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Autore: TheNaiker    02/04/2014    1 recensioni
Una storia che può fare accapponare la pelle o piangere dalle risate, a seconda della sensibilità e dei significati che ci leggi. Sembra strano, ma è così. Nel contesto di quella che è una leggenda metropolitana, la triste storia della discesa agli inferi di una giovane anima.
Genere: Mistero, Thriller, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ci sono storie di cui non veniamo mai a conoscenza. Storie che nascono e muoiono al buio, nascoste agli occhi di ogni possibile testimone vivente o meno... Storie che, travolte dal vorticoso susseguirsi degli eventi di questo mondo, non lasciano mai traccia di sé una volta che esse giungono a conclusione.

Quella che state per leggere è una di queste. Senza un paio di rapporti, senza quelle poche, sparute pagine, redatte quasi per caso dalle mani tremolanti di un bambino che quasi non sapeva scrivere... Nessuno avrebbe mai saputo di tutto ciò. E pensare che questa vicenda non è campata per aria, non è ambientata in luogo lontano lontano come le favolette che si raccontano per fare addormentare i figlioletti. Questa vicenda ha un tempo e un luogo ben precisi.

Alamagordo, New Mexico, Natale del 1983. Una cittadina al confine tra Stati Uniti e Messico, qualche decina di migliaia di anime in tutto. Piccolina, ordinaria, lontana da tutto, e quindi stracolma di persone umili e di modeste ambizioni. Tra di esse, spiccavano quelli che sono conosciuti anche oggi come peones, i poveri contadini che viaggiano dal sud al nord America in cerca di una vita migliore e che si portano dietro tutta la famiglia. Uomini e donne che hanno superato il confine e che hanno abbandonato tutto, rischiando anche la vita pur di arrivare lì, mossi dal sogno americano.

Anche la famiglia di Lionel era così.

Lionel D., un bambino di sette-otto anni, simile a tanti altri. Non sappiamo molto di lui, dai documenti e dalle pagine di diario in nostro possesso non riusciamo a risalire neppure al suo cognome vero. Probabilmente aveva carnagione scura, occhi e capelli neri, come la maggioranza della sua gente, anche se non ne possiamo essere sicuri. Sappiamo però con certezza che si trattava di un bimbetto vispo e intraprendente, e non potrebbe essere così visto quello che gli è capitato.

Da quel che emerge parlando con la gente che conosceva, con quelli che erano i suoi vecchi compagni di scuola, il fanciullo mostrava un'intelligenza notevole per uno della sua età, era in tutto e per tutto un piccolo ometto cresciuto in fretta e furia, e non aveva infatti alcuna paura di parlare con gli estranei, usava una certa confidenza nei loro riguardi. Non esitava a chiedere loro se potevano dargli qualcosa di carino, un giocattolo, qualche figurina del baseball, i gettoni per entrare in una sala giochi... Era l'unico modo per ottenere queste cose, d'altronde, lui non si poteva permettere tutte quelle piccole gioie, la sua famiglia di operai faceva già fatica ad arrivare a fine del mese.

E così lui passava spesso ore ad ammirare gli altri giocare ai cabinati, all'interno del più grande locale di Alamagordo, e moriva dalla voglia di farci delle partite. Solo che non si poteva concedere il lusso di spendere un quarto di dollaro per un picchiaduro, o per un arcade, e mai che trovasse qualcuno disposto a regalargli degli spiccioli. I giovanotti che frequentavano il bar erano dei maleducati e degli arroganti, più simili a bulli che a persone perbene; quanto agli altri, si trattava perlopiù di alcolizzati e poveracci che quasi sempre erano al verde come e più di lui. Bifolchi abbrutiti dall'alcol che potevano essere persino pericolosi da avvicinare.

Tuttavia era evidente come lui volesse giocarci, bastava vedere i suoi occhi. Quelle manopole erano unte, con la plastica bruciata dalle sigarette e lorda di unto e di macchie di provenienza ignota, qualcosa per cui provare quasi dello schifo, e lo schermo gigante presentava una vistosa crepa in alto a destra, risultato dello sfogo di un giocatore incapace di ammettere la propria sconfitta. Ma per Lionel quel pesante oggetto era meraviglioso, un frutto proibito, il simbolo di qualcosa che si poteva sfiorare solo con il pensiero, come una ragazza bellissima e irraggiungibile.

Irraggiungibile, già. Si sentiva escluso da quel mondo dorato, pensava di essere destinato a vivere una vita più triste, rispetto a quelli che potevano muovere liberamente quello stick e premere svogliati quei pulsanti così invitanti. Tagliato fuori da quelle avventure eroiche e da quei combattimenti mozzafiato. Simularli con dei pupazzetti non era la stessa cosa... Avrebbe fatto qualsiasi cosa per potersi divertire a volontà con quell'affare, avrebbe accettato anche un'offerta da parte del diavolo in persona. E fu per quello che un giorno fu avvicinato da qualcuno.

Le cronache lo chiamano Frederick Awanyane Stephens, un omaccione americano sulla quarantina. Chi l'ha conosciuto afferma che fosse un dottore, anche se non lo avevano mai visto esercitare la professione. Forse non lavorava perché gli eventuali pazienti non si fidavano di uno come lui, il suo secondo nome di battesimo tradiva infatti origini indiane; del resto, quella zona traboccava di tribù che avevano dominato quell'angolo di mondo fino a pochi decenni prima. Dicono fosse un tipo abbastanza silenzioso e riservato, era sempre restio a parlare di sé e si circondava sempre di un alone di mistero, per quanto la comunità sapesse che gestiva un allevamento di cavalli, era con quello che si manteneva; erano anche al corrente del fatto che di recente aveva allevato una gatta randagia trovata per strada, il che alimentava le dicerie sulla stranezza e sull'eclettismo di quell'individuo. Non era solo una bestiola domestica, di quell'animale quello si era proprio infatuato, non si staccava mai da quella micia, la trattava come fosse la sua fidanzata, ed i pettegolezzi sul suo conto si sprecavano. Anzi, qualcuno gli aveva anche affibbiato il nomignolo di Evil, malvagio, perché ogni tanto faceva capolino una luce sinistra nei suoi occhi bui. Aveva sempre l'aria di essere sul punto di fare qualcosa di cattivo.

Forse erano solo dicerie, forse no... Fatto sta che Stephens un giorno si avvicinò a Lionel, sempre appiccicato a quei cabinati, e gli diede un oggetto. Non un quarto di dollaro, quella moneta sarebbe durata pochi secondi nelle mani di qualcuno che impugnava il joystick per la prima volta. Gli mostrò invece una cartuccia, dall'aspetto nuovo ma un poco rigato, dicendogli Vuoi giocarci?

Ora, non si trattava di un gioco qualunque. Era una cartuccia di E.T. L'extraterrestre, per Atari. Qualunque appassionato di videogame degli anni Ottanta sa bene che si tratta di uno dei giochi più orrendi della storia dei videogame, un accrocchio di texture e suoni messo insieme in fretta e furia per sfruttare l'onda del successo del film omonimo. Ingiocabile, fastidioso, assolutamente orrendo. Milioni di copie invendute o restituite ai venditori, si diceva, un fiasco che aveva lasciato molta gente completamente sbigottita, ed aveva fatto clamore per questo insuccesso. Ma figuratevi se a Lionel questo importava. Era una cartuccia, era la sua cartuccia, gli bastava quello. Era estasiato dall'idea di poter finalmente giocare ad un videogioco, da solo, senza l'assillo di dover inserire una moneta per ogni partita che iniziava.

C'era però un problema. Lionel sapeva che quella non era una cartuccia per cabinati, aveva visto il gestore del locale mentre cambiava i giochi di quei grossi scatoloni metallici e quella che gli porgeva Stephens era molto più piccola. Ed ovviamente in casa lui non possedeva una console adatta, i suoi possedevano solo un vecchio televisore ed una radio. Al piccolo venne quindi naturale chiedergli “E come ci gioco?”

“So delle condizioni della tua famiglia” rispose Stephens, con voce suadente e tentante “E' per questo che ti voglio aiutare, sono buono io. Questa notte vai all'incrocio tra la quarta e la nona, la casa grigia e piena di inferriate che scorgerai è casa mia. O almeno lo era, io devo partire per lavoro, non tornerò più in questa città, dovrò anche vendere la scuderia, dannazione.” Mordendosi le labbra, l'uomo accarezzò in modo rude la gatta che teneva anche allora in braccio, e poi andò avanti: “Ad ogni modo, ti lascio le chiavi della porta d'ingresso. Dentro troverai una console Atari già collegata al televisore, tutto quello che devi fare è inserire la cartuccia e giocarci.”

Lionel sentì l'alito madido di alcool sul suo collo, ma i suoi occhi erano fissi su quello che lui teneva in mano. L'idea di andare a casa di un quasi sconosciuto per giocare lo lasciava in parte stranito, però in effetti era più comodo così, piuttosto che portare la console a casa sua dove i genitori e la sorella maggiore lo avrebbero riempito di domande. Tra l'altro, forse avrebbero potuto anche lamentarsi dell'elettricità che avrebbe a sentir loro sprecato in quel modo, almeno così la bolletta sarebbe stata pagata da qualcun altro. Pertanto il bimbo rispose solamente questo: “G-grazie mille, signore, davvero... Ma perché devo arrivarci di notte?”

“Questo è il patto, figliolo... Se ci vai di giorno non riuscirai a giocarci, il sistema di corrente è fatto in modo da garantire l'elettricità solo dopo il tramonto, come i lampioni sulle strade. E' una cartuccia... particolare, questa. E' un gioco che vale la pena di essere provato. Capitano cose... curiose, cose interessanti, e sempre diverse da partita a partita, da cartuccia a cartuccia. Ma nulla di terrorizzante, non voglio certo farti piangere. Tutto chiaro? Ci andrai, vero?”

Senza aspettare una risposta, Stephens se ne andò. Lionel non capiva se quell'uomo fosse buono o no, c'era qualcosa nella voce di quell'essere che lo preoccupava, che lo spaventava addirittura... Ma che diamine, aveva un gioco fantasmagorico da provare, non avrebbe atteso un giorno di più. Sgattaiolare fuori da casa sua di notte non sarebbe stato un problema, i suoi andavano a letto presto e la finestra della camera dei ragazzi era priva di vetri, uno dei suoi fratelli lo aveva rotto per caso pochi giorni prima mentre giocavano a chi tirava i sassi più lontano.
 

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E così arrivò la sera, e poi la notte. La rustica campana del paese rintoccava stanca per dodici volte, mentre una figura snella e furtiva si aggirava per le vie deserte. Localizzare l'edificio fu semplicissimo, vi era solo un palazzo che corrispondeva alla descrizione che gli era stata lasciata, e quindi Lionel poté entrare grazie alla chiave. Appena messo piede dentro, provò ad accendere la luce, ma il lampadario era sprovvisto di lampadina. Chissà perché. Ma poco male, pensò il fanciullo, la luna era più che sufficiente per guidarlo verso il televisore, che invece funzionava benissimo. Avrebbe giocato al buio. Così, chiuse silenziosamente le tende delle finestre per non farsi vedere dai vicini, che avrebbero potuto scambiarlo per un ladro, in fondo a lui sarebbe bastata la luce proveniente dall'apparecchio, e poi mise in funzione il tutto. Cartuccia infilata nell'apposito vano, e via con le immagini di introduzione.

La prima schermata, apparsa all'improvviso, lo spaventò. Musica a tutto volume, un ceffo informe che rappresentava l'alieno e che lo fissava attonito... Per lui, che non aveva mai visto in vita sua un videogame su televisione, si trattò di uno spavento non indifferente, e si lasciò sfuggire un gridolino fin troppo poco virile che avrebbe divertito i suoi amichetti. Non una cosa di cui andare fieri. Comunque il suo imbarazzo svanì presto, era da solo, non c'era nessuno che lo osservasse mentre giocava. Assolutamente nessuno, mica era ripreso da telecamere. Non aveva fatto brutte figure, e quindi prese velocemente coraggio e cominciò la partita.

Che bello, poter controllare quell'ammasso di pixel come voleva, si sentiva padrone di quell'entità... Ma il tutto, alla lunga, non si rivelò spassoso come lui sperava. Il gioco era pur sempre E.T. L'extraterrestre, tutt'altro che un'opera d'arte. Lionel passò molti minuti chiedendosi Ma che devo fare in sto gioco?, tra tizi di cui non capiva il ruolo e sezioni del gioco contorte ed assurde. Avere la possibilità di governare il protagonista di una storia è inutile, se non hai la più pallida idea di dove mandarlo, ed i pezzi di diario in cui parla di questa parte sono eloquenti, in proposito. Avrebbe strozzato volentieri quei cosi che gli sfilavano davanti, rendendo la sua partita un vero calvario. Infatti, lui riporta che non passò molto tempo, prima che il suo personaggio cascasse in una delle buche disseminate per i livelli, cosa che lo fece arrabbiare non poco.

Adesso, normalmente il gioco prevedeva che il personaggio controllato dal giocatore risalisse dalla fossa, perdendo nel frattempo parte del punteggio. Solo che stavolta non accadde nulla di tutto ciò. Le immagini davanti a Lionel si facevano frastagliate, come una sorta di enorme glitch, e mentre il suono diventava piatto ed assordante comparvero ai suoi occhi alcune lettere e numeri.
 

12 860
Patròn Negro
 

Dopo di che, il gioco crashava, con quel suono spaccatimpani che si ripeteva all'infinito, mentre lo schermo rimaneva fisso su quel fotogramma di gioco.

A quella visione, Lionel rimase di stucco, mentre suoni e colori gli rimanevano impressi in mente. Non era un problema del televisore, l'apparecchio era nuovo e quelle lettere erano perfettamente visibili, l'immagine quindi non era disturbata da quella. Però quel rumore era insopportabile, ed allora si trovò costretto a staccare la spina, per poter risparmiare quel supplizio alle sue povere orecchie.

Una volta ritornato nel mare del silenzio, cominciò però a rimuginare su quello che aveva appena scorto. Cosa significavano quei numeri? Alla sua tenera età sapeva a malapena leggere, e cifre tanto alte non ne aveva mai ammirate sulla lavagna della maestra. Forse erano soldi? Ma non c'era nessun simbolo del dollaro a fianco. Forse era qualcos'altro, allora? Vai a saperlo.

Però non brancolava nel buio assoluto, il nome sotto ai numeri era tutt'altra cosa. Patròn Negro non gli suonava nuovo, anzi. Si trattava del soprannome di un vecchio locandiere che gestiva un negozio alla periferia della cittadina, ispanico come lui, chiamato così per via della lunghissima chioma scura e della folta barba irsuta che coprivano quasi tutto il suo volto, e dei peli scimmieschi che gli arrivavano fino ai polsi. Poco socievole, in realtà, la maggior parte delle persone del paese lo evitava anche perché si diceva che avesse rapporti poco puliti con persone di cattivo nome. Eppure, se c'era il suo nome nel videogioco allora la cartuccia era sua, pensò Lionel, magari l'indiano gliel'aveva rubata. E anche se non era così, poco cambiava: lui sapeva certamente cosa significava quel messaggio, visto che si riferiva a lui. Gliel'avrebbe restituita il pomeriggio seguente, concluse il bambino.
 

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E così fece. L'indomani, spinse la porta del negozio, e chiese del padrone, spiegandogli l'accaduto. Gli descrisse dell'incontro con Stephens, sorprendendosi però come l'uomo non gli stesse prestando molta attenzione, come se quella storia non fosse nuova per lui. Gli aveva sbadigliato in faccia. Ed il fanciullo pensò addirittura che l'altro sapesse che lui sarebbe venuto, cosa assurda. Però le cose cambiarono quando Lionel passò a descrivere la sua partita.

”Che numero c'era sopra?” gli chiese infatti il titolare, brusco, senza nemmeno attendere il termine del racconto. Lionel fece uno sforzo di memoria, e nonostante un paio di titubanze riuscì a rammentarsi le cifre esatte.

“Uhmm... Capisco.” commentò l'uomo barbuto, prima di aggiungere: “Ti va di fare un gioco? Vedi, a me questo sembra un codice segreto, qualcosa che può condurti ad un favoloso tesoro.”

“Davvero?”

“Davvero, credimi.” rispose il Patròn, con una voce che in verità ispirava tutto tranne che fiducia. L'uomo stava cercando di sorridere per rassicurare il fanciullino, però a quanto pare il risultato lasciava a desiderare. Ma poco importava, un bambino piccolo e vispo come quello non aveva bisogno di spiegazioni o di incitamenti, Lionel non ebbe alcuna difficoltà a crederci. “Però dobbiamo recuperare il codice completo. Questo è solo una parte.”

“E come facciamo?”

“Stephens diceva che le cose cambiano da cartuccia a cartuccia, dunque dobbiamo trovarne altre... Sai dove si trova la discarica, vero?”

Lionel annuì, e l'altro proseguì: “Dicono che da quelle parti stiano nascondendo cartucce, e tante... Sotterrate sotto una montagna di terra e calcestruzzo, in modo da non essere mai recuperate. Ma suppongo che qualcuna sia rimasta fuori, alla luce del sole. Devi recarti là, ripescarne un po', e poi giocarci a casa del dottore per scovare le cifre mancanti. Il punto preciso te lo dico io, mi hanno raccontato dove è il punto preciso in cui cercare... Mi raccomando, però, vacci di notte, se il custode ti scopre sono guai seri.”

Lionel obbedì, prontamente. Era entusiasta dell'idea, anche se in testa gli ronzava un non so che di disagio. Quella era la sola cosa che gli passava per la mente, non toccò neppure un boccone, a cena, non vedeva l'ora di andare alla discarica. E non appena le tenebre avanzarono, lui volò via da casa sua come un pipistrello dalla sua caverna, in cerca della sua preda. Scavalcate le recinzioni grazie ad un buco trovato chissà come, Lionel iniziò a girovagare per i cumuli di rottami.

Ma come trovare ciò che cercava? Cioè, come dissotterrare le cartucce? Lui aveva portato una pala con sé, ma non era forte a sufficienza per usarla come si deve. E poi c'erano i custodi e gli addetti al lavoro, potevano notarlo. Se non ci fossero stati, se fossero morti, se qualcuno li avesse uccisi... Lionel pensava che sarebbe stato più semplice. Ma anche così, come aveva fatto il Patròn a commettere un simile errore? Poi però giunse al punto che gli era stato suggerito, vicino ad un ammasso di vecchie carrozzerie arrugginite per auto, e lì scorse una grossa scatola con scritto sopra il suo nome. Strano, stranissimo, troppo anche per l'ingenuità di quel fanciullo. Il quale, però, aprì per istinto l'involucro marrone e si trovò davanti numerose cartucce. Sei, sette... Dieci pezzi di plastica dorata in tutto. Tutte di E.T., come per un grottesco scherzo del destino.

Lionel raccolse da terra quella scatola grossa ma leggera, inciampando e cadendo per colpa di una lattina vuota lì vicino, e quindi si precipitò a casa di Stephens. Per giocarle tutte ci sarebbe voluto tempo, ma si era armato di carta e penna, per segnarsi tutti i dati.

Anche se... Avviare il gioco ogni volta, impegnarsi per cadere nella buca ogni volta, perdere ogni volta... Lo metteva a disagio. Che roba, non provare a vincere. Frustrante, gli pareva di giocare ad una versione maledetta del gioco, dove il Game Over diveniva il suo obiettivo, il suo destino, e non era qualcosa da evitare, anzi. Ma al tempo stesso gli avevano detto che quei numeri erano importanti, e disobbedire non gli sembrava il caso. Così cominciò a trascrivere ogni cifra che faceva capolino sullo schermo quando la partita crashava, e non si mosse dalla sudicia poltrona per ben tre ore. Era ipnotizzato da quei numeri disegnati in maniera tanto squadrata e poco elegante, ed anche se i suoni altissimi causati dai continui crash gli sfondavano le tempie lui proseguiva.
 

11 490
02 490
05 500
01 990
03 1200
07 290
08 0
10 650
06 300
09 800
 

Una volta terminate le cartucce, Lionel era stremato, gli bruciavano gli occhi, gli girava il capo, aveva quasi le convulsioni. Non era abituato a sessioni di gioco tanto lunghe, senza nemmeno una pausa. Fuori intanto pioveva, fatto insolito per una cittadina desertica come Alamagordo. Pioveva, anzi diluviava, anzi tempestava. Tuoni e fulmini imperversavano per le strade di quel paesello, impossibile chiudere occhio con quel fracasso, anche se lui moriva dal sonno. Ed andare a casa sotto quell'acquazzone, senza ombrello... Fuori questione. Il fanciullo aveva mal di testa, era rimasto a meno di mezzo metro dalla televisione per tre ore, e rimirando quelle cartucce, con il volto di E.T. sopra... Quei volti deformi parevano quasi distorcersi ancora di più davanti ai suoi occhi. Un'immagine piangeva, un'altra gridava di dolore, un'altra ancora rideva deridendolo. Dieci piccole cartucce che parevano dieci piccoli demonietti, dieci mostriciattoli dispettosi che lo facevano disperare... Che andassero alla malora. Lionel si sentiva diventare sempre più cattivo, ogni volta che prendeva in mano il joystick per giocare con quell'apparecchio.
 

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Alla fine comunque venne l'alba, e smise di piovere. Il piccolo aveva giusto il tempo di tornare a casa, tornare nel letto prima che tutti si svegliassero, afferrare i libri prima che i genitori gli facessero domande scomode, e poi andare a scuola. Non che ormai gli importasse tanto di matematica ed inglese, lui passò tutta la mattina con uno sguardo assente senza dare manco un'occhiata a quello che la maestra gli diceva. A fine lezione, Lionel decise di non stare lì un minuto di più e di riferire tutto e subito al Patròn Negro, e quindi corse veloce da lui. Tutto felice, salutò il negoziante e gli diede orgoglioso il foglio, ma fu sorpreso di vedere come il volto dell'uomo cambiò dopo due secondi. Era arrabbiato, furibondo.

“Manca un dato.”

“Davvero?”

“CERTO!” gridò lui, a dir poco furioso, agitando i pugni con gli occhi iniettati di sangue “Li hai controllati tutti quegli affari, no?”

“S-Sì... Erano dieci, e io ho scritto dieci numeri...”

“E allora ne hai saltata una! Fila via, se non vuoi che ti faccia passare la voglia di scherzare!”

Lionel ebbe paura che il Patròn stesse per prendere il fucile che teneva sempre dietro il bancone, e scappò fuori dal negozio. Voleva tornare alla discarica, subito, senza aspettare la notte, forse aveva dimenticato una cartuccia. Se mancava un numero allora doveva mancare una cartuccia, non poteva che essere così. Non era forse inciampato mentre trasportava la scatola? Una di quelle scatoline poteva essergli caduta, in quel momento, anzi ora che ci pensava gli sembrava di aver sentito un piccolo tonfo, in quel momento, solo che lì per lì non gli era venuto in mente come mai l'avesse udito. Era l'unica spiegazione logica.

Solo che durante quell'affannosa corsa fu fermato prima da un amichetto, un altro bambino figlio di immigrati, che gli chiese cosa gli era successo. Lionel era infatti sbiancato in volto, gli occhi sbarrati pallido come un cencio. E nonostante questo, questo non voleva dare spiegazioni, tanto che l'altro lo prese per il braccio per chiedergli come stava e che cosa gli stesse accadendo. Lionel lo avrebbe colpito in testa, se non lo avesse lasciato andare... E lo avrebbe fatto davvero, se un poliziotto non si fosse avvicinato a loro per controllare che fosse tutto a posto.

“That's... O.K., Yankee.” rispose l'amico di Lionel, diffidente di quell'agente americano. La polizia non era benevola con i peones, quindi evitare seccature con loro era vitale. Certo, il suo era un inglese decisamente sconnesso e stentato: il th all'inizio di that's sembrava più che altro una semplice e rotonda, ed il suono di tutta la sua frase aveva un che di bislacco, una pronuncia che tanti avrebbero definito scorretta.

L'agente di polizia tentennò, ma poi li lasciò stare, allontanandosene. L'amichetto si girò allora verso Lionel, ma questo non c'era più. Stava correndo via da lui, e l'altro cercò inutilmente di chiamarlo.

“Lionel! LIONEL!!!!”

Lionel era con la testa già alla discarica. Non pensava al come entrare, al come evitare i custodi e gli addetti. Tutto quello che gli interessava era trovare quella cartuccia maledetta. Entrato tramite lo stesso pertugio della notte prima, agile come una faina, si intrufolò tra un inserviente e l'altro, senza farsi notare. Sarebbe stato un bravissimo ladro se si fosse applicato, pensò lui lì per lì. Ma arrivato a questo punto, ferito nell'orgoglio... avrebbe ucciso, pur di mettere le mani sull'oggetto dei suoi desideri. Piuttosto che tornare ad osservare gli altri che giocavano e che vivevano, avrebbe sopportato anche le lavate di capo del Patròn Negro. Diventare grandi significava anche questo, confabulò tra sé e sé.

Ed una volta trovato il punto esatto, esultò alla vista di una scatoletta. Era lì, la cartuccia mancante era rimasta davvero lì, uno scherzo del diavolo gliel'aveva fatta effettivamente cascare la notte precedente. L'etichetta sulla plastica era totalmente scolorita, colpa della pioggia del giorno prima, ed il disegno sopra di essa era ormai quella di un mostro informe dagli occhi terrorizzanti, e non più quella dell'alieno dolce e tenero conosciuto di tutti. Un'immagine funesta e messaggera del contenuto della cassetta che lo attendeva, ma lui manco ci badò. La afferrò dunque rapido tra le sue mani, e custodendo gelosamente il suo tesoro si dileguò, in attesa che si facesse nuovamente notte.

Lionel si sentiva strano, sentiva che c'era qualcosa di anomalo dietro quelle cartucce. Caccia al tesoro? Non ci credeva più neppure lui, oramai, era consapevole di essere dietro qualcosa di grosso, qualcosa forse di più grande di lui. Ma non voleva uscirne. Dopo tutti quei mesi passati a vedere gli altri giocare, ora toccava a lui. E non si trattava solo di una partita ad E.T. L'extraterrestre. Era qualcosa di molto più grande. Per la prima volta, stava giocando a fare qualcosa di importante la sua vita, costi quel che costi. Giocare con quella console era una droga, il segreto nascosto dietro quei pochi byte erano divenuti la sua più grande ragione per cui esistere, e nessuno gliel'avrebbe mai sottratta.

Per comprendere tutto ciò, basta leggere le ultime parole che lui scrisse sulle pagine che usava come diario, compilate dopo aver giocato all'ultima copia: Ci siamo, 04 2900. Ecco che cosa mancava. Qua in questa casa c'è anche un telefono, per fortuna, così ho chiamato il Patròn Negro, mi aspetta adesso a casa sua. Non avevo voglia di aspettare domani, ed anche lui pare impaziente. Sono stato bravo, ho la stoffa. Mi sento così vivo, sto così bene... Mi sentivo un ladro, mentre passavo tra quei cumuli di immondizia sotto il naso di quei fessi... Sono dotato, sono grande. […] Potrei fare perfino il gangster, trasferirmi nelle grandi città del nord, Chicago, New York... Diventerei ricco, la mamma sarebbe fiera di me. Sarei l'Al Capone del 2000, mi farei soprannominare “El Marciano”, ormai di alieni ne sto vedendo davvero fin troppi... […] Ma ora... Non vedo l'ora di sapere cosa succederà adesso, dopo che gli avrò dato tutti i numeri che servivano... Finalmente... Ucciderò i personaggi dei videogiochi per tutta la vita, finché ne avrò voglia... La mia noia sarà ammazzata per sempre...”
 

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Non sapremo mai cosa successe quella notte a casa del Patròn Negro, Lionel non scrisse nulla a riguardo. Il resto della storia ci viene infatti raccontato da altri documenti, ossia i rapporti della polizia. E quello che sappiamo sui protagonisti di questa storia non ci lascia molte speranze.

Sia il nostro piccolo amico che il negoziante sparirono da Alamagordo quella stessa notte, e nessuno seppe che fine avevano fatto. Le ricerche della polizia in questo senso furono del tutto infruttuose, anche se il sangue copioso ritrovato nell'abitazione dell'uomo di mezza età fecero immediatamente pensare ad un tragico e macabro epilogo. Un infanticidio, tutto lo lasciava supporre, anche se non fu mai ritrovato nessun corpo. Si sa solo che la macchina del Patròn era scomparsa dal garage, e che le desertiche vallate circostanti sono vaste. Troppo vaste.

Discorso diverso per quanto riguarda il Dottor Stephens. Alcuni fogli del diario del piccolo furono trovati in un cespuglio, fuori dalla porta della casa del Patròn. Fortunata coincidenza, forse al bambino erano caduti prima di entrare, o forse Lionel aveva il sentore che stesse per accadergli qualcosa di grosso e li aveva riposti in quell'angolo sicuro. Su quelle pagine si parlava del medico, del rapporto che legava i tre, e perciò divenne prioritario ritrovarlo, visto che aveva lasciato il paese. Rintracciarlo fu difficile, aveva fatto davvero perdere le proprie tracce, ma fu identificato e bloccato vicino al confine con il Messico, grazie proprio alla gatta che si era messa a miagolare nervosamente vicino ai cani delle forze dell'ordine. Che ironia.

Ricondotto ad Alamagordo, dopo che fu interrogato e messo sotto torchio per ore alla fine crollò. Confessando qualcosa che gettò i genitori di Lionel nella più profonda disperazione.

Sia Stephens che il Patròn appartenevano ad una più vasta organizzazione criminale, che gestiva riciclaggio di denaro sporco, estorsione ad imprese e grosse truffe ai danni di banche ed altri istituti finanziari di tutto lo stato del New Mexico. Quelle cifre, in particolare, servivano ad informare il Patròn del flusso di denaro sporco previsto per l'anno che stava per iniziare, segnato in migliaia di dollari e diviso per mese, che era indicato dalle prime due cifre di ogni codice.

Ecco perché il negoziante sapeva che mancava una cartuccia, Lionel gli aveva dato solo undici codici. Stephens riteneva a ragion veduta di essere pedinato dall'FBI, e quindi aveva pensato a quella maniera originale per passare quei dati sensibili al suo complice. Contattare direttamente il suo compagno di merenda poteva tradirlo, comunicazioni a voce o per telefono potevano essere intercettate, scrivere il tutto su pezzi di carta avrebbe lasciato in giro prove pericolosissime... Ed allora perché non ricorrere a quelle cartucce buttate lì, in discarica? Nessuno le voleva più, d'altra parte. Hackerarle, modificare il software all'interno, inserire quei numeri affinché apparissero al momento opportuno. Tanto i videogiochi sono roba da mocciosi, dei poliziotti grandi e grossi non ci avrebbero mai giocato, era questo che pensava...

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Gli fu chiesto che era stato di Lionel e del Patròn, e la sua bocca si allargò a dismisura formando un bieco sorriso, deforme e tipico più di una bestia che di un umano. Con un filo di voce, con un tono alterato e perfido, lui fece questa allusione: “Non so cosa sia accaduto al mio compare, sarà stato preso dal panico, sarà scappato da qualche parte. Però so che cosa doveva succedere al moccioso, il nostro piano aveva calcolato tutto. In fondo quel piantagrane era un testimone, e voi sapete cosa succede ai testimoni, non è vero?”

E scoppiò in una fragorosa risata. Risata che fu interrotta solo quando Stephens si sentì trascinar via. Se ci fossero stati i genitori di Lionel lo avrebbero ucciso all'istante, invece erano solo gli agenti di polizia, che lo stavano conducendo in cella. Allora capì quello che gli stava per succedere, e con sguardo preoccupato si confidò con i poliziotti, chiedendo loro: “Ma alla mia gattina chi ci pensa, ora?”

Intanto la gatta osservava la scena divertita, e le sue vitree pupille feline contemplavano il Male. Ma non solo quello che era dinanzi agli occhi di tutti.
 

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Alcuni anni dopo, stato dell'Illinois.

Un uomo appartenente ad una grossa gang criminale viene arrestato, con l'accusa di essere l'esecutore di una lunga lista di omicidi e regolamenti di conti. Gli viene chiesto chi ne è il mandante, ma lui afferma di non conoscerne la vera identità. Gli agenti insistono, puntandogli la violenta luce della lampada dritta in faccia, e lui risponde solo poche parole. Come sicario aveva la fama di essere uno dal sangue di ghiaccio, ma in quell'attimo era semplicemente impietrito, terrorizzato da quello che gli sarebbe successo se avesse parlato troppo. Dunque, disse solo questo:

“Davvero, non lo so... Alcuni lo chiamano solo El Marciano... Ma io non so neanche perché...” 
 

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Potrà anche sembrare strano, ma questa è anche una parodia, ovviamente lascio a voi il piacere di scoprire a cosa alludo. Consideratela una specie di CreepyPasta abbastanza lunga, da leggersi con un certo piglio, non lentamente, anzi. Per dubbi e domande di ogni tipo, recensite pure.

  
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