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Autore: namary    01/04/2014    0 recensioni
La notte scivolava silenziosa sulla terra e, nel bosco, tutto taceva.
Dalla bruma emerse la figura maestosa di un cervo.
Chinò per un attimo la bella testa, scosse il morbido orecchio, prima di avanzare lentamente verso di lei.
Era come incontrare un vecchio amico, di cui per lungo tempo si erano perse le tracce.
Anche lei gli si avvicinò cauta, quasi incredula, finché non furono tanto vicini da potersi perdere l’uno nello sguardo dell’altro.
Gli occhi dell’animale erano pieni di consapevolezza, di un’emozione libera e selvaggia. Il suo respiro era regolare, profondo. Il fumo gli usciva dalle narici umide, perdendosi nella nebbia, assieme al suo.
Lì, nel profondo della foresta, divennero un cuore e un respiro e uno sguardo.
Poi lui sussurrò il suo nome.
“Cristina”
Perché una donna che sceglie di sacrificare sè stessa, è simile a un cervo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il respiro del cervo


 
La notte scivolava silenziosa sulla terra e, nel bosco, tutto taceva.
Dalla bruma emerse la figura maestosa di un cervo. 
Chinò per un attimo la bella testa, scosse il morbido orecchio, prima di avanzare lentamente verso di lei.
Era come incontrare un vecchio amico, di cui per lungo tempo si erano perse le tracce.
Anche lei gli si avvicinò cauta, quasi incredula, finché non furono tanto vicini da potersi perdere l’uno nello sguardo dell’altro.
Gli occhi dell’animale erano pieni di consapevolezza, di un’emozione libera e selvaggia. Il suo respiro era regolare, profondo. Il fumo gli usciva dalle narici umide, perdendosi nella nebbia, assieme al suo. 
Lì, nel profondo della foresta, divennero un cuore e un respiro e uno sguardo. 
Poi lui sussurrò il suo nome.
“Cristina”

‚ƒ

Cristina spalancò gli occhi, l’emozione ancora viva dentro di lei.
Si voltò subito a sinistra, ma il posto accanto a lei era vuoto, le coperte già fredde. Suo marito doveva essersi alzato presto.
Lo cercò per la casa, chiamandolo a gran voce, ma nessuno le rispose.
Lui e Marco probabilmente erano già usciti a fare un giro. 
Si vestì e iniziò a sbrigare le faccende di casa, come ogni sabato.
Potare le piante, pulire i pavimenti, preparare il pranzo. 
Ma l’ombra del cervo la seguiva in qualunque stanza lei andasse.
Ci fu un momento in cui le sembrò di sentire perfino il battito sordo degli zoccoli sulle piastrelle, e un bramito sommesso che la chiamava verso il ripostiglio in cui per anni aveva evitato di guardare. 
Nel tranquillo silenzio della sua casa, Cristina decise infine di ascoltare.
Poggiò la scopa nell’angolo e il mestolo vicino al fornello, e si diresse verso il sottoscala della mansarda.
Aprì la porticina lentamente, come se avesse paura di ciò che avrebbe visto.
E poi, il profumo delle erbe secche, della malva e del basilico, della menta e della verbena, la investì. Era l’odore della sua infanzia, l’odore della nonna, che se n’era andata dalla sua vita troppo presto, l’odore del bosco e dell’avventura.
C’erano i suoi cristalli, c’erano i sacchetti di stoffa colorata, c’era tutto, compreso il ciondolo che la nonna aveva intagliato da un ramo di nocciolo.
Un fortissimo senso di nostalgia le prese il cuore, e i ricordi a poco a poco affiorarono nella sua mente.
Era immersa in questi pensieri, quando udì il rumore della macchina sul ghiaino, e il clacson che annunciava il ritorno dei suoi due uomini.
Presa da un’improvvisa fretta, rimise a posto tutto quanto, chiuse il ripostiglio e tornò alle sue faccende, cercando di apparire il più normale possibile.
Marco entrò saltellando, pieno di gioia.
“Mamma, mamma! Vieni a vedere cos’abbiamo preso oggi!”
“Preso?” chiese Cristina sorridendo, mentre abbracciava suo figlio.
“Sì, il papà mi ha portato a caccia, ha promesso che mi insegnerà a sparare!”
In quel momento suo marito entrò col fucile in spalla, si tolse il giubbotto e appoggiò l’arma scarica lì vicino.
Si salutarono con uno sguardo e un ruvido bacio.
Marco insistette così tanto che Cristina si lasciò convincere, e uscì sul retro.
“Hai visto mamma? Un cervo! E’ enorme… non posso credere che papà è riuscito a prenderne uno!”
Fissando gli occhi dell’animale, lodò suo figlio, senza provare gioia.
Pranzarono, ma Cristina rimase silenziosa per tutto il tempo.
Per qualche assurdo, strano motivo, la morte di quel cervo le appariva un ulteriore segnale a cui prestare ascolto.
Di nuovo, la Luna la stava chiamando.

‚ƒ

Quando Cristina si avviò sola verso il monte, la luna era già alta nel cielo, proprio come nel sogno.
Percorse sentieri invisibili a chiunque, sentieri che aveva imparato a trovare da piccola, quando sua nonna le raccontava ancora le storie, e le insegnava che la Dea aveva creato le donne da una piega della pianta del suo piede.
Per questo le donne sentivano sempre tutto.
Si inoltrò nel sottobosco, tra la felce e il biancospino, osservata dagli occhi sapienti dei gufi.
Il vento freddo di Ottobre la avvolse, colmo dei sospiri degli alberi, ma lei non provò paura.
Nel buio della notte, si sentiva protetta dagli sguardi indiscreti degli uomini. 
Arrivò in una radura che odorava di fiori selvatici e della resina dei pini, e lì si sedette, iniziando a preparare il cerchio.
Quanti ricordi… tutto era come ricordava.
E si sentì emozionata come se fosse la prima volta, mentre recitava le formule di rito, formule che aveva raccolto e riadattato secondo il suo sentire.
Inspirò profondamente il profumo della notte, degli alberi fronzuti, e ritrovò sé stessa.
Da troppo tempo non ascoltava il richiamo della Luna, da troppo tempo non odorava il respiro del cervo, da troppo tempo non vedeva con occhi di lupo. 
Disposti gli strumenti, estrasse dalla sacca la pietra macchiata del sangue del cervo.
Era toccato a lei scuoiare la carcassa, mentre un grido muto le percorreva lo stomaco.
Mentre stava incidendo le carni col coltello, non aveva potuto fare a meno di sentirsi simile a quel cervo. 
E, dopo molti anni, aveva udito di nuovo la voce di sua nonna, chiara come se fosse stata dietro di lei.
“E’ la preda che sceglie di sacrificarsi per noi, ricordalo. Nello sguardo della vacca che va al macello, non ci sono stupidità, né paura, ma solo la consapevolezza della morte. Quando mangiamo la loro carne, un po’ della loro vita entra in noi. Essi sacrificano sé stessi per dare la vita. Non disprezzare mai questo gesto, né il cibo che mangi, perché tutto ci viene donato per amore”
E per amore, o quello che credeva tale, anche lei si era sacrificata: aveva scelto di sposare Giulio, assecondando il desiderio dei suoi genitori, che di lui amavano i modi e lo stipendio. 
Aveva scelto di non trasferirsi in Francia, nonostante le avessero proposto un posto all’Ecole des Arts e des Métiers di Digione, perché secondo la sua famiglia era troppo vecchia ormai per studiare. Arte, poi. Non si mangiava con l’Arte, nossignore.
Uno dopo l’altro, aveva finito per buttare i suoi dipinti, i suoi pennelli, e regalare i suoi colori alla bancarella dell’usato.
Aveva scelto di sacrificare la sua libertà in nome di un’esistenza comoda e tranquilla, recidendo il legame con la Dea e la Donna Selvaggia che abitava in lei. 
Ora, dopo molti anni, il cervo era di nuovo venuto a trovarla in sogno, e la Luna ancora la chiamava a sé.
Disposto il necessario, si spogliò, rabbrividendo nella nebbia.
Camminando scalza sul tappeto di foglie dorate e rossastre, aveva sentito gli aghi dei pini sotto i piedi, e l’umidità della terra le era scivolata nelle ossa. Entrò nel cerchio.
Posata a terra la pietra sporca di sangue, proprio al centro del cerchio, accese il fuoco.
Ancora, sentì la voce della nonna. 
“Ti racconterò una storia: c’era una volta una donna che era una lupa, che era una donna…”
Per la prima volta dopo molti anni, pregò la Dea, silenziosamente, e mentre il fuoco ardeva nella radura, qualcos’altro, una fiamma sottile, incorporea, si riaccese in lei.
Brindò agli spiriti dei defunti, lasciò offerte per gli abitanti del bosco, e danzò nuda come faceva quand’era ragazzina, al suono di tamburi invisibili, e al grido della sua anima che non riusciva ad uscirle dalla gola.
D’un tratto, le sembrò di sentire dentro di sé il respiro del cervo, che correva di nuovo libero per la foresta, superando agilmente rami caduti e cespugli. 
Solo per qualche secondo, nel suo spirito Cristina percepì di avere lunghe zampe e zoccoli che affondavano dolcemente nella terra, di avere il naso caldo e umido, di star inseguendo una libertà che mai avrebbe trovato.
Lei non sapeva però, che lo spirito del cervo era vicino, e aveva lasciato impronte fresche nella notte. 
Occhi invisibili la stavano osservando, e un respiro si accostò tranquillo al cerchio di pietre, foglie cadute e sangue.
Il cervo annusò l’odore delle fiamme e del sacrificio, e nei suoi occhi si riflesse una donna che era una lupa, che era una cerva, che era una donna.
Poi, entrò nel cerchio.
Entrambi corsero e danzarono e piansero e bramirono. 
Lì, nel profondo della foresta, da quella notte in avanti, una donna e un cervo divennero un cuore e un respiro e uno sguardo, e cercarono la propria libertà.
   
 
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