazza calò e lui si spostò fulmineamente in avanti, aprendo col pugnale tagli profondi nella carne rossa del demone. L’Oni cadde in avanti scuotendo il terreno. Alexander affondò ancora un paio di volte la lama. Si udì un clangore metallico e una pila di rottami crollò sull’Oni, immobilizzandolo. Alexander si avvicinò alla sua testa. La paura aveva lasciato il posto al desiderio di morte. L’ombra inseguitrice era scomparsa, ma poteva ancora sentirne nitidamente la voce. Senti il desiderio del suo sangue. La sua vita ti appartiene. La sua vita non è nulla per te. Affonda il pugnale, piano, deve sentirlo. Trafiggi il suo cuore marcio. Alexander sapeva che la voce non stava cercando di convincerlo. Gli stava solo ricordando qual era la realtà. Il suo viso si trasfigurò mentre alzava la lama. Sentì i muscoli tesi allo spasimo, i denti allungarsi in bocca fino a sfiorargli le labbra morbide. La belva nel suo petto, l’ombra che sussurrava al suo orecchio urlò di trionfo. Alexander percepì un buio freddo calargli sul cuore. La lama del pugnale lampeggiò nel buio, e si fermò. Alexander vide il proprio volto riflesso negli occhi animaleschi dell’Oni e indietreggiò lasciando cadere l’arma. Era il volto di un demone, la sete di sangue accendeva i suoi occhi ora neri e i denti sporgevano in un ghigno malvagio. Con le lacrime agli occhi, si allontanò ancora. Cercò freneticamente l’arco, poi fuggì nella notte perenne del Limbo.
Alexander era rannicchiato sul balcone del palazzo di fronte a quello in cui l’Oni giaceva ancora immobilizzato. Le ali viola erano avvolte attorno al corpo, il viso tuffato nelle braccia a soffocare le lacrime. Sentiva il suo inseguitore cercarlo, ululando nella notte, sfrecciando a velocità sovrumana da una rovina all’altra. Si portò le mani alle orecchie. Era certo che fosse reale, ora. Era certo che una parte di lui gli stesse dando la caccia, così come lui la dava ai mostri del Limbo. La parte più demoniaca, quella che aveva cercato in tutti i modi di relegare in fondo alla propria anima. Il suo lato oscuro, molto peggiore di quello di chiunque altro. Si passò nervosamente una mano sul viso. Le zanne se n’erano andate come se non ci fossero mai state. Ma lui sapeva che era stato vicino ad arrendersi al desiderio di uccidere. E allora non sarebbe più stato un mezzo demone, ma solo una bestia come molte altre che lì vivevano. Accecato dalla fame di morte. Reso pazzo dalla sete di sangue. Sì, in passato aveva ucciso. E avrebbe ucciso ancora. Era parte della sua natura di guerriero. Ma se si fosse fatto raggiungere dall’ombra, sarebbe stato perduto. La paura gli gravava sul petto come un peso fin troppo familiare. Gli sfuggì un singhiozzo. Si alzò, asciugandosi il viso dal sangue.
Il taglio infertogli dall’Oni non era profondo. Mentre si puliva con il dorso della mano vide poi molte sagome scure addentrarsi nella tana del mostro. Alte e snelle, con ali molto più grandi delle sue al posto delle braccia e volti umani, bellissimi. Vetala. Uomini pipistrello bevitori di sangue. Il fuoco del braciere si spense e i lamenti del demone attaccato risuonarono nell’oscurità, insieme ai sibili orrendi dei Vetala. La voce nella sua testa gli urlò forte di unirsi al banchetto. Alexander portò disperatamente una mano alla faretra, nella parte posteriore. In uno scompartimento separato c’erano cinque frecce diverse dalle altre, con due penne rosso sangue e una nera. La punta era di ferro del Flegetonte, il fiume di lava che scorreva nell’Oltretomba. Non che ci fosse stato: erano un altro dono del padre. Ed erano estremamente potenti. La mano gli tremava mentre ne incoccava una. Mirò all’edificio di fronte, le urla dell’Oni squarciavano l’aria. E nel momento in cui tese la corda e lasciò tutto il resto fuori, finalmente trovò sollievo. La freccia compì una parabola perfetta e si infilò in una delle finestre. Un’esplosione di fiamme illuminò quella notte infinita e i Vetala fuggirono in ogni direzione, levando alte grida. Alexander saltò giù dal balcone e cominciò a correre, ma già sentiva il fiato della sua oscurità sul collo.
La città scorreva accanto a lui a velocità doppia. Cominciava a sentire un dolore sordo ai muscoli delle gambe, ma non si fermò. Ora lo scalpiccio della sua ombra era chiaramente udibile, come se essa fosse dotata di un corpo solido. Fu assalito dal terrore che fosse davvero così. All’improvviso si ritrovò catapultato nel suo peggior incubo. La sua natura gli si rivoltava contro, sopprimendo ogni tentativo di controllarla. Ogni battaglia, in quel momento, gli apparve vana. La forza terribile che gli infiammava le vene gli sembrò impossibile da contrastare. Le ali erano tese allo spasimo, le dita serrate intorno all’impugnatura dell’arco. Sarebbe stato così facile prendere una freccia, poche ore prima, mirare al collo di un Vetala. Li avrebbe uccisi uno dopo l’altro, godendosi lo stupore sui volti demoniaci, belli almeno quanto il suo. Nei loro occhi avrebbe visto il riflesso del dolore bruciante del metallo che affondava nella carne. Alcuni avrebbero provato a fuggire. Li avrebbe inchiodati al suolo, trafiggendo le ali membranose da pipistrello, lacerando i corpi scheletrici. Avrebbe guardato il sangue bagnare la terra come un’offerta sacra, e avrebbe riso. Il piacere oscuro che quel pensiero gli suscitava lo disgustava e affascinava quasi nella stessa misura. –Basta! – urlò alla sua ombra, voltando appena la testa. Sentì il ruggito della belva che accelerava per raggiungerlo. Si impose di correre più forte. Svoltò più volte in vicoli fatiscenti sempre più stretti. All’improvviso alla fine della strada intravide un muro semi crollato che bloccava il passaggio. Si infilò l’arco a tracolla e saltò, sbattendo rapidamente le ali. Si arrampicò aiutandosi con le ali sul muro sdrucciolevole e si lasciò cadere dall’altra parte, atterrando morbidamente in piedi. L’urlo della bestia rimasta al di là del muro risuonò nell’oscurità. Alexander tirò un sospiro di sollievo, fermo accanto al muro. Alzò lo sguardo blu verso il palazzo di ferro e vetro, ormai molto vicino, e riprese a correre.
Si era fermato nel piano intermedio del palazzo antistante al suo obiettivo. Aveva trovato quella che doveva essere stata una stanza da letto dalla quale poteva osservare senza essere visto. Ormai aveva identificato le sagome scure che abitavano il palazzo come Anpu, ibridi umani dalla testa di cane o sciacallo che si dicevano essere discendenti del dio Anubi. Erano una compagnia abbastanza numerosa, arrivata al Limbo da poco attraverso un Portale situato sul tetto dell’edificio che era diventato la loro base. E avevano chiaramente intenzione di riaprirlo e tornare da dove erano venuti. Il piano di Alexander era semplice: ucciderne il più possibile, come gli era stato ordinato, per poi tornare attraverso quello stesso Portale. L’obiettivo primario era il loro capo, un enorme Anpu albino. Le pupille cobalto del mezzo demone scrutavano attentamente nel buio, attraverso il quale non aveva mai avuto difficoltà a vedere. Era importante che non si facesse prendere dalla furia, perdendo il controllo. Si passò una mano sulla guancia, dove l’artiglio dell’Oni l’aveva sfregiato. Il taglio era già diventato una cicatrice, un’altra aggiunta a quelle che già segnavano il suo corpo snello. Come quella sul dito indice della mano sinistra, tipica dell’arciere. Provocata dallo sfregamento delle penne sulla pelle durante un tiro poco attento. Nel suo caso, quando per la prima volta aveva usato il suo arco dopo averlo ricevuto dal padre. O la scura impronta di morso che segnava l’interno del braccio destro. Cicatrici e tatuaggi: le spirali d’argento di protezione sulla spalla destra, lasciata scoperta dalla corazza, o le volute sottili che risalivano dal polso fino al dorso della mano come fiamme nere. Il suo sguardo vagò fino alla faretra riposta sul pavimento. Gli rimanevano una decina di frecce blu, e poi quelle nere e rosse del Flegetonte. In origine erano sei. Una l’aveva usata ormai quasi un giorno prima contro i Vetala, e un’altra quando si era procurato la cicatrice sul braccio. La prima volta in cui era stato al Limbo. Una delle molte occasioni in cui il suo arco l’aveva salvato. Perché quando tirava esistevano solamente lui e la freccia, insieme al centro del bersaglio. La sensazione che quell’arma gli dava era unica ed era parte integrante di lui, al punto da mancargli quando non la provava per un po’. Era la forma di annullamento fisico e mentale che bramava da tutta la vita, ma che non sarebbe mai stata interamente sua. Prese la faretra e la allacciò con attenzione attorno al petto, passandola dietro tra le ali. Nel momento perfetto che precedeva il tiro, poteva scaricare tutto il peso dei propri sentimenti sulla freccia e lasciare che trovasse da sola la via del bersaglio. Era come smettere di esistere per un istante, diventando parte di un tutto infinito. Sistemò il parabraccio sul limite dei tatuaggi, strinse la cinghia del guantino sulle tre dita. Poi prese l’arco e uscì.
I due Anpu di guardia all’ingresso del complesso in rovina erano armati solo di rudimentali lance. Alexander aveva deciso che prima si sarebbe occupato dei mostri al pian terreno, sarebbe salito a piedi fino al secondo piano, poi avrebbe volato fino al palazzo adiacente dal quale avrebbe sistemato gli Anpu rimasti sul tetto, dove si trovava il Portale. Aveva già visto il loro capo che li radunava per aprire il passaggio, e sapeva di doversi muovere in fretta. Sapeva anche che l’ombra che gli dava la caccia aspettava solo che cominciasse a uccidere per scovarlo. Per questo aveva deciso che avrebbe usato solo l’arco. Finché tirava, sarebbe riuscito a controllarsi. Forse. Sentiva la paura stringergli il cuore, mescolata al desiderio di battaglia che gli infiammava il petto. Prese un lungo respiro, si scostò un ciuffo blu acceso dal viso ed estrasse la prima freccia. Aveva un’unica penna, avvolta intorno all’asta a formare una spirale. Ne estrasse un’altra uguale e la piantò ai propri piedi. Si trovava a una sessantina di metri dagli Anpu, che non potevano vederlo per via dell’oscurità e della pioggia sottile che aveva ricominciato a scendere. Scoccò le frecce una dopo l’altra, ed esse volarono insieme fin sopra il capo degli Anpu, poi si drizzarono, la punta rivolta in basso, e piovvero sulle creature. Gli Anpu si accasciarono al suolo senza un lamento. Alexander avanzò.
Senza nemmeno entrare sfruttò le vetrate che correvano intorno al perimetro del palazzo per eliminare gli ignari mostri. Girò intorno lentamente, godendosi la sensazione del tiro senza pensare ai bersagli. Quando fu certo che fossero tutti morti, entrò e salì le scale, sempre all’erta. Con un piccolo balzo raggiunse l’edificio adiacente. Da lì salì sul tetto, appena più in alto di quello della tana degli Anpu. Gli ibridi erano riuniti sul tetto, attorno a un massiccio stipite vuoto di ossidiana nera. Il capo teneva le braccia pelose sollevate al cielo e ululava forte, mostrando le zanne gialle e gli occhi di brace. Gli altri si agitavano convulsamente intorno, ringhiando e lanciando urla terrificanti. Alexander incoccò con calma, ascoltando il vento. Sollevò l’arco verso l’Anpu albino. Prese fiato, lo rilasciò. Nello stesso istante la freccia lasciò l’arma e partì sibilando. L’Anpu bianco cadde a terra, l’asta nera che sporgeva dalla fronte. Le urla cessarono. Gli Anpu osservavano attoniti il leader caduto. Un grido agghiacciante risuonò nella notte. Con un fremito, Alexander lo riconobbe. Lo aveva trovato. Tutto si fece più buio, poi più nitido. Una creatura irsuta piombò a velocità sovrumana tra gli ibridi e cominciò a falcidiarli con artigli e zanne. Anche se armati, gli Anpu non riuscivano a difendersi. Caddero a velocità impressionante. Alexander scorse il rosso del sangue che rendeva scivoloso il terreno. L’ombra non ci fece caso, continuando ad afferrare e sbranare Anpu. Il ragazzo era paralizzato. Il gelo gli avvolgeva il petto, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo dal massacro. La bestia lo chiamava, sussurrando nella sua mente. Vide alcuni Anpu trascinarsi verso il Portale per cercare di oltrepassarlo. Doveva fermarli. La mano corse alle quattro frecce rosse rimaste. Tirò in fretta, con disperazione. Ma non mancò il bersaglio. Il Portale esplose con un rombo tra le urla dei mostri in agonia. Alexander si voltò e fuggì, ancora una volta, sentendo gli occhi della sua ombra perforargli la nuca.
La corsa forsennata per le vie della città gli diede il tempo di riflettere. Le uccisioni compiute gli bruciavano nelle vene. Doveva essere stata l’esecuzione del leader a svelare definitivamente la sua posizione all’essere che lo inseguiva. Lacrime di disperazione scorrevano bollenti sul suo viso. L’avrebbe raggiunto. Avrebbe divorato ciò che ancora rimaneva della sua anima. Anche ora avvertiva l’impulso di voltarsi e terminare la strage. L’avrebbe fatto, ma sapeva che erano già tutti morti. Si asciugò le guance con un gesto secco, iroso. Vide una cupola di vetro venirgli incontro e vi entrò. Era inutile negare che volesse uccidere. Era sciocco dire che fosse il suo sangue a imporlo. Perché lui sapeva che ciò che lo inseguiva era sé stesso. Aveva vissuto con i demoni e sapeva a cosa portava abbandonarsi a quell’istinto. Aveva vissuto con gli umani e sapeva che quel lato oscuro era in ognuno di loro, più forte di quanto non sospettassero. L’aveva visto venire alla luce infinite volte, un meccanismo letale innescato da rabbia, delusione, solitudine. Una forza terribile che improvvisamente scorre nel corpo come un brivido, la consapevolezza fredda di come togliere la vita. Il piacere nel farlo, infliggendo un dolore familiare, ma non liberatorio. Perché arrendersi non significava trovare sollievo, ma affondare nell’abisso oscuro della propria anima, perdervisi, e non essere più in grado di risalire. Si bloccò. Ma lui era tornato indietro. Aveva scalato le pareti del pozzo ferendosi le mani, e in quel pozzo aveva rinchiuso la bestia. Ed ora che si era liberata, essa veniva a reclamare il conto. In qualche modo ora era divenuta tangibile, spezzando le catene della sua immaginazione per prendere forma fisica e perseguitarlo. Strinse una mano sull’arco, la fune gettata nel pozzo. L’aveva sconfitta una volta, l’avrebbe fatto di nuovo. Perché la salvezza era semplicemente lì, nell’impugnatura di metallo freddo, nella calda carezza del guantino sulla pelle, nel sibilo quasi sollevato della freccia in volo. Si voltò, nel momento in cui la bestia sfrecciava dentro la cupola e si nascondeva nell’ombra.
La brusca fine della sua fuga doveva averla sconcertata. La sentì vagare nervosamente. La cupola aveva pareti di vetro lucidato a specchio, che rimandavano il riflesso di centinaia di ragazzi dai capelli blu e ali viola veleno. Alexander incrociò lo sguardo celeste di ognuno di loro e non ebbe più paura. Con lentezza infinita, portò una mano tra le scapole. Estrasse la freccia nera delicatamente, la poggiò con attenzione, infilò la cocca sulla corda. Un paio di pannelli di vetro caddero dal soffitto e Alexander si scostò con un balzo. Si avvicinò al muro, l’arco teso puntato di fronte a sé. Qualcosa partì verso di lui dall’oscurità. Il mezzo demone schivò il vetro affilato e scoccò nella direzione da cui proveniva. Un ululato agghiacciante lo fece indietreggiare ulteriormente. Una goccia di sudore scese lenta dalla sua tempia mentre incoccava un’altra freccia. Sentì lo spostamento d’aria mentre la bestia lo caricava e si levò dalla traiettoria sbattendo le ali. Tirò, ma sentì la freccia rimbalzare sul pavimento. Mentre si posava di nuovo a terra, alzò lo sguardo e vide un lucernario chiuso proprio sopra di lui. Il ringhio della bestia che si preparava a un nuovo assalto giunse come attutito dal buio. Rapidamente Alexander tirò una freccia verso il soffitto. Se avesse colpito il lucernario, avrebbe avuto qualche secondo, sufficiente a uccidere. Se fosse ricaduta, sarebbe morto. Dopo cinque secondi aveva già un’altra freccia sull’arco, mentre la salita della prima non era ancora conclusa. Le sue dita raggiunsero il viso nell’istante in cui il ferro del Flegetonte toccava  il soffitto del lucernario, mentre la bestia si slanciava verso di lui pregustando il sapore dolce della sua anima semi immortale. Una vampa di fuoco esplose illuminando la cupola, accecandoli entrambi per un momento. Poi Alexander scoccò. Due grida, come di una sola voce, lacerarono la notte perenne.
Alexander era certo di aver ucciso una parte di sé stesso. Sentiva il petto compresso, mentre stava piegato in due sul pavimento. Il dolore che provava al costato bruciava più forte a ogni respiro. Lentamente si distese, poi si toccò il torace. Eppure non c’era nessuna freccia. Stupito, si osservò le dita. Erano rosse di sangue. A quel punto si tirò a sedere e guardò lo squarcio nella corazza nera rigida. Tre lunghi tagli, di artigli non umani. Ma non profondi. Si alzò a fatica, l’arco ancora stretto convulsamente nella mano sinistra. Barcollò verso il punto dove giaceva la sua ombra. Stava guardando un pezzo della propria anima. Una creatura lunga un paio di metri, ricoperta di pelo sudicio. Le zampe inferiori, simili ai lunghi arti di un cane, sembravano consumati dalla corsa. Zanne gialle incrostate di sangue e pezzi di carne rancida erano scoperte nel muso privo di labbra. Gli occhi accecati dal lampo di fuoco erano diventati da rossi a bianchi. Il corpo scheletrico era immobile. Alexander rivolse lo sguardo agli specchi, alcuni rotti dall’esplosione di poco prima. Ma vi vide riflessa sempre la stessa figura: un ragazzo alato accanto al corpo morto di un Windigo. Un Windigo, un mostro cacciatore spietato capace di imitare le voci di animali e uomini. Un corridore instancabile figlio della Fame e del Freddo. Un Windigo, non una parte della sua anima. Un Windigo. Un essere reale e tangibile, che gli aveva sfregiato il petto con gli artigli affilati. Sfiorò la cicatrice scura sul suo braccio ricordando la prima volta in cui ne aveva visto uno. Estrasse la freccia dal cadavere della sua paura. Quell’illusione l’aveva perseguitato per giorni. E l’aveva fatto riemergere dal pozzo.
  
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