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Autore: Milla Chan    04/04/2014    2 recensioni
Storia di un'amnesia, di luce, incompletezza e pilastri di vita.
"Poi il suono della frenata brusca, le gomme che inchiodavano sulla strada, e il clacson, il cuore che era sobbalzato per lo spavento e la scena che era rimasta impressa a fuoco nei suoi occhi come un marchio incandescente quando si era voltata indietro. L’asfalto era rosso e per un lunghissimo mese e mezzo aveva solo visto le sue palpebre chiuse e una linea sul monitor che segnava i battiti del cuore."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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-Di cosa hai bisogno?-
Un viso dolce le sorrideva e le stringeva la mano.
-Di un altro po’ di tempo con te.-
La vide chinare la testa e ridere imbarazzata. Provava una sensazione intensa e avvolgente, calda, accogliente, anche grazie alla temperatura tiepida della serata estiva, il cielo limpido e le stelle che catturavano il loro sguardo.

Sentì le gambe cedere e tutto attorno a sé sembrò capovolgersi.
Aprì gli occhi trattenendo il respiro e una bianchezza irreale le annebbiò la vista, tanto da farle socchiudere le palpebre pesanti.
Un sogno?
Lo sterno le doleva e non capiva dove fosse, da che parte fosse girata. Sentiva la testa pulsare e cercò di muoversi, ma si accorse di non avere neanche la forza di alzare le braccia. Vedeva solo figure sfocate, biancastre, e udiva distintamente un suono acuto e regolare perforarle i timpani.
-Dove…?- bisbigliò con voce sottile, dopo minuti lunghissimi a guardare il nulla con gli occhi socchiusi.
Una figura si mosse alla sua destra e voltando appena la testa distinse in modo più o meno chiaro una signora sorriderle affabile. -Come ti senti? Hai dormito un bel po’…-
Passò qualche attimo a fissare la donna senza vederla davvero.
-Dove sono?- chiese ancora.
-Sei in ospedale.- le rispose con lentezza.
La ragazza nel letto aggrottò la fronte e cercò di mettere a fuoco la sagoma dell’infermiera, che finì di aggiustare le tende e le si avvicinò per controllarla.
-Perché?-
-Hai avuto un incidente.- le spiegò, cercando di non farla agitare. -Un mese e mezzo fa.-
La ragazza sgranò gli occhi e sentì la testa pulsare allo stesso ritmo del persistente suono acuto che aveva nelle orecchie. Deglutì e fissò il soffitto a lungo, non comprendendo ancora completamente ciò che le era stato detto. Poi fu un attimo, e capì che quel suono acuto era il battito del suo cuore. Spostò gli occhi a sinistra, vide il monitor, e qualcosa iniziò a muoversi nella sua mente.
 -…Non te lo ricordi?- aggiunse con un velo di apprensione l’infermiera.
La ragazza guardò il suo viso e scosse la testa, confusa. -Che giorno è?- bisbigliò.
L’infermiera si chinò verso di lei e le posò qualche carezza debole sul dorso della mano.
-Oggi è mercoledì 5 marzo 2014. Il 20 gennaio hai avuto un incidente stradale, oltre al trauma cranico hai tre costole incrinate e qualche frattura.- elencò con calma. -Sei stata in coma farmacologico per due settimane, dopodiché abbiamo interrotto i farmaci e oggi ti sei svegliata. È la prima volta che sei cosciente dopo tanto tempo ed è assolutamente normale che tu ti senta confusa, non preoccuparti.-
Le sorrise e camminò fino alla porta, voltandosi indietro prima di uscire. -Ora vado a chiamare il dottore, va bene? Stai tranquilla.-
La ragazza fissò i vetri senza capire. Quella sensazione di irrealtà era troppo strana e spiacevole.
L’ansia le arpionò il petto tutt’a un tratto e la testa le doleva tanto che pensava che sarebbe bastato scuoterla per dare di stomaco. Rimase sola nella stanza e provò a prendere un respiro profondo, interrompendosi quando sentì una fitta fastidiosa al costato. Posò lo sguardo vacuo sulle pareti trasparenti della stanza vuota, sui macchinari strani, fino ad abbassarlo sulle braccia magre e rosse di graffi e escoriazioni.
Non sapeva che ora fosse, ma il cielo era nuvoloso e nonostante ciò la stanza era inondata di luce. Aveva la testa pesante e vuota nello stesso tempo, non riusciva a pensare. Si sforzò, si impose di ricordare cosa fosse successo, di calmare i battiti del cuore, ma sentiva solo pesantezza e un grande e insopportabile nulla, in una bolla fuori dal mondo. Vide due figure camminare al di là delle pareti di vetro, nel corridoio, e subito entrarono un signore in camice bianco e la stessa infermiera di poco prima con una cartella e una biro tra la mani.
-Ciao.- la salutò il dottore con un piccolo sorriso. Si fermò ai piedi del letto, l’espressione pacifica tradita da una piccola ruga di serietà sulla fronte.
Lei rispose debolmente al saluto e rimase in attesa. L’unica cosa che sapeva con una discreta certezza era di essere in un ospedale e di non avere la benché minima idea di come ci fosse finita: poteva forse spiegarlo? Lo sapevano? Cosa doveva fare?
-Bene, adesso ti farò qualche domanda. Partiamo con quella meno difficile: sai come ti chiami?- chiese con calma.
-Lia.- rispose schiarendosi la voce.
-Molto bene. Sai  la tua data di nascita? E gli anni?-
-Maggio…- mormorò prima di interrompersi per un breve momento. Si riscosse improvvisamente, come se le fosse venuto in mente qualcosa di importante. -Venti maggio, ho sedici anni.-
-Perfetto.- continuò scribacchiando sui fogli. -Che scuola frequenti?-
Lia aprì la bocca per rispondere, ma si bloccò e il cuore che si stava acquietando tornò a battere più furiosamente di prima. Aggrottò la fronte ed emise un verso strozzato.
 -Non lo so.- bisbigliò confusa.
-Va bene.- il dottore inarcò le sopracciglia e chinò la testa da un lato, senza alzare la testa dal foglio. -E sai dirmi dove si sono svolte le Olimpiadi invernali di quest’anno?-
Lia lo guardò come se avesse appena detto qualcosa di terribile. Le tempie le facevano male per lo sforzo, ma nella sua testa non sentiva niente. Assottigliò gli occhi e scosse il capo, disorientata. -Non ne ho idea.- mormorò vaga, dopo un lunghissimo minuto di silenzio.
Nulla affiorava nella sua memoria. Era una sensazione inspiegabilmente terrificante, che mal si conciliava con il già fastidioso disordine che aveva nella mente, eppure il dottore annuì per l’ennesima volta mentre finiva di scrivere.
Non furono ore piacevoli. Le fecero domande sulla sua vita, i suoi genitori, le sue relazioni e su fatti e avvenimenti celebri, alcuni dei quali non sapeva che fossero accaduti. Perse il conto delle volte che rispose con un vergognoso, afflitto e debole “Non lo so”. Facevano le stesse domande a distanza di pochi minuti e si sentiva stupida e confusa ogni volta che non ricordava chiaramente cose dette poco prima o che, a quanto pareva, erano più che ovvie.
-Molto bene.- sospirò infine il dottore, rientrando nella stanza dopo averla lasciata da sola per un tempo che le era parso infinito, durante il quale il dormiveglia si era impadronito di lei.
L’uomo ripose la biro nel taschino e diede la cartella all’infermiera prima di infilare le mani in tasca.
-Sembra proprio che tu sia affetta da amnesia retrograda. Ciò significa che la tua memoria dichiarativa episodica è stata danneggiata e, in parole povere, non ricordi i fatti accaduti prima del trauma. Il tuo periodo di vuoto si estende per circa cinque o sei anni. Invece non mi sembra che tu abbia problemi gravi o particolari nella memorizzazione di nuove informazioni, il che mi lascia abbastanza stupito dal momento che in generale è molto più comune il manifestarsi di un’amnesia anterograda piuttosto che retrograda.-
Lia lo guardò capendo meno della metà di ciò che aveva detto.
Non poteva essere reale, nulla di quello che era successo fino ad allora poteva esserlo davvero. Non sapeva assolutamente niente di cosa fosse successo negli ultimi sei anni della sua vita? Che razza di assurdo sogno era? Quando arrivava il momento di svegliarsi?
Persone, eventi, scuola, tutto era andato. Quasi riusciva a rendersene conto. Gli ultimi ricordi sfumavano con la fine della scuola elementare e non aveva idea di cosa fosse successo per il resto del tempo. Era come aver giocato a un videogioco e aver spento senza salvare, come schiacciare per sbaglio il pulsante reset, buttare accidentalmente nel camino un plico di documenti importanti. Sentiva un insopportabile miscuglio di rabbia e tristezza, e la sensazione di aver perso qualcosa di tremendamente importante.
-Ora andrò a chiamare i tuoi genitori, penso arriveranno per l’orario di visita, che va dalle 19 alle 20.30. Mi hai detto che ti ricordi i tuoi genitori, vero?-
Lei annuì, titubante. Cercò di convincere se stessa che non tutto era stato buttato via, non era tutto perduto. Sul suo volto tuttavia apparve una smorfia addolorata, improvvisamente conscia di un dettaglio poco trascurabile, cioè che le loro facce non erano ben delineate nella sua testa, erano poco chiare, nella nebbia.
Il dottore indugiò su di lei con lo sguardo, prima di chiudere la porta dietro di sé.
Lia tornò nel silenzio e nel vuoto. Era frustrante e c’erano davvero troppe, troppe cose da mettere a posto. Le sembravano una montagna insormontabile, che la schiacciava e la soffocava. Deglutì a fatica e si rese conto di respirare sempre più faticosamente a mano a mano che il tempo avanzava. Continuava a non sapere che ore fossero e ciò la faceva sprofondare in uno stato del tutto simile al panico, che sfociò in una semicoscienza insopportabile e atroce.
Le dita delle mani era gelide e una nausea troppo forte per farla muovere la immobilizzò nel letto, come se fosse stata una statua. Spostò lo sguardo tremante verso la porta e le pareti di vetro, con la paura e la speranza che qualcuno si fermasse, la guardasse e la facesse star bene.
Non voglio stare qui, pensò con intensità e angoscia. Non voglio stare qui, non voglio stare da nessun’altra parte, non so cos’è successo, non so cosa fare.
La porta di aprì piano e uno spasmo al petto la fece smettere di respirare per un attimo. Entrò una donna e dal modo in cui si portò una mano alla bocca intuì che fosse sua madre.
Si decise a guardare in faccia lei e l’uomo entrato dopo di lei, cercando di rimettere al proprio posto ogni tessera del puzzle sparpagliato nella sua mente. Entrambi indossavano un camice verde, cuffietta e copri scarpe.
I volti dei suoi genitori erano strani, diversi da come apparivano dei ricordi di quando aveva dieci anni. Sembravano invecchiati, tutt’a un tratto.
-Come ti senti?- chiese la madre trattenendo le lacrime.
Dopo aver sospirato un infantile mamma, Lia non seppe più cosa dire. Non riuscì neanche a rispondere a quella semplice domanda. Pensò solo che voleva abbracciarla, ma non ne aveva la forza e tutti i tubicini e i fili attorno a lei glielo impedivano.
-Il dottore ci ha spiegato la situazione.- iniziò con calma il padre, stringendole la mano mentre la moglie si aggrappava al suo braccio. -Non devi essere pessimista, è possibile che possa tornarti la memoria, una volta che il trauma si sarà riassorbito. Per aiutarti, possiamo farti parlare con gli altri membri della tua famiglia, gli amici, farti vedere fotografie…-
Il nodo di ansia che le stringeva la gola e sembrava essersi allentato, tornò d’improvviso a strangolarla. Non era ancora pronta ad affrontare tutti quegli anni persi, la stavano trattando con una calma spiacevole che le faceva presagire un’impazienza che la terrorizzava. Nel loro tentativo di non farla sentire malata, l’effetto che suscitavano in lei era l’esatto opposto.
-… Sarai anche seguita da uno psicoterapeuta e ci sono tante persone che possono aiutarci.-
Aiutarci?
Lia voltò il viso verso la finestra, scivolando lungo il cuscino.
-Ho mal di testa.- mormorò con tono basso. Le sembravano passati anni dall’ultima volta che aveva visto i suoi genitori, ma qualcosa nel suo cuore la faceva sentire gelida, bloccata e incosciente.
-Immagino, tesoro, sei sveglia da così poco!-
Lia chiuse gli occhi e si toccò la fronte, ma ritrasse la mano quando incontrò gli elettrodi. C’era qualcosa di lei che non fosse collegato a un tubo o a una macchina?
-…Scusatemi, ho solo voglia di dormire.-
-Oh, va bene!- replicò immediatamente la madre, apprensiva. -Devi essere ancora stanca e confusa, piccola mia! Dirò agli zii e alle tue amiche di ripassare domani, ora è troppo presto…-
La ragazza sentì un brivido scuoterla e quasi sussultò. Amiche? Amiche. Quali amiche? Aveva delle amiche che erano venute a trovarla in ospedale. Com’erano? Chi erano? Che amici si era fatta?
-Voglio vederle.- disse con voce bassa e agitata, quasi come una piccola scongiura.
La madre la guardò stupita e cercò gli occhi del marito, che alzò le spalle: -Le amiche? Sicura? Allora… vado a chiamarle?-
Un bacio della madre si posò sulla sua guancia. -Non ti sforzare e riposati bene, mi raccomando, se hai bisogno che domani ti portiamo qualcosa noi siamo qui vicino.-
Lia li salutò con un sospiro e osservò i vetri con impazienza. Poco dopo, la porta si aprì di nuovo ed entrò un gruppetto composto da quattro ragazze, anche loro vestite con i camici e tutto il necessario, come i genitori. Due di loro le mostrarono un sorriso ampio, mentre le altre due lo accennarono con fatica. Si affrettarono ad avvicinarsi al letto, parlottando fitto, e le si distribuirono attorno.
-Come stai?-
-Volevo portarti dei fiori…!-
-Posso abbracciarti? O ti fanno male le costole? Ti sei rotta pure quelle, vero?-
-Insomma, hanno detto chiaramente di non fare casino!-
Lia fu travolta dal fiume di parole delle prime due ragazze,  tanto da far fatica a capire da dove provenissero le voci. Le guardò stordita e cercò un modo per infilarsi nel discorso, calmarle, ma fu grata che la terza ragazza l’avesse fatto al posto suo. Dovette ammettere di essere profondamente delusa: credeva davvero che, vedendo quelle che a quanto pare erano le sue amiche, si sarebbe d’improvviso ricordata di loro, di altri episodi, della scuola e tutto il resto, come nei film. Eppure, ai suoi occhi sembravano solo delle rumorose sconosciute e non seppe davvero cosa fare.
-Ma state un po’ zitte, non vedete come ci guarda spaesata? È ovvio che non si ricorda di noi.- la quarta ragazza interruppe le altre due quando ricominciarono a parlare, dicendo qualcosa sulla sua faccia emaciata. La terza annuì con un’espressione seria e prese la parola:
-Cominciamo con calma: io sono Dalila. Guardami bene e cerca di immagazzinare le nuove informazioni, devi ricordarti di noi.-
Lia si sentì in qualche modo intimorita e rassicurata dal suo modo di parlare così ben marcato e serio. La osservò bene e cercò di ritrovare, da qualche parte nella testa, il ricordo di quelle labbra sottili.
Aguzzò lo sguardo e si portò inconsciamente una mano alla testa, mentre la prima ragazza ricominciava a parlare:
-Io invece sono Irene.- scandì chiaramente, forse con un tono troppo alto, chinandosi verso di lei e prendendole la mano mentre le mostrava un gran sorriso. -Siamo tutte nella tua scuola! Dalila è in classe con te, Beatrice e Lara sono in un’altra sezione, ma hanno la tua stessa età, mentre io ho un anno in più. Mi segui?-
Lia aspettò di elaborare le informazioni prima di annuire, assorbendo anche il suo aspetto, la faccia tonda sulla quale brillavano dei bellissimi occhi verdi.
-Sono io Lara, comunque.- si intromise la seconda ragazza, quella bassina che avrebbe voluto portarle i fiori.
-E ovviamente Beatrice sono io.- concluse la terza ragazza, sotto la cuffietta della quale sbucavano alcuni ciuffi di capelli mossi e fulvi.
Lia sorrise appena. Oltre che rumorose, trovava che fossero persone simpatiche e semplici, molto carine, dopotutto. Le dispiaceva di non sentire niente guardando i loro volti. A dir la verità, l’unico che aveva guardato con attenzione era stato quello di Dalila, dopodiché il suo livello di concentrazione era inevitabilmente crollato.
Sarebbe stata capace di ricominciare? Di ricordare grazie a loro? Sembrava così difficile…
Voltò il capo con un movimento strano e, senza preavviso, fu totalmente assorbita da un profumo simile alle more e ad altri frutti di bosco, che le fece girare la testa più forte di quanto già non facesse. Fu un fulmine a ciel sereno, come se fosse caduto un vaso di porcellana dentro il suo petto, sentì qualcosa rompersi e liberarsi per inglobarla e strattonarla con forza. Guardò la ragazza coi capelli fulvi socchiudendo le labbra e le sembrò che un’idea, un concetto non ben definito premesse al centro della sua fronte, tormentandola. Il profumo proveniva da lei e non capiva se stesse ricordando o soltanto morendo. Non c’erano immagini, in quel suo embrione di ricordo, ma una sensazione intensa, calda, accogliente, che la avvolgeva come una coperta. Più guardava le lentiggini sul suo naso più le sembrava di sentire i rumori di una notte estiva e limpida.
Beatrice ricambiò lo sguardo: -Stai bene?- chiese con calma, sfiorandole la mano.
Lia scivolò più in basso nel cuscino, continuando a fissarla con gli occhi sbarrati. Il contatto con la sua mano le provocò una scossa che dalla testa si diffuse in tutto il corpo, la spiazzò e pensò che il sogno che aveva fatto prima di svegliarsi quel pomeriggio (quando, esattamente, nel mese e mezzo che aveva passato dormendo?) non era stato un sogno fantastico, non era un ambiente ideale o creato dalla sua testa. Il viso dolce era di certo quello che aveva davanti, quella ragazza doveva essere lei. Beatrice, Beatrice!
-Beatrice.- ripeté a voce alta, allungando un braccio verso la sua guancia chiara. Lo ritrasse prima di raggiungerla e si coprì la bocca. Iniziò con un sorriso e finì con una risata debole e le lacrime agli occhi. -Sei la mia ragazza.- mormorò con uno sguardo frastornato.
Beatrice, in piedi accanto a lei, la fissò dritta negli occhi e socchiuse le labbra. Lia vedeva solo le sue iridi color nocciola e sapeva che avrebbe potuto sciogliersi in quel colore caldo e denso come il miele, le provocava un formicolio caldo, un tepore sulla pelle, piacevole come un balsamo.
-Oh mio dio.-
Il sussurro di Lara aveva spezzato un silenzio che sembrava protrarsi da ore. Si era avvicinata a Beatrice e le aveva appoggiato una mano sul braccio, incredula, mentre Dalila sgranava gli occhi.
-E di noi? Non ti ricordi anche di noi?- continuò Lara con enfasi, stringendole la mano fredda.
-Dobbiamo lasciarle da sole.- constatò seria Dalila, scuotendo la testa dopo un lungo respiro. -…Per un po’.- concluse indirizzando alle altre un’occhiata che Lia non seppe se definire severa o se semplicemente fosse il suo cipiglio naturale. Irene e Lara rivolsero un breve sguardo alla ragazza nel letto e controvoglia seguirono Dalila fuori dalla porta.
Beatrice sembrò cercare una sedia con gli occhi, ma non trovandola sospirò , mentre il suo volto diventava sempre più pallido. Appoggiò le braccia sul coprimaterasso bianco e stropicciato e inclinò appena la testa, in attesa, alzando gli angoli della bocca.
Lia sentiva le labbra tremare e capì distintamente che il peso che aveva nel petto da quando si era svegliata si stava sciogliendo. Portò il palmo della mano ad asciugarsi le lacrime che non riusciva a trattenere in alcun modo. Singhiozzò inaspettatamente e si odiò perché non aveva alcuna forza di passare le braccia attorno al collo di Beatrice per stringerla più forte che poteva.
-Mi dispiace tanto.- le sussurrò Beatrice, tormentandosi le mani.
Lia aggrottò un attimo la fronte e si sforzò per far uscire la voce. -Cosa intendi?-
Trovò di nuovo gli occhi di Beatrice fissare i suoi e sentì il cuore fermarsi e ripartire.
Beatrice aprì le labbra più volte prima di formulare la frase.
-Stavi attraversando la strada per venire da me quando ti hanno investita.- mormorò con voce tremula, allungando il dorso delle dita a toglierle le lacrime dalle guance che sussultavano per i singhiozzi. -Sono felice che tu ti sia svegliata.-
Lia si lasciò andare in un pianto liberatorio, che aspettava da quando aveva ripreso coscienza. Brancolava nel buio, in sei anni di oscurità, dei quali sapeva solo che il mondo era andato avanti e nient’altro. Ma una fiammella tremolante come la sua voce si era accesa nel nero nulla e le aveva mostrato fiocamente un sentiero pieno di lacune e collegamenti che ancora non riusciva a fare. Non ricordava niente del suo incidente, di ogni avvenimento più o meno importante, o delle amiche, o della scuola, di cosa le fosse successo allo sbocciare dell’adolescenza. Non ricordava episodi precisi o chiari legati a Beatrice, ma la sensazione che le dava non era discutibile, era limpida come il cielo notturno e stellato che aveva sognato ed avere quell’appiglio così solido era forse il sollievo più grande che potesse ricevere in quel momento. La montagna non le sembrava più così insormontabile, il suo percorso d’un tratto non era più così buio. Era improvvisamente mossa da una strana forza di volontà, il cuore non le batteva più per la paura, ma per la voglia di vivere e riscoprire, nonostante tutte le bende e i lividi, cosa fosse successo là fuori, chi fosse lei, chi fosse la ragazza che le stava accarezzando i capelli, cosa avessero condiviso, chi fossero tutti gli altri.
-Ma non devi piangere, va tutto bene.- ridacchiò sommessamente Beatrice, sebbene anche lei sembrasse sul punto di scoppiare in lacrime.
-È che sono felice di non essere in… una specie di incubo, in cui non riconosco nessuno, in cui non sento niente, o tutto quello che sento, non lo conosco.- spiegò l’altra ragazza mentre cercava di immaginare come fossero quei capelli rossi sciolti, come sarebbe stato passarci in mezzo le dita, ammaliata da una tale bellezza selvatica. -Ho sentito il tuo profumo di more e ho ricordato quanto stavo bene.-
Beatrice strinse le labbra e guardò l’orologio con la coda dell’occhio.
-Ci è rimasta mezz’ora, Lia. Se pensi che possa aiutarti a ricordare, parlami, ricostruiamo. Di cosa ti ricordi?-
Trenta minuti erano troppo pochi per spiegare tutto e lei era stanca, ma una determinazione forte e stabile le impose di iniziare subito, non solo per continuare a sentire il suo sguardo addosso, ma soprattutto per tornare il prima possibile in una realtà normale, fuori dall’ospedale. Le erano bastate poche ore in quel letto bianco, nella stanza silenziosa e vuota, per stufarsi di tutto e sentirsi sterile come l’ambiente in cui era.
Stava per iniziare a parlare quando vide, oltre i vetri delle pareti, quattro o cinque persone che ricordava solo confusamente.
-Sono... parenti.- sussurrò stanca. -E non ho voglia di incontrarli. Tira le tende e resta qui.-
Beatrice ridacchiò e scosse piano la testa. Le passò la mano sul suo braccio, in una carezza lenta.
-Non posso, è meglio che tu veda tante persone, potresti ricordarti di tantissime altre cose. Ti saluto le altre.- disse esitante, sporgendosi a lasciarle un bacio sulla fronte. La bocca di Lia si aprì in un sorriso spontaneo e nostalgico e la guardò come a non voler lasciarla andare.
-Vieni anche domani, per favore.-
Beatrice ricambiò il sorriso e fece qualche passo indietro.
-Certo che vengo.-
Tenne gli occhi sulla ragazza stesa nel letto fino all’ultimo, quando la fine dei vetri della stanza di terapia intensiva spezzò quel contatto visivo. Si portò una mano in testa e si sfilò la cuffietta con un gesto infastidito, lasciando che la chioma scompigliata di capelli mossi e ramati le ricadesse sulle spalle e sulla schiena. Sporse il collo per ritrovare le altre tre ragazze e vide Irene agitare un braccio dal fondo del corridoio. Camminò verso di loro con le spalle basse e il capo ciondolante, strisciando i piedi sulle piastrelle lucide del pavimento dell’ospedale, il sorriso che si spegneva ad ogni passo.
-Allora?- chiese Dalila, con le braccia incrociate.
-Allora cosa?- sviò mentre continuava a camminare e passava loro accanto.
Dalila e le altre due si scambiarono un’occhiata veloce e si affrettarono a seguirla, svoltando a sinistra.
-Cosa le hai detto?- continuò stizzita.
-È importante Bea, spero che tu le abbia spiegato come sta la situazione.- aggiunse Irene.
Beatrice sbuffò irritata e alzò gli occhi al cielo mentre le voci delle altre tre si accavallavano e le riempivano le orecchie in modo fastidioso.
Quando finalmente riuscirono ad arrivare alla porta di uscita, Beatrice tirò un sospiro e si allacciò il giubbotto. L’aria della sera le fece arricciare il naso per la sensazione di fresco poco piacevole.
-Piantala di stare zitta e dicci come ha reagito quando gliel’hai detto.- la incoraggiò Irene, sovrastando la voce delle altre due e spezzando il tono fitto della conversazione, che alle orecchie di Beatrice non era altro che un noioso ronzio.
Lara prese a braccetto Beatrice e annuì con convinzione: -Immagino che nel dirglielo, tu abbia cercato di essere un po’ più delicata rispetto a come sei di solito…-
-Sempre che tu gliel’abbia detto.- mormorò Dalila, con un tono abbastanza basso da suonare provocatoria, ma abbastanza alto da farsi sentire.
Beatrice strinse i denti e slacciò il braccio da quello di Lara con uno strattone. -No che non gliel’ho detto!- esclamò con la voce irritata, mentre si fermava e si voltava indietro a guardarle. -Smettetela, okay? Non potevo dirglielo! Si è messa a piangere, tanto era felice, e… Le sue guance hanno cambiato colore, non so spiegare.-
-Tu non devi provare compassione, non devi farle credere cose sbagliate! Ci sono già i genitori, ci sono i parenti, gli psicologi ad aiutarla.- sibilò Dalila, sotto lo sguardo attonito delle altre due.
Beatrice aprì la bocca e allargò le braccia, sgranò gli occhi sorpresa prima di parlare di nuovo.
-Io non ho provato compassione!-
-Ti piace ancora, quindi?- azzardò Irene. -Non capisco.-
-No!- rispose immediatamente, con uno scatto nervoso della testa e la voce troppo alta. -No che non mi piace, non la amo, è passato! Glielo dirò quando starà meglio, ma ora non posso.-
-Sei troppo irascibile, devi calmarti.- si intromise Lara, ma la sua voce troppo bassa non riuscì ad infilarsi nel discorso.
-Voglio il suo bene! Avete idea di come avrebbe reagito se le avessi detto che l’ho lasciata?- continuò infatti la rossa.
Dalila represse un riso amaro e ironico, alzando le sopracciglia:
-Vuoi il suo bene? L’hai trattata così di merda che si è fatta investire pur di correrti dietro, hai idea di che adorazione provi quella ragazza per te?-
Gli occhi di Beatrice si congelarono e Irene decise che era arrivato il momento di mettere un punto fermo a quella discussione che si stava scaldando troppo.
-Questo discorso non ha senso, l’incidente non è stato colpa sua, né di nessun’altro.- constatò, incredibilmente seria, mettendosi tra le due che si stavano avvicinando sempre di più.
-Non puoi continuare a farle credere che la vostra relazione esista ancora, non le fa bene.-
-Ma che ne sai!-
Fu un grido secco e graffiante, esplose come una bomba e fu una fortuna che Irene fosse lì a trattenerla, stringendole le braccia. Lara strabuzzò gli occhi e arretrò di qualche passo, mentre Dalila aggrottò la fronte, ma non si mosse di un millimetro.
-Che ne vuoi sapere tu, tu non l’hai vista mentre mi parlava!- continuò sentendo gli occhi bruciare, le mani friggere, tutto il corpo andare a fuoco. La fissò da oltre la spalla di Irene. -Devi smetterla di comportarti come se sapessi già tutto, di qualsiasi cosa, perché non puoi sapere cos’ha lei nella testa in questo momento, cosa le fa bene e cosa no!-
-Nemmeno tu lo sai.- le rispose fredda.
Il nervoso che si stava accumulando nelle tempie di Beatrice stava diventando insostenibile, e l’unica via che trovava per sfogarsi erano gli occhi, le lacrime calde e amare che scivolavano giù fino agli angoli della bocca, piegata in una smorfia.
-Io volevo dirglielo, cosa pensate?-
-Non importa cosa volevi fare, non l’hai fatto e basta e adesso è un casino.-
Dopo uno sguardo scocciato, Dalila si passò una mano tra i corti capelli biondi e tornò a camminare. -Io vado a casa.-
Beatrice la guardò andarsene e si morse le labbra per non piangere, mentre Irene le prese il viso tra le mani e le puntò gli occhi verdi addosso.
-Ascolta, lo sai com’è fatta. Non hai fatto bene a dirle una bugia del genere, credo che questo lo pensiamo tutte, ma Dalila ha esagerato. L’importante è che tu non pensi che l’incidente sia stato colpa tua, perché non è così, okay?-
Beatrice annuì, la bocca ridotta ad una striscia sottile e tremante per la rabbia. -Anche io vado a casa.- borbottò poi, allontanando le mani di Irene e attraversando velocemente le strisce pedonali, in silenzio.
La sua testa era un grande ammasso di pensieri che si rincorrevano e si intrecciavano, si accavallavano in modo confuso, pesante e irritante. Più passavo i minuti più si sentiva in colpa per non aver detto la verità, eppure aveva visto la felicità brillare negli occhi di Lia e non aveva potuto fare altrimenti. Non era più la sua  ragazza, ma questo non implicava il doverla odiare o detestare -era sempre stata una sua amica, perché avrebbe dovuto essere diverso?-, anzi, pensava davvero che Lia fosse una bella persona, nonostante tutto. Ricordava bene quanto amore le aveva dedicato nei mesi passati assieme, mesi bellissimi, un’estate splendida, e forse il modo in cui l’aveva lasciata non era stato proprio convenzionale; la notte e l’alcol e la sua tendenza ad arrabbiarsi e stufarsi in fretta non l’avevano di certo aiutata. L’incapacità di Lia a lasciarsi il passato alle spalle, così come l’asfissiante insistenza e le scenate infantili non facevano per lei, la irritavano già normalmente e avevano continuato ad irritarla per tutte le settimane successive a quella sera. L’unico rimedio che Beatrice aveva trovato era far finta di non vederla e di non sentirla, anche in quel pomeriggio in cui le aveva chiesto di parlare. L’unica cosa che pensava che Lia non avrebbe fatto, l’aveva invece fatta: seguirla, senza pensarci, alienata da tutto ciò che le stava attorno, continuando a urlare quanto fosse egoista e insensibile.
Le grida erano rivolte alla schiena di Beatrice, che continuava ad allontanarsi, ormai dall’altra parte di quella strada in periferia, stanca di tutte quelle parole e le frasi melodrammatiche e l’insopportabile ostinazione. Poi il suono della frenata brusca, le gomme che inchiodavano sulla strada, e il clacson, il cuore che era sobbalzato per lo spavento e la scena che era rimasta impressa a fuoco nei suoi occhi come un marchio incandescente quando si era voltata indietro. L’asfalto era rosso e per un lunghissimo mese e mezzo aveva solo visto le sue palpebre chiuse e una linea sul monitor che segnava i battiti del cuore.
L’acqua fredda sulla faccia la riscosse violentemente, strappandola via da tutti quei pensieri. Appoggiò le mani sul bordo del lavandino e guardò a lungo il suo riflesso nello specchio, il respiro pesante.
Cos’era quella sensazione? Essere coerente con se stessa non era mai stato un problema, ma una vocina nella testa le stava dicendo che si era comportata come le persone che odiava, ipocrite, bugiarde, senza cognizione di causa. Eppure, da quando gli occhi chiari di Lia l’avevano guardata e si erano riempiti di luce, sentiva di avere un dovere nei suoi confronti. Non per sempre, niente affatto, ma lei era stata una parte importante della sua vita per un lasso di tempo non indifferente, almeno dal suo punto di vista. Doveva soltanto prenderla per mano e riportarla in carreggiata, mostrarle quale fosse la strada. Nient’altro.
 

Il sonno di quella notte fu troppo leggero. Si era alzata con difficoltà e si era mossa come un automa, come se la forza di gravità fosse più forte del solito e una pressione soffocante la schiacciassero contro la terra. Era rimasta indifferente perfino a Lara che le aveva parlato allegra per tutta la mattina, seduta nel banco accanto a lei a scuola, troppo impegnata a mangiarsi le unghie e tirare lunghi sospiri.
Quando guardò l’orologio e vide che erano le sette e mezza di sera, capì che quella che la schiacciava a terra non era un’insolita forza di gravità, ma semplice ansia.
Il tempo per camminare fino all’ospedale non era mai passato così lentamente, lei non sapeva perché avesse tutto quel caldo addosso e quando aprì la porta della stanza di Lia si sentì mille volte peggio del giorno prima. Si rese conto di non riuscire a guardare per più di dieci secondi tutti quei i fili, i tubi, le flebo, gli schermi coi monitoraggi e i capelli sparsi sul cuscino bianco.
Il volto di Lia si aprì in un sorriso enorme e radioso, tradito dalla faccia stanca.
-Prima mi sono vista allo specchio per la prima volta, non credevo di avere una faccia così sciupata.- rise stringendosi nelle spalle e sfregandosi un occhio.
-L’asfalto non ti ha di certo abbracciata.- constatò Beatrice, sorridendole e sedendosi vicino a lei. -Come stai?-
-Un po’ meglio.- le rispose con un tono incredibilmente dolce. -Non vedevo l’ora che arrivassi.-
La mente di Beatrice si svuotò all’improvviso, come l’oceano che si ritira prima di un’onda anomala e la natura attorno si fa stranamente silenziosa, in attesa dell’inevitabile.
-Già.- esalò continuando a sorridere. Non mosse un muscolo quando vide e sentì la mano pallida e graffiata stringere la sua, intrecciare le dita.
-Che hai fatto oggi?-
Beatrice scosse appena la testa. -Le solite cose noiose. Scuola, compiti…-
Lasciati andare.
-…Pensarti.- concluse con  un sorriso minuscolo e sornione, proprio un attimo prima che la bocca dello stomaco si chiudesse. Si disse che non c’era nulla, assolutamente nulla di male nel dirlo, anche perché non era una bugia. -Tu? Come hai passato la giornata?-
Lia si portò la sua mano alla guancia, senza che il suo sorriso accennasse a spegnersi. -Non che mi sia mossa molto! Mi hanno spiegato che questo tubo è infilato nella giugulare e mi viene la nausea a pensarci, ma in pratica mi dà nutrizione e medicine, quindi ovviamente non è che posso chiedere di toglierlo o cose del genere solo perché mi dà fastidio l’idea. Poi mi hanno fatto un encefalogramma, ho incontrato lo psicoterapeuta e ho fatto qualche esercizio di memoria.-
-Oh…- commentò l’altra, seriamente interessata. -E ti sei ricordata di qualcos’altro?-
Pensare al concetto di memoria, di mente, era affascinante e spaventoso. Terrificante rendersi conto di come un urto, uno shock possa far perdere i ricordi di sensazioni vissute e persone, interi periodi di vita, o sia in grado di alterare la capacità di apprendimento. Si è deboli, in balia del fato può capitare ogni cosa e l’esistenza, l’essenza stessa di una persona è messa in dubbio, sgretolata in un secondo. I cocci vengono disperatamente incollati assieme di nuovo e puoi solo trattenere le lacrime cercando quei frammenti che proprio non trovi da nessuna parte.
-Purtroppo no, non è così facile… Ma se mi sono ricordata di te, sicuramente questo è un punto di partenza.-
Beatrice guardava la ragazza nel letto e non riusciva a non pensare che avrebbe anche potuto non essere lì. Avrebbe potuto non svegliarsi più, la sua amnesia avrebbe potuto essere più grave e avrebbe potuto non ricordarsi mai di lei. Sentì un brivido lungo la schiena, un miscuglio terribile di paura e disgusto, perché per un attimo aveva pensato che sarebbe stato molto meglio se l’ultima ipotesi si fosse davvero avverata.
-Devo dirti una cosa.- sussurrò con voce debole mentre allontanava le mani dalle sue.
Lia la guardò incuriosita e Beatrice passò la punta della dita lungo i capelli corvini che creavano un contrasto affascinante con la bianchezza del letto.
-…Ti ho portato qualche foto di questa estate.-
Frugò qualche attimo sotto il camice azzurro e tirò fuori una busta bianca, posandogliela tra le mani e portandosi un indice davanti alla bocca prima voltarsi indietro e andare a tirare le tende per stare al sicuro da occhi indiscreti.
Lia aprì la busta con impazienza e trattenne il respiro vedendo se stessa in spalla all’altra ragazza, in riva al mare. Sgranò gli occhi mentre Beatrice tornava vicino a lei e inclinava la testa per vedere le foto con lei, nonostante conoscesse ogni ombra a memoria, tanto le aveva guardate prima di dargliele.
-Siamo andate al mare?-mormorò incredula.
-Noi e le altre.- annuì, prendendo la foto e spostandola per mostrarle le altre. -Siamo state due settimane ed è successo di tutto.- ridacchiò incrociando le braccia.
Lia la guardò come se fosse un angelo. -Di tutto, tipo? Cos’altro abbiamo fatto?-
Beatrice tirò un lungo sospiro mentre le palpebre di Lia si abbassavano, come per assaporare la sua voce e ogni parola.
-Prima di raccontare puoi fare una cosa?- sussurrò con un breve sorriso, riaprendo appena gli occhi e richiudendoli con lentezza. -Puoi darmi un bacio? Solo qualcuno, piccolo. Mi manchi.-
-Oh.-
Beatrice passò una mano lungo la sua guancia morbida e inspirò a fondo, guardando sul monitor il battito del suo cuore che si faceva più veloce. Posò le labbra sulla sua fronte e strizzò gli occhi, in un tentativo disperato di impedire alle lacrime di cadere ancora dalle sue ciglia. Ma non riusciva fermarle, né riusciva a fermare i baci deboli contro le sue tempie.
Beatrice la sentì ridere piano e le sue braccia magre le passarono attorno alla schiena per non lasciarla andare.
Per quanti baci le desse, continuava a non sentire niente.
-Vieni ancora domani.-
-Verrò sempre.- rispose con voce sottile, sull’orlo dell’incoscienza.

Quella di Beatrice non fu una bugia.
Non passò giorno in cui non venisse a trovarla in ospedale, e Lia non avrebbe potuto essere più felice. I giorni scorrevano lenti e noiosi, si accumularono e diventarono settimane. I primi miglioramenti iniziavano a vedersi. I ricordi più vecchi non erano più così sfocati, le fratture e le costole rotte stavano guarendo. Si chiedeva quando avrebbe potuto tornare a casa, quando avrebbe potuto fare di nuovo respiri profondi o dormire di lato senza sentire fitte al costato, quando sarebbe riuscita a ricordare finalmente tutto ciò che il trauma le aveva fatto dimenticare.
Quella notte, qualcosa sembrò volerla aiutare in questa sua impresa.
Lia aprì gli occhi, immersa nel buio.
Sentì un peso premerle sul petto, comprimerle i polmoni.
Vide davanti a sé Beatrice, teneva in mano un bicchiere di plastica nel quale erano rimasti solo dei cubetti di ghiaccio e una cannuccia nera. La guardava come non l’aveva mai guardata. Gli occhi annoiati, le sopracciglia alzate e la bocca piegata in una smorfia che si muoveva svogliata, dicendole qualcosa che non sentiva.
Lia sentì il cuore fuori controllo, non riusciva a capire cosa stesse succedendo, cosa fosse quella proiezione. Era un incubo? Era un ricordo? Ma quale ricordo, da dove arrivava, dove doveva collocarlo? Si tirò a sedere e si sentì prendere dal panico rendendosi conto di essere incapace di scendere dal letto e di respirare a dovere. Gli occhi si stavano abituando al buio, intravedeva i profili dei macchinari e cercò con gli occhi qualcuno oltre ai vetri.
Si sentiva terribilmente sola e persa, provava disperatamente a scacciare quella scena dalla testa, ma qualcos’altro la tratteneva dentro di sé e chiedeva di più, esigeva di capire cosa le stesse dicendo, cosa fosse successo prima, cosa dopo.
Lia sentiva le dita tremare con scatti nervosi. Sentiva tutto rivoltarsi dentro di sé.
Beatrice tirava un calcio al bicchiere che aveva lasciato cadere per terra e le dava le spalle.
-Mi hai rotto il cazzo.- diceva a voce alta, scocciata, come mai l’aveva sentita e come non era neanche mai riuscita ad immaginarsela. -Se non fossi così infantile, potrei avere un discorso normale con te!- continuava Beatrice. Le aveva risposto con parole confuse, che non avevano fatto altro che irritarla di più.
Si era portata le mani tra i capelli e l’aveva guardata con una rabbia negli occhi, un’esasperazione che l’aveva terrificata.
Lia sentì l’impellente bisogno di vedere il cielo e la luna, gridare, uscire, strappare tutto e andarsene, correre via per il corridoio e smetterla di sentire l’odore di morte dell’ospedale.
Singhiozzò e si portò le mani sugli occhi. Non ne era capace, non si mosse di un millimetro. Non poteva far niente, non ricordava, non era forte, con le braccia magre e la pelle bianca e fredda come la neve.
Beatrice. Un nome che racchiudeva tutto, celebre da secoli, portatrice di beatitudine, colei che rende felici, la luce che stava sopra a tutto per definizione, il postulato, la perfezione, l’angelo per eccellenza che negli squarci di quegli ultimi ricordi faceva di tutto per non guardarla.
Scivolò giù lungo il cuscino e si strinse tra le spalle, i palmi aperti delle mani fermi contro le sue tempie, come a tenere assieme la testa, evitare che esplodesse. Si impose di smetterla e di soffocare quel fiume di emotività che si era infranto con una violenza inaspettata contro i suoi polmoni.
Beatrice, Beatrice! Le veniva in mente la sensazione di rinascita quando aveva riconosciuto il suo profumo di frutti di bosco e la serenità che le aveva trasmesso. Ora, tutto quello era diventato un miscuglio viscoso e maleodorante fatto di una confusione che non sentiva da settimane, da quando aveva riaperto gli occhi e si era trovata in una stanza sterile con più tubi che sensazioni nel proprio corpo.
La fiammella che aveva davanti agli occhi e le illuminava il cammino da seguire tremava in modo inarrestabile e distorceva ogni immagine davanti sé. Era un’allucinazione? Un episodio iniziato e finito in un passato lontano, una questione già conclusa? Un ricordo distorto? Cosa c’era di vero? Chi stava mentendo, la sua testa o la sua luce? Perché tutto quello che riusciva a ricordare era legato a lei, come una maledizione?

-Come stai?-

La voce di Beatrice le fece aprire gli occhi e si rese conto di quanto il tempo fosse una grande bugia. Le sette e mezza erano già arrivate? Un’altra allucinazione?
Ricordava vagamente che delle infermiere erano venute a somministrarle altre medicine, ma non c’erano altre prove che la giornata fosse passata. La sua testa era pietrificata nel buio che aveva visto quella notte.
Non voltò il capo verso la porta e si perse con lo sguardo nel nulla. Più ci pensava, più venivano a galla dettagli o altre scene tracciate a grandi linee, nuove sensazioni che mai avrebbe osato associare a quella ragazza coi capelli rossi.
-Lia?- la chiamò, non avendo ricevuto una risposta.
-Cosa stai facendo, esattamente?- chiese l’altra, sottovoce e atona, senza lasciarle neanche il tempo di finire di dire il suo nome.
-Scusa?- mormorò Beatrice, confusa, appoggiando le mani al letto.
Lia voltò la testa e Beatrice ritrasse le mani vedendo le guance bagnate e l’alone viola attorno agli occhi chiari e spaventati. Il suo era uno sguardo freddo e disorientato al contempo, Beatrice non capiva come interpretarlo e rimase con la bocca socchiusa.
-Quando abbiamo litigato? Perché?- continuò muovendo appena le labbra livide e secche. -Come è successo il mio incidente e soprattutto che cosa stai facendo?- concluse, scandendo bene le parole dell’ultima frase.
Beatrice si sentì come se fosse stata appena pugnalata al cuore.
Esalò un verso strozzato guardando le lenzuola. Scosse la testa e le prese una mano, coprendola con l’altra e accarezzandone nervosamente il dorso, mostrandole un sorriso che si illuminava e si spegneva a intervalli irregolari. -Oh, no, non è come credi.-
-Come sono finita qui?-
-Tu stavi davvero venendo da me.-
-Ma perché?- sibilò sentendo gli occhi bruciare.
Beatrice cercò con gli occhi una via di fuga, prima di abbassarli e aggrottare le sopracciglia per un attimo, sforzandosi di non venire soffocata dalle parole che non volevano saperne di uscire dalla sua bocca.
-Allora…- iniziò con un lungo sospiro. -…Con calma, okay?- continuò con la voce che tremava e ritraendo le mani sudate, più come una frase rivolta a se stessa che alla ragazza davanti a sé. -Ti sei ricordata qualcosa di nuovo? Che cosa?-
Lia si sentì profondamente irritata dalla sua calma falsa, vedeva chiaramente la sua irrequietezza, per quanto tentasse di nasconderla. Lei non riusciva quasi a respirare e quella la tirava per le lunghe. Si poteva forse essere più egoisti? Più indifferenti e disinteressati?
-Non hai raccontato altro che dei nostri momenti splendidi, in queste settimane. Ma c’è qualcosa che non torna. Quante bugie mi hai detto?-
-Bugie?- mugugnò Beatrice con la gola ridotta a uno spillo, mentre gli spettri del passato venivano uno ad uno a strapparle lo stomaco a morsi. -Dei momenti passati insieme, io non ho inventato niente di niente.- sussurrò con un velo di supplica, sfregandosi le dita in modo nervoso.
-E cosa hai omesso, quindi? Per favore.-
Lia strinse i denti e assottigliò gli occhi, sentendo una stanchezza di origine sconosciuta premerle sulla testa. -Per favore, io voglio sapere, ne ho bisogno.-
-Io volevo il tuo bene!- esclamò dal nulla, alzando la voce senza alcun motivo apparente.
Lia sgranò gli occhi e il brivido che le provocò quella nota acuta e aspra la riportò per un attimo indietro, in un momento indefinito. Era la stessa sensazione di quando guardi una persona in faccia e ti volta le spalle senza pensarci, lasciandoti lì, senza uno sguardo e continuando a camminare avanti, senza girarsi.
“Un giorno mi lascerai indietro”, aveva detto una volta, con un sorriso amaro, prima di un bacio.
Due fotogrammi precisi passarono nella sua testa: uno del profilo serio di Beatrice accanto a lei, l’altro della sua schiena, dopo che l’aveva superata. L’aveva lasciata indietro. Fisicamente. Si era pietrificata per un attimo sul ciglio della strada e quasi non si era accorta di aver ricominciato a camminare, scioccata, realizzatasi quella vecchia profezia pronunciata da se stessa. Non vedeva più niente del mondo, se non la schiena di Beatrice davanti a lei, coi capelli fulvi e ondosi, in quel pomeriggio nuvoloso. E le ombre sembravano essersi fatte più scure, e il tempo bloccato, e i rumori ovattati, tranne quel rumore improvviso e potente che le colpì le orecchie, la buttò nel nero più buio.
Lia trasalì e si coprì gli occhi con le mani.
-Volevo il tuo bene e ti avrei detto tutto una volta uscita da qui, io ti voglio bene, volevo aiutarti!- continuava Beatrice, con le ciglia già umide di lacrime.
Lia sentiva un dolore diffuso dallo sterno fino alla punta delle dita e non sapeva come affrontarlo né come tenerlo sotto controllo.
-Noi non stiamo insieme?-
Fu l’ultima domanda, quella che mai avrebbe voluto davvero pronunciare, tantomeno con quel tono abbandonato, sconsolato, consapevole di una risposta negativa che non le avrebbe necessariamente spezzato il cuore, ma avrebbe di certo azzerato le speranze che aveva costruito con così tanta fatica.
Beatrice abbassò le spalle e strinse i denti ancora più forte, fino a contorcere la faccia in una smorfia. -No!- rispose dura, qualcosa di arrabbiato in quella sillaba secca. -No che non stiamo insieme, no!-
Alzò gli occhi al cielo cercando il fiato e si portò le braccia attorno al busto. Non doveva cadere a pezzi, non aveva alcun motivo di sentirsi così persa, non sentiva niente, non sentiva più niente.
-Io volevo dirtelo.- concluse, tutto d’un fiato, come una sorta di mera giustificazione.
Lia si sentì sciogliere in quel letto, evaporare nella stanza.
-Vai via.-
Le parole le perforarono il cuore.
-No, tu non capisci la situazione, se ti spiegassi…-
-Io so in che situazione sono!- ringhiò alzandosi a sedere e voltando il busto verso di lei, bloccata dai fili e dai tubi. -Sono io che sto cercando di ricordare sei anni di vita e non fai altro che venirmi in mente tu, sono io quella che è stata a tanto così dal morire per colpa tua e che ha perso il conto dei tubi che ha nel corpo per te. E tu sei venuta qui a mentirmi, per settimane, affermando di volere il mio bene? Perché non l’hai voluto prima, il mio bene? Dirmi prima cosa ti dava fastidio, cosa dovessi fare per farti vivere come volevi, invece di stare in silenzio sperando che io capissi quello che volevi senza neanche rivolgermi la parola?-
Beatrice arretrò di un passo e non seppe replicare, smarrita.
-Non hai fatto altro che dirmi quanto io fossi insopportabile e infantile e appena qualche settimana dopo sei venuta a baciarmi la fronte. Non pensi di essere stata tu, quella infantile, dall’alto della tua superbia? Dov’è, ora, quel tuo sguardo di sufficienza?- continuò Lia, con voce allusiva e ferita, piegandosi in avanti e spostandosi i capelli da davanti al viso. -È sparito perché ti faccio pena, e ti fa pena quello che ho passato e che sto passando, perché non riesco a fare niente da sola. Ti sei dimenticata quanto ti davo fastidio? Quanto ti irritavo? Quanto sono stata insistente, ostinata, insopportabilmente tragica? Puoi per favore andartene via, ora?-
Beatrice aprì le labbra per rispondere, ma singhiozzò e si portò una mano davanti alla bocca, chiudendo gli occhi e lasciando che la lacrime scorressero, per l’ennesima volta in un lasso troppo breve di tempo, lungo le guance, sulle lentiggini leggere.
Cercò la maniglia a tentoni e rimanere sola in stanza non era mai stato tanto bello, per Lia. La vide andare via e avrebbe voluto avere qualcosa tra le mani per poterlo lanciare a terra, romperlo, avrebbe voluto gridare e sfogare la nausea in qualche modo.
Ma le lacrime erano sempre l’unica soluzione per il nervoso e la tristezza, e ogni pulsione irrefrenabile veniva incanalata in quel modo, nei pianti disperati come quelli di una bambina.
 
Anche se Dalila aveva suonato per la terza volta al campanello della casa di Beatrice, nessuno aveva ancora risposto. Sbuffò e pensò che qualcosa non andava. Come ogni mattina, prima di andare a scuola, passava a casa sua e subito dopo da Lara: forse quel giorno non stava bene? Non aveva sentito la sveglia e stava ancora dormendo? Da quel piccolo diverbio dopo la visita in ospedale, il tragitto da casa di Beatrice a quella di Lara era sempre stato imbarazzante: entrambe parlavano poco, sospirando e guardando i marciapiedi sotto i loro piedi, finché Lara non scendeva saltellando dal suo appartamento e dava il buongiorno con un grande sorriso.
Appoggiò una mano sulla maniglia della porta e non si sorprese quando la trovò chiusa. Provò anche a chiamarla al telefono, più di una volta, ma non rispose. Stava per mettersi il cuore in pace ed andarsene, ma qualcosa non le tornava e un sesto senso la convinse a rimanere. Storse la bocca e indietreggiò di qualche passo, alzando la testa per buttare un’occhiata alla finestra della stanza di Beatrice, al piano di sopra. Si guardò attorno e tornò a camminare sul marciapiede, fino a girare nella stradina secondaria e poco luminosa, dove si trovava l’altra facciata della casa. Si alzò sulla punta dei piedi per guardare dentro la finestrella del bagno, che ricordava essere quasi sempre aperta. Lasciò lo zaino a terra e prese un respiro profondo prima di aggrapparsi al davanzale esterno e sollevarsi, tra qualche imprecazione. Si inginocchiò sul granito e aprì del tutto la piccola finestra, passandoci attraverso, non senza fatica. Appoggiò i piedi sulle piastrelle del bagno e, non vedendo nessuno, uscì in corridoio. La cercò nel piano inferiore, chiamando il suo nome, ma non c’era nessuno. Il cuore iniziò a batterle più forte di quanto avrebbe dovuto, ma deglutì e salì quindi le scale fino al piano di sopra. Forse aveva fatto una cosa stupida, si stava preoccupata per niente, probabilmente era uscita di casa senza aspettarla, aveva deciso di andare da sola, quel giorno. Era un’ipotesi probabile, sapendo quanto il suo spirito fosse libero e imprevedibile, anche per le questioni più piccole.
Entrò in camera sua, ma il letto era sfatto e lei non c’era. Si fermò un attimo, interdetta, prima di voltarsi con rinnovato vigore e correre ad aprire la porta del secondo bagno, quello più grande. Trattenne il respiro e arretrò di un passo, incredula.
Beatrice stava a mollo nell’acqua limpida, i piedi sul bordo della vasca bianca, il collo in una posizione che sembrava scomoda e una bottiglia di qualche vecchio liquore nelle mani rugose.
-Sei…- mormorò a pelo d’acqua la ragazza coi capelli rossi e bagnati appiccicati ai lati della faccia, con la voce impastata, mentre faceva ondeggiare un ginocchio. -… Davvero, davvero noiosa.-
Dalila guardò altrove, incrociando le braccia e arrossendo. Le aveva fatto prendere uno spavento terribile, ma non lo avrebbe di certo ammesso, né davanti a lei né davanti ad altri.
-Cosa fai ubriaca alle sette e mezza di mattina in una vasca da bagno?-
Beatrice alzò le sopracciglia e si portò la bottiglia di vetro alle labbra, bevendo un sorso e sorridendole. -Mi diverto.- biascicò allungandole il liquore. -Vuoi?-
Dalila scosse la testa e afferrò il polso della ragazza, cercando di tirarla su dalla vasca. -Non puoi andare a scuola in questo stato, sei impazzita?-
-Lasciami stare!- esclamò, risultando però poco seria e ritraendo il braccio. -Chi t’ha detto che voglio venire a scuola? Io sto qui, esci da casa mia.-
-Se pensi di assomigliare a un qualche artista tormentato dell’Ottocento, ti sbagli. Sei solo ridicola.-
Beatrice si tirò un po’ su e appoggiò entrambi i gomiti sul bordo della vasca, guardandola in cagnesco. -Vai a farti fottere. Da dove cazzo sei entrata? Sei peggio dei topi.-
-Ascoltami.- Dalila guardò l’ora al cellulare e sbuffò infastidita. -Io non posso lasciarti da sola in questo stato, quindi ora chiamo Lara, le dico di non aspettarmi e starò con te ad aspettare che ti passi…-
La ragazza nella vasca bevve un’altra sorsata di liquore e Dalila glielo tolse dalle mani, seccata. -… O che vomiti.- concluse schifata, appoggiando la bottiglia di vetro sul mobiletto e cercando il numero di Lara sul cellulare.
Beatrice scivolò di nuovo giù, tanto da immergersi nell’acqua fino alla punta del naso, con la testa incassata tra le spalle e i capelli che galleggiavano come alghe. Ridacchiò guardando la faccia arrossata e corrucciata di Dalila che faceva di tutto pur di non guardarla. Aveva un braccio appoggiato sul fianco e con l’altro teneva il telefono all’orecchio. A giudicare dalla sua espressione e dal silenzio, Lara non rispondeva.
-Perché cazzo sono l’unica a guardare il cellulare alla mattina.- ringhiò e chiuse nervosamente la chiamata non appena sentì la voce della segreteria, per poi ricacciare il cellulare in tasca. Puntò un dito contro Beatrice e il rosso delle sue guance si fece più intenso mentre la guardava dritta in faccia. -Io ora corro a casa di Lara, le dico di andare senza di me e torno subito qui. Tu non fare cazzate.-
-Ti dà fastidio vedermi nuda?- rise Beatrice, dopo aver fatto qualche bollicina nell’acqua con la bocca. Allungò le braccia verso l’alto e si stiracchiò per bene, accavallando le gambe. -Peeeerché?-
-Non fare cazzate.- ribatté serissima l’altra.
-Perché sono bella, ecco perché!-
-Non fare cazzate e rimani lì!- l’avvertì Dalila per l’ultima volta, prima di uscire dal bagno a passo veloce.
Beatrice emise un verso basso e si allungò verso il mobile per riprendersi il liquore.
-Anche tu continui a farti dei tagli di capelli di merda, ma non ti dico di non fare cazzate!- gridò a pieni polmoni, proprio mentre sentiva la porta chiudersi.
L’acqua nella vasca era diventata fredda e lei iniziava a tremare, anche se non sentiva molto freddo, inibita com’era. Si alzò in piedi e sentì la testa girare, tanto che dovette uscire con estrema calma. Inciampò tra i suoi stessi piedi e scivolò più volte prima di arrivare al lavandino e guardare il suo riflesso grondante d’acqua.
Una giovinezza così bella! Un corpo così bello! Ma tutto quello che vedeva era una sporca e annebbiata ipocrisia. “Non fare cazzate”. Ne faceva una dietro l’altra e la più grande che potesse fare si era conclusa il giorno prima, dopo aver preso in giro per più di un mese se stessa e la ragazza con cui aveva condiviso più sensazioni in assoluto. Dalle più banali alle più complicate, fino all’amore più complesso, l’amore poliedrico, sotto ogni forma, mentale, fisico -oh, il sesso, che bello il sesso, il sesso le mancava davvero tanto.
Ciò che c’era nella sua testa era in continuo movimento, dinamico, mutevole, intervallato da constatazioni totalmente estrapolate dal contesto, irrazionali e stupide. Era una forma di pensiero che non riusciva a controllare e che era sempre un passo avanti a lei. Non poteva che esserne succube, inevitabilmente sottomessa, come odiava essere. Non sapeva come darsi un ordine e non riusciva neanche a rendere quella sensazione fonte di divertimento, una spigliata incoscienza che invece sperava di riuscire a trovare.
Non aveva mai avuto cattive intenzioni, non era nella sua natura. Ma non voleva neanche essere un angelo salvatore, avere uno stuolo di persone ai suoi piedi per dirle “sei stata davvero brava a fare questa cosa!”. Non ne aveva bisogno, non aveva bisogno dell’apprezzamento degli altri, della loro approvazione: l’unica cosa che detestava era sentirsi sottovalutata.
Quello che Dalila le aveva detto quel giorno fuori dall’ospedale l’aveva fatta sentire stupida, come se non sapesse ciò che stava facendo.
Quello che Lia le aveva detto il giorno prima, invece, era stato molto peggio. L’aveva fatta sentire umiliata. Non l’aveva sottovalutata, aveva dimostrato quanto lei fosse di fatto inferiore al livello a cui pensava di appartenere.
Mai in vita sua aveva sentito Lia parlare così. Aveva provato una sensazione nuova e insopportabile, che l’aveva portata ben oltre la soglia del nervosismo. Non aveva avuto l’impulso di sfogarsi su qualcosa, ma solo quello di piangere e stare in silenzio con se stessa.
La consapevolezza di aver fatto uno sbaglio l’aveva distrutta. Non sapeva perché avesse fatto ciò che aveva fatto. Non riusciva a dargli una spiegazione, non riusciva a ricordare cosa l’avesse spinta a tentare di provare ancora qualcosa per una persona che sapeva bene di non sopportare più e che era stata passeggera, solo una delle centinaia di persone che avrebbe incontrato nella sua vita, solo una dei miliardi di persone sulla Terra. Non sapeva più che fare e aveva pensato che un bagno caldo a un bicchiere di alcol, anche se non potevano chiarire i problemi, potevano di certo farli sembrare meno gravi. Ebbene, a quanto pareva si era sbagliata di nuovo. Non sembravano meno intensi, anzi, tutt’altro.
Il telefono fisso della casa squillò e lei sussultò con un movimento brusco, facendo cadere a terra la bottiglia di vetro appoggiata vicino al suo gomito e frantumandola. Era più che sicura di aver staccato la cornetta, ma probabilmente Dalila l’aveva rimesso a posto prima di uscire.
Tentò di ignorarlo, ma lo squillo insistente le sbriciolava i timpani e portarsi le mani a coprire le orecchie non risolveva nulla. Guardò il liquore scivolare tra le piastrelle del pavimento e mormorò qualcosa di incomprensibile mentre usciva dal bagno e la casa girava vorticosamente attorno a sé, sotto i suoi piedi nudi. Cercò il telefono e alzò la cornetta con rabbia, arrivata al limite della sopportazione di quel rumore infernale.
-Silvia?-
Una voce spezzata all’altro capo del telefono aveva chiamato il nome di sua madre e Beatrice si appoggiò con una mano al muro.
-È a lavoro.- sputò acida.
-Oh…- la voce all’altro capo del telefono fu interrotta da un lungo respiro tremante. -Devo darti una brutta notizia, Beatrice.-
La ragazza rimase con la cornetta contro l’orecchio e l’acqua che le gocciolava ancora giù dai capelli, lungo il corpo nudo, il braccio libero lasciato ciondolare lungo il fianco. Guardava davanti a sé e sembrava attratta dalla bianchezza del muro, dalla luce che entrava dagli spiragli delle persiane.
Furono dieci secondi di silenzio agghiacciante, in quella casa.
Beatrice riagganciò la cornetta con lentezza disarmante, interrompendo la donna che continuava a parlarle in lacrime.
Qualcosa nel petto le tremò. Fu scossa da brividi da capo a piedi. Non riusciva a spostare lo sguardo dal muro davanti a sé, rimase pietrificata. Poi fu un grido a sbloccarla, un’esplosione violenta, un breve urlo con il quale prese il telefono tra le mani e lo scaraventò a terra con un gesto secco. Il cuore sembrava essere sul punto di scoppiare, tanto aveva iniziato a battere veloce.
Iniziò allora un elenco di bestemmie che non credeva neanche di conoscere, insulti rivolti a un’entità che non identificava né in cielo, né in terra, né da nessuna altra parte. Ciondolava per casa senza meta, la faccia pallida, sconvolta e arrabbiata, appoggiandosi con le mani ai mobili, tenendo gli occhi sgranati e increduli mentre il cuore le faceva male e si contraeva in spasmi che non riusciva a controllare. Perse il conto dei piatti e le tazze che ruppe, non ricordò tutte le cose che gridò, le lenzuola strappate dal letto e buttate a terra, calpestate. Non riusciva più a respirare, il solo rumore che sentiva era il pulsare delle sue vene.
Si appoggiò al muro con una spalla, sovrastata dai capogiri e la vista oscurata, e scivolò per terra tenendosi il capo umido tra le mani, tirandosi i capelli che teneva nei pugni. Singhiozzò violentemente e nascose il viso tra le ginocchia. Non sentiva l’aria nei polmoni. L’immagine di Lia morta era troppo chiara davanti ai suoi occhi. Che scherzo del cazzo. Morta di cosa? In una notte? Quali complicazioni? Non aveva neanche avuto la forza di lasciare che sua madre finisse di parlare. Le era bastato per sentire la terra mancare sotto i piedi. Non voleva saperne più niente. Era finito tutto. Non voleva sapere.
Il cuore batteva troppo forte. Troppo forte, e troppo alcol, e troppa rabbia, troppe emozioni, troppo intense, tutte in una volta.
Fallire anche nel vivere, pensò mentre il petto di contraeva dolorosamente.
Incompletezza. Che parola tremenda.
Ho toccato il fondo, fu il suo ultimo pensiero.


Quando Dalila aprì la porta, sbiancò vedendo che ogni stanza era completamente a soqquadro.
Le si chiuse la gola vedendo Beatrice coi capelli rossi e ancora umidi sparsi a terra.
Il telefono scivolò via dalle sue mani e cadde a terra, capendo di essere la sola viva in quella casa.
   
 
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