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Autore: Beauty    06/04/2014    3 recensioni
Cosa succederebbe se le principesse delle favole vivessero nel mondo reale?
A Garden Hill, vivono vite differenti Blanche (Biancaneve), Evelyn (Cenerentola), Jasmine, Ariel, Annabelle (Belle), Caroline (la Bella Addormentata), Esmeralda, Marion (Lady Marian), Roxanne (Cappuccetto Rosso), Penn (Rapunzel) e le sorelle Elsa e Anna. Vite comuni, fra lavoro, università e amici, con i vari problemi, i vari sogni e le varie speranze. Una festa di Halloween in cui niente andrà per il verso giusto farà incrociare queste dodici vite, riportandole sulle tracce di un omicidio dietro al quale si celano storie dimenticate e loschi personaggi, dove nulla è come sembra e che, apparentemente, sembrano collegate all'azione del serial killer che terrorizza Garden Hill, da tutti conosciuto come "il Lupo". E, a mano a mano che le cose si faranno più complicate e pericolose, il lieto fine sembrerà essere sempre più lontano...o forse no?
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 4
 
Interludio
 
Casa Garcìa, Poppy Street n. 9
 
Proprio come si era aspettata, il suo sesto senso sulle fregature non aveva fallito neppure quella volta, e il sospetto che quella Roxanne Davies a cui lei stava incoscientemente per affidare suo figlio fosse una delle tante sbandate di dubbia credibilità divenne quasi una certezza.
Non era bastato quel ritardo colossale con cui si era presentata: quando aveva aperto la porta e se l’era ritrovata di fronte, Esmeralda era stata vittima di uno shock.
La pseudo baby-sitter era vestita con un paio di jeans con degli strappi vertiginosi all’altezza delle ginocchia, una maglietta bianca che, pur essendo ottobre inoltrato, lasciava scoperto l’ombelico – al quale era stato praticato un piercing –, anfibi neri e una felpa rossa con il cappuccio che aveva avuto decisamente troppi incontri ravvicinati con la candeggina. A completare il quadro ci si metteva un make-up pesantissimo e marcato, soprattutto il rossetto, di uno sfavillante rosso vermiglio.
Esmeralda provò il fortissimo impulso di richiudere la porta seduta stante, ma si trattenne.
- Buongiorno! Posso entrare?- trillò Roxanne, facendosi strada in casa senza attendere la risposta. Esmeralda non rispose, e richiuse la porta d’ingresso con un gesto secco nella speranza che l’altra comprendesse il suo nervosismo – tentativo peraltro vano.
Roxanne si tolse la felpa di dosso come se si trovasse a casa sua e la gettò sulla prima sedia che le capitò a tiro, prendendo a guardarsi intorno. Esmeralda incrociò le braccia al petto, sempre più innervosita.
- Piccola come casa - commentò la baby-sitter.- Me l’aspettavo più grande.
- E io mi aspettavo un po’ più di puntualità!- sbottò Esmeralda tra i denti, trattenendosi dall’aggiungere e di educazione alla frase. Roxanne sgranò gli occhi, guardandola come non riuscisse a capire cosa aveva appena detto, ma dopo due secondi sfoderò un sorriso a trentadue denti.
- Beh, che vuoi che siano cinque minuti di ritardo?- chiese con noncuranza.
- Cinque minuti, niente; venti, invece, sono tutt’altra cosa - ribatté l’altra, aggiungendo alla lista di difetti che aveva appena iniziato a compilare su quella ragazza anche il fatto che non le avesse dato del lei; ma non se la prese troppo. Da che si ricordasse, nessuno in vita sua si era mai sognato di chiamarla signora.- Comunque, se non ti dispiace, la prossima volta gradirei che fossi qui nell’ora stabilita.
(Ammesso e non concesso che ci sarà, una prossima volta).
Roxanne sbuffò sfacciatamente, alzando gli occhi al cielo, ma si rassegnò ad annuire. Un attimo dopo, il sorriso a trentadue denti tornò a spuntare sul suo volto.
- Allora…!- esordì allegramente.- Dov’è il piccolino?
Esmeralda le fece cenno di seguirla, conducendola nella stanza accanto mentre si ripeteva mentalmente la cifra stracciata che le aveva chiesto quella per badare a suo figlio: due dollari l’ora. Praticamente niente. Una baby-sitter comune ne avrebbe chiesti almeno cinque, che lei non si poteva permettere.
Roxanne ubbidì: la seconda camera equivaleva a una stanza da letto e dei giochi. Tutto ciò che era stato piazzato là dentro era su misura per un bambino: c’era un lettino con delle sbarre in modo che il pupo non cadesse mentre dormiva, una cassapanca che fungeva da fasciatoio, un passeggino, un cavalluccio a dondolo e una marea di giocattoli per la prima infanzia, cubetti colorati, pupazzi di peluche, palline di stoffa e, impilati ordinatamente in un angolo, vestiti e tutine sistemati accanto a uno scaffale dove trovavano posto creme e salviette disinfettanti e almeno tre scatole di pannolini.
Ultimo ma non ultimo, proprio sotto la finestra – chiusa a doppio giro di chiave – era collocato un box con all’interno cuscini imbottiti e altri giocattoli. E un fagottino che in quel momento pareva concentrato nell’assaggiare una paperella di gomma.
Esmeralda si avvicinò al box – un regalo del suo amico Chase; quando era nato suo figlio lei non poteva neppure permettersi del latte in polvere, figurarsi una culla o un box, così lui glieli aveva costruiti. Il suo amico era sempre stato bravissimo nei lavori creativi, specialmente quelli di falegnameria, e in quei due anni le aveva regalato non solo la culla e il box per il bimbo, ma anche un lettino quando era stato il momento e perfino il fasciatoio e lo scaffale in cui teneva tutti i detergenti e i pannolini. Alain scherzava spesso dicendo che, presto, lei si sarebbe ritrovata con una mobilia interamente nuova senza neppure bisogno di doverla chiedere.
Non appena si accorse della presenza della mamma, il bambino lasciò perdere la paperella e le rivolse un gran sorriso dai dentini piccoli e bianchissimi, iniziando a fare versetti senza senso e a saltellare sul sederino per la contentezza. Roxanne pensò che doveva avere poco meno di due anni, o giù di lì.
Esmeralda si chinò verso di lui, prendendolo in braccio e sollevandolo da terra.
- Ecco qui…- soffiò, sistemandosi meglio il bimbo fra le braccia.- Lui è Daniel - disse.
- Oddio, ma quant’è carino! Che bello, che bambolotto!- trillò Roxanne e, senza dare tempo a Esmeralda di replicare, protese le braccia verso di lui in modo che la madre glielo passasse. Il figlio della ragazza era davvero un bel bambino, cicciottello senza essere in sovrappeso, con i capelli castani e gli occhi neri e delle guanciotte tutte da sbaciucchiare. Azione, quest’ultima, che Roxy non tardò a mettere in pratica, lasciando sul volto di Daniel numerose sbavature rosse.
Esmeralda inarcò un sopracciglio, non sapendo se sentirsi rincuorata per quell’atteggiamento, perplessa per l’esuberanza della baby-sitter o disgustata per quelle tracce di rossetto sulle guance di suo figlio.
- E’ adottato?- domandò Roxanne, dopo due minuti buoni in cui non fece altro che strapazzarselo di abbracci e ricoprirlo di baci. Esmeralda scosse il capo.
- No, è mio.
- Davvero?- la baby-sitter sembrò perplessa.- Eppure, pensavo…il colore della pelle non è…
Esmeralda si trattenne a stento dal mandarla al diavolo. Era abituata a quel genere di domande, praticamente tutti quelli che non la conoscevano gliele ponevano. Lei era di origini ispaniche, sicché aveva la carnagione scura e i capelli neri. Daniel da parte sua aveva preso solo gli occhi, mentre lui aveva la pelle più chiara e i capelli castani. Spesso e volentieri le persone pensavano fosse stato adottato. O rubato dalla carrozzina, se erano in vena di malignità.
- Sì, il padre era americano - tagliò corto, infastidita, facendo cenno a Roxanne di seguirla di nuovo in cucina, mentre lei continuava a fare versetti e smorfie senza senso a suo figlio – il quale continuava imperterrito a fissarla serio come se avesse di fronte una povera ritardata. Esmeralda sghignazzò, ma subito tornò pensierosa: Daniel non si era mai trovato a proprio agio con gli estranei, praticamente le uniche persone con cui stava volentieri erano lei e gli “zii” Alain e Chase, e sperava con tutto il cuore che quella pazza scatenata che si era tirata in casa non lo lasciasse piangere fino a che non fosse tornata.
- Chi è il bambino più bello del mondo? Chi è il bambino più bello del mondo? Chi è…
- Qui c’è tutto quello che devi sapere - intervenne Esmeralda, bruscamente, nel tentativo di porre fine alla scena di Roxanne che faceva le boccacce a Daniel. Sfoderò un foglietto tutto scribacchiato da una delle tasche dei pantaloni e lo piantò sul tavolo.- Danny ha già pranzato, alle sedici e trenta gli devi dare un omogeneizzato. Li trovi nello scaffale a destra, a lui piacciono quelli all’albiccocca…Da bere, c’è del succo di frutta in frigorifero e dell’acqua. Non gli dare robaccia come aranciata o Coca Cola, ed evita il cioccolato, se proprio lo vuole solo un cucchiaino…E non metterlo di fronte ai cartoni animati per più di mezz’ora di fila, o diventa rintronato nel giro di dieci minuti…
- Okay…- borbottò Roxanne.- Senti, ma se c’è scritto tutto su quel foglio, basta che me lo lasci e ci penso io…
- Tanto ormai ho fatto tardi, preferisco spiegartelo di persona…- ribatté Esmeralda, acida.- Tu sai come si cambia un pannolino, vero?
- Certo che sì!- rispose prontamente la baby-sitter, ringraziando silenziosamente sia la sua capacità di mentire senza vergogna sia la faccia tosta ereditata dalla nonna. No, va bene, non aveva mai cambiato un pannolino in vita sua, ma…ehi, se lo sapevano fare le altre, allora avrebbe imparato anche lei, giusto?
- D’accordo. Qui - Esmeralda le indicò una lunga colonna sul foglio, in cui una serie di nomi erano affiancati da una sequenza di numeri.- Qui ci sono scritti tutti i numeri di telefono che ti serviranno se dovessi trovarti in difficoltà. Questo è il mio cellulare, questi due invece quelli dei miei amici, questo il recapito del luogo in cui lavoro…- aveva ritenuto opportuno scrivere non solo il numero della palestra dove insegnava, ma anche quello della signora da cui andava a fare le pulizie due mattine a settimana, e tanto per essere sicuri anche quello del Topsy Turvy e di un paio di sue colleghe – sebbene dubitava che quella stronza di Kate Nichols avrebbe mai risposto a una chiamata, specialmente da parte sua.- Hai capito? E se ti serve aiuto, scendi le scale e citofona a Trouillefou…
- Che? Tro…che cosa?
- Trouillefou. Alain Trouillefou - ripeté Esmeralda, appellandosi a tutta la sua – scarsa – pazienza.- E’ un amico, per qualunque cosa lui mi ha assicurato che ti potrà dare una mano…
(Nella speranza che non sia impegnato con una delle sue conquiste occasionali…Oh, santo Dio…!).
Si schiarì la voce.
- Hai capito? Vuoi che te lo scriva?
- No, grazie. Non ce ne sarà bisogno…nel caso, suonerò al nome più strano che troverò…- ghignò Roxanne, ritornando a fare smorfiette a Daniel. Esmeralda alzò gli occhi al cielo, più con atteggiamento di supplica che di esasperazione, quindi afferrò la borsa e infilò il suo vecchio cappotto nero sulla tuta da ginnastica che indossava.
- Io torno verso le diciotto di questa sera…- le disse.- E’ tutto chiaro?
- Cristallino. Vai tranquilla, io e Danny ci divertiremo un mondo, vero cucciolotto?- ammiccò Roxanne al bimbo, il quale manteneva stoicamente la sua serietà. Esmeralda sospirò, avvicinandosi a suo figlio e stampandogli un bacio a schiocco su una guancia.
- ‘A mamma!- fece Daniel, muovendo un braccino.
- Ciao, Danny. La mamma torna presto, okay? Fa’ il bravo…- quest’ultima frase avrebbe voluto dirla più a quella svitata che a suo figlio, ma ancora una volta si morse la lingua. Salutò entrambi con una mano, prima di prendere la porta e uscire.
Roxanne rimase in piedi tenendo in braccio Daniel, il quale fissava silenziosamente il punto oltre il quale sua madre era sparita. Era serio, molto calmo. La ragazza gli sorrise, facendolo trotterellare un po’ fra le braccia.
- Allora, piccolo, che vogliamo fare? Hai fame?- chiese.- Vediamo cosa c’è nella dispensa, vuoi?- Roxanne si avviò verso la credenza, iniziando a rovistarvi dentro.- Bingo!- esclamò, estraendo un intero barattolo di crema di cioccolato. Mise Daniel seduto sul tavolo, piazzandosi su una sedia di fronte a lui per tenerlo in equilibrio. Prese un cucchiaino e lo imboccò con un po’ di cioccolata spalmabile; il bambino parve gradire molto, e per la prima volta le rivolse un sorriso con la bocca sporca. Roxanne ridacchiò.
- Bravo che sei! Facciamo così: un cucchiaio a te e uno a me, poi di nuovo uno a te e uno a me…non lo diciamo alla mamma!- gli fece l’occhiolino, al che Daniel iniziò a ridere, prendendo un altro cucchiaio di cioccolato.
 
Commissariato di Garden Hill
 
Marion uscì dalla centrale di polizia stanca e di malumore, e scese in gradini con passo nervoso. Annabelle la seguì, un po’ titubante. Aveva accompagnato la sua amica al commissariato dopo che aveva subito lo scippo, in modo che potesse sporgere denuncia: l’agente che si era occupato di loro era stato molto gentile, ma le varie procedure burocratiche avevano rubato loro quasi tre ore, e alla fine delle stesse a Marion era stato comunicato che, certamente, si sarebbero impegnati per trovare il ladro, ma era bene che non si facesse troppe illusioni: raramente uno scippatore veniva arrestato e, se anche succedeva, ancora più raro era rivedere la merce che era stata rubata.
In poche parole, erano venute lì per niente.
Marion sbuffò, tirandosi indietro i capelli con una mano. Aveva iniziato a tirare un venticello gelido, e i ciuffi castani le ricadevano continuamente sul volto.
- Mi spiace, Marion…- mormorò Annabelle. L’altra si strinse nelle spalle.
- In fondo, sapevo che non avrei rivisto più la mia borsa. E’ un peccato, era un regalo della zia…
- A proposito, che ha detto?
- Chi? Zia Prudence? Oh, lei era più preoccupata per il fatto che fossi caduta e mi fossi sbucciata le mani…- Marion si strinse nuovamente nelle spalle.- Ora mi toccherà bloccare tutte le carte di credito e il bancomat, e ci vorrà un casino di tempo prima di poterne avere di nuove e farmi rifare i documenti…quello stronzo, chiunque sia spero che si rompa la testa con quella moto…!- borbottò; estrasse dalla tasca dei jeans il pacchetto di sigarette Marlboro che aveva chiesto ad Annabelle di comprarle un’ora prima, e ne accese una, cominciando a fumare nervosamente.- E stasera, chi lo sente mio zio! Appena saprà che mi hanno fregato cinquecento dollari e le carte di credito…
- Ma non è stata colpa tua!- protestò Annabelle.- Voglio dire, ti hanno rubato la borsa…
- Non gliene frega niente. Lui pensa solo ai suoi soldi di merda, e chi s’è visto s’è visto. Come ti spieghi che tutti quelli che chiedono un prestito a lui finiscono rovinati?
L’altra non rispose, chinando il capo. Si sistemò le pieghe dei jeans, i capelli scompigliati dal vento.
- Ti accompagno fino al campus - si offrì.
- No, lascia stare…- Marion si tolse la sigaretta di bocca, lasciandola cadere sul marciapiede e schiacciandola con un tacco della scarpa.- Quello che mi brucia di più è che c’era mezzo abbozzo del mio articolo, in quella fottuta borsa…
- Puoi sempre riscriverlo.
- Sì, ma sai che nervoso?- Marion la guardò, quindi si accese un’altra sigaretta.- Grazie per le sigarette, Annabelle…Domani ti restituisco i soldi.
- Non fa niente…
- Sai che non è vero - Marion le puntò lo sguardo addosso.- Ancora problemi a casa?
- Al solito - rispose Annabelle, evitando di dare una spiegazione precisa. Non le piaceva parlare di quel che accadeva quotidianamente nella sua famiglia, di norma non raccontava nulla a nessuno e si era sentita di svelare alcuni particolari alla sua amica solo dopo molto tempo, quando aveva compreso di potersi fidare di lei. Ma restava comunque il fatto che non erano situazioni piacevoli.- A proposito, sarà meglio che vada…- mormorò, sistemandosi meglio la borsa a tracolla.- Sicura che non vuoi che ti riaccompagni fino al tuo alloggio?
- No, non preoccuparti, tanto è solo un quarto d’ora di metro. E forse non vado nemmeno direttamente lì…Magari prima di andare a prepararmi per questa sera faccio un salto in ospedale…- rispose Marion, cupa. Spense anche quella sigaretta.- Piuttosto…che mi dici per quella festa?
- Eravamo d’accordo che ti avrei telefonato.
- Sì, ma…chi poteva saperlo, magari avevi cambiato idea…- Marion parve ritrovare brevemente il sorriso e assunse di nuovo quell’aria sorniona. Annabelle sospirò, scuotendo il capo con rassegnazione.
- Grazie, ma fossi in te non ci conterei troppo…- mormorò.- Ho un po’…di casini.
- Beh, la speranza è l’ultima a morire, dico bene?- Marion si allontanò, salutandola con una mano.- Ci si sente, chica!
Svoltò l’angolo, scoccando un’occhiata all’orologio. Era quasi mezzogiorno e mezzo, non certo l’orario di visite all’ospedale di Garden Hill…ma avrebbe fatto un tentativo.
Aveva bisogno di zio Richard.
 
Villa Storm, Thorned Rose n. 12
 
Christopher White sbuffò, rialzandosi da terra e abbandonando il rastrello sull’erba, asciugandosi le gocce di sudore dalla fronte. Sebbene fosse fine ottobre, quel giorno faceva insolitamente caldo, e il sole di mezzogiorno continuava a battergli prepotentemente sul capo. Si maledisse per non aver preso un berretto. Legato all’esterno della villa con il guinzaglio avvolto intorno a una delle sbarre di ferro del cancello, il suo Terranova abbaiò, forse anche lui infastidito dal caldo. O semplicemente stufo di starsene lì.
- Sven!- lo riprese il ragazzo.- E dai, fai il bravo! Lo sai che non posso farti entrare!
Il Terranova – un bestione di quasi trentacinque chili, Christopher si rimproverava spesso di dargli troppo da mangiare – abbaiò un’altra volta, quindi si accucciò sul marciapiede con un guaito, prendendo a muovere tristemente la coda. Il ragazzo sbuffò nuovamente, togliendosi di dosso la giacca e tornando a raccogliere le foglie secche dal giardino.
Spesso si domandava perché diamine non avesse dato ascolto ai suoi genitori e non fosse diventato avvocato, a quest’ora avrebbe avuto molti meno mal di schiena e qualche soldo in tasca in più, ma per una testa dura come la sua la facoltà di legge certamente non avrebbe sprecato né tempo né denaro, e dunque eccolo lì, a lavorare come giardiniere a ore nelle case dei ricchi. Fortunatamente, la villa di Nathan Storm non aveva un giardino come quello dei Woods: lì, piante esotiche e aiuole fiorite spuntavano da ogni dove, e lui impiegava tutta la mattina solo per curarsene, quando andava da loro. Invece, il giardino del numero 12 di Thorned Rose era…quasi un cimitero dei fiori.
Era molto ampio, quasi il doppio della proprietà dei Woods e perfino più grande di quello dei King, ma non c’era altro se non un vialetto acciottolato e una distesa di erba ben curata. Niente alberi, fatta eccezione per un salice piangente posto ai confini occidentali della cancellata, quest’ultima costituita da sbarre di ferro scuro che terminava in spuntoni appuntiti. L’unico elemento vagamente floreale là dentro era rappresentato da un’aiuola di rose rampicanti sulla fiancata posteriore della casa, ma si trattava più di un cespuglio incolto di rovi che altro, dal momento che in quei cinque anni che lavorava lì, Christopher avrà visto sì e no un paio di boccioli striminziti spuntare in mezzo a quella selva, e nessuno durava abbastanza a lungo da fiorire.
E – questa era una sensazione che Christopher sapeva rasentare l’idiozia, ma nonostante ciò era sempre in grado di mettergli i brividi quando ci pensava – sembrava quasi che non solo il giardino, ma anche l’intera casa, fossero immersi nel silenzio e nell’immobilità assoluta. Come se il tempo si fosse fermato e non avesse nessuna intenzione di riprendere a correre.
Il ragazzo ringraziava sempre che, dato il poco lavoro, lui dovesse venire in quella casa solo una volta la settimana e il tempo che vi trascorreva fosse di poche ore, perché l’ambiente era inquietante.
La villa di Storm era a due piani, più la soffitta, ed era imponente: la signora Dallas, la governante, una volta gli aveva detto che contava ben ventidue stanze. Non aveva nulla di pretenzioso come invece l’avevano l’abitazione di John King o dell’armatore Water, ma sembrava che la famiglia Addams ne avesse fatto la residenza autunnale. Le pareti esterne erano dipinte di grigio scuro, i tetto spiovente aveva le tegole appuntite; una scalinata in pietra conduceva alla veranda di marmo da cui si aveva accesso all’interno, mentre sulla ringhiera della scala e dei terrazzi, invece dei pomelli, vi erano delle statue di gargoyle e mostri. Christopher si domandava spesso da dove provenisse quel dubbio gusto per il macabro, ma d’altra parte non si sarebbe potuto aspettare di meno da uno la cui casa era sorvegliata da telecamere a circuito chiuso.
Il ragazzo se n’era accorto solo diverso tempo dopo aver cominciato a lavorare lì, e per un attimo aveva anche creduto di essere capitato a casa di un serial killer. Ben cinque telecamere puntate verso l’esterno sorvegliavano chi entrava e chi usciva, ed erano state piazzate in modo da non lasciare nessun angolo del giardino non visto.
Il fatto più sconcertante, inoltre, era che estate e inverno, giorno e notte, porte e soprattutto finestre della villa rimanevano sbarrate, specialmente al piano superiore. Di tanto in tanto, la signora Dallas, Howard e sua moglie Ginny o qualcun altro dei domestici spalancavano le ante del piano terra per far prendere un po’ di aria e luce alle stanze, ma a Christopher non era mai capitato di vedere aprirsi anche le finestre del secondo piano, che rimanevano sempre chiuse, serrate. L’ambiente interno era perennemente in penombra: qualche volta il ragazzo era entrato in cucina invitato dalla signora Dallas per offrirgli un bicchiere d’acqua o di succo d’arancia, e aveva potuto vedere con i suoi occhi che la luce era appena sufficiente per vedere dove si mettevano i piedi.
Aveva provato anche a fare un paio di domande sul proprietario, ma in quelle occasioni l’affabilità e la gentilezza del personale di servizio si trasformava in stoico mutismo, e Christopher si era dovuto accontentare di quel che dicevano in città, ovvero che nessuno aveva più visto Nathan Storm uscire dalla sua villa da ben dieci anni.
Christopher venne distratto dalle sue elucubrazioni mentali da Sven, che aveva ripreso ad abbaiare. Abbandonò il rastrello sull’erba, ben deciso a gridare al cane di smetterla, ma quando alzò il capo vide che c’era un motivo per tutta quell’agitazione: l’automobile del postino si era appena accostata alla cancellata, e l’uomo aveva fatto scivolare una busta nella cassetta delle lettere.
Quando fu rimontato in macchina e se ne fu andato, Christopher udì la porta aprirsi, e la signora Dallas fare capolino sulla soglia.
- Posta!- annunciò il giardiniere, con giovialità.
- Sì, lo so, sono uscita apposta…- sbuffò la donna, iniziando a scendere i gradini che Christopher ringraziava tutti i giorni essere di pietra e non di legno. In caso contrario, era sicuro che sarebbero crollati sotto il non indifferente peso della governante.
Okay, va bene, la signora Dallas non era una balena, ma neppure una piuma, se era per quello. La conosceva da anni, e non ricordava che fosse mai stata magra. Era una donna sulla sessantina – supponeva, almeno, l’unica volta che si era azzardato a chiederle l’età si era beccato una mestolata sulla capoccia! – più tonda che alta, con i capelli grigi tenuti ordinati in un’anonima crocchia. Era sempre vestita in maniera dimessa, con un vestito semplice e un grembiule, esattamente come più o meno tutto il resto del personale di servizio. Christopher si chiedeva se fosse Storm a imporre quel tipo di vestiario.
- Aspetta, Ruth, te la vado a prendere io!- si offrì, mollando il rastrello a terra quando la vide arrancare in direzione del vialetto.
- Tu fa’ il tuo lavoro, o finirai per venire licenziato!- in barba alla mole, la signora Dallas aveva già raggiunto la cassetta della posta, e ne aveva estratto le lettere. Christopher non riprese il rastrello, rimanendo a guardarla mentre passava le buste a una a una, tornando verso la porta.
- Novità?
- Che?- l’attenzione della signora Dallas era stata attirata da una busta in particolare, color crema.- No, nessuna…ma a te che importa, lavativo?!
- Era solo per chiedere…!- Christopher rise, riprendendo il rastrello in mano e ricominciando a rimettere a posto le foglie secche.- Lavori per l’uomo più misterioso di tutta la città, devi pur aspettarti qualche domanda…!
- Lo sai che il signor Storm non vuole che si parli di lui. Vedi di stare zitto, o uno di questi giorni finiremo tutti per essere licenziati per colpa tua…- la signora Dallas era ancora concentrata su quella busta color crema, ma non si azzardava ad aprirla. Riprese a salire i gradini.
- Beh, vedila dal lato positivo: se vieni licenziata, poi più niente t’impedirà di sparlare a destra e a manca del tuo ex capo!- Christopher rise, mentre la donna roteò gli occhi, fingendosi esasperata.
- Ne hai per molto?- gli chiese.
- No, un paio di minuti e ho finito.
- Allora passa dentro dalla porta sul retro, dico a Ginny di prepararti un caffè. Non farti sentire, mi raccomando…lo sai che il signor Storm non vuole che…
- …non vuole che facciate entrare nessuno senza il suo esplicito consenso, sì. Grazie, Ruth.
La signora Dallas rivolse al ragazzo un sorriso bonario, quindi rientrò. Una volta dentro, quando si fu assicurata che la porta d’ingresso fosse ben chiusa, abbandonò le lettere – più che altro bollette della luce e qualche raccomandata, tutte cose per le quali il signor Storm aveva delegato Howard affinché se ne occupasse, a meno di qualche disguido che richiedesse il suo personale intervento – su un cassettone posto accanto alla parete, tranne la busta color crema. Ne lesse per l’ennesima volta l’intestazione, aggrottando le sopracciglia.
- Ruth, cosa c’è? Brutte notizie?
Ginny, una donna sui quarantacinque, magra e non molto alta, con i capelli castani un po’ in disordine, si era affacciata sulla soglia della cucina, osservando la scena. La signora Dallas scosse il capo, facendole cenno di avvicinarsi.
- Notizie, nulla di più. Non sono sicura se siano buone o cattive, Ginny…- le passò la busta color crema, che la donna non si fece scrupolo ad aprire e a leggerne il contenuto. Si trattava di un invito, l’invito a un ballo.
- Dio, da quanto tempo non vedevo una cosa simile!- esclamò, mantenendo tuttavia un tono di voce basso, confidenziale, quasi sussurrando alla signora Dallas.- Quando è stata l’ultima volta, Ruth? Tu te lo ricordi?
- Esattamente dieci anni fa. Per il matrimonio di Hans von Schneider…la notte in cui…- non terminò la frase, scambiandosi un’occhiata eloquente con Ginny.
- E’ vero. Anche…anche questa volta si tratta del Grand Hotel. Pensi che…- la donna si umettò le labbra.- Pensi che sia il caso di riferirglielo, o…
- Dovreste lasciar perdere - dichiarò all’improvviso una voce maschile, facendole sobbalzare. Howard, il marito di Ginny, si avvicinò a grandi passi, strappando alla moglie la busta dalle mani.
- Ehi!- protestò lei.- Ma ti sembra il modo?!
- Abbassate la voce!- bisbigliò la signora Dallas.- Volete farvi sentire da tutto il vicinato?
- Quale vicinato? Siamo a ben tre chilometri dalla città, dove lo vedi il vicinato, Ruth?- al trio si aggiunse una quarta persona, una ragazzetta con i capelli biondo paglia raccolti in una coda di cavallo, che indossava solo un grembiule sopra dei jeans lisi e strappati, anfibi neri, una t-shirt con lo stampo di una pantera e almeno una decina di bracciali con le borchie intorno ai polsi. Aveva un piercing al naso e masticava rumorosamente un chewing-gum.
- Jules, torna a lavare i piatti!- le ordinò Ginny, venendo bellamente ignorata.
- Che cos’è?- la ragazza bionda si avvicinò con curiosità, parlando a voce alta come se nulla fosse.
- Non è un tuo problema, torna a lavorare!- bisbigliò Howard.
- Papà, finiscila di rompere!- borbottò Jules, strappandogli di mano l’invito e leggendone le righe.- Sgranò gli occhi.- Oh, cazzo! Ma è una ficata d’invito quella che sto leggendo?!
- Usa quel linguaggio un’altra volta e giuro che ti lavo la bocca con il detersivo!- minacciò Ginny, riprendendosi la busta. La signora Dallas pensò che quel povero pezzo di carta stesse diventando come un bagaglio smarrito in aeroporto, passava da una mano all’altra senza trovare una collocazione.
- Porca vacca, ma è per il Fantasma dell’Opera quella meraviglia?!- trillò Jules, cercando di riprendersi l’invito.- No, ma per favore! Tutto questo spreco per Double-Face di sopra che di sicuro non ci andrà…! Vacca boia, se fosse per me…
- Ma visto e considerato che non lo è, Jules, modera l’entusiasmo e soprattutto i termini e torna al lavoro!- ringhiò Howard.- Il signor Storm è già stato abbastanza gentile da assumerti dopo che ti sei fatta sbattere fuori da tutti i locali di Garden Hill, vedi di non…
- Ruth, ma andiamo! Si tratta di una festa come di quelle che solo a Hollywood ne fanno! Storm di sicuro non ci andrà, e non c’è il nominativo…non potresti…ehm…fare uno strappo alla regola e…
- Jules, tu non vai da nessuna parte!- dichiarò fermamente Ginny.- Dov’è Garrett? E Sean? Dove diamine sono finiti?
- Saranno a giocare a carte da qualche parte…Comunque, Ruth…
- …comunque, Jules, su una cosa hai ragione: Storm non ci andrà - Howard tolse nuovamente di mano l’invito alla moglie e lo gettò nella spazzatura poco distante. La signora Dallas si precipitò a raccoglierlo.
- Howard, ma sei impazzito? Non puoi gettare via la posta senza prima aver informato il signor Storm!
- Ho semplicemente fatto ciò che farà lui quando gli consegnerai quell’invito. Sai bene che non ci andrà. Non è mai uscito da questa casa dalla notte dell’incidente, perché dovrebbe farlo ora?
- In effetti, Ruth…- s’intromise timidamente Ginny.- Sei sicura che sia il caso di dirglielo? Non vorrei mai che si arrabbiasse…Lo sai com’è, quando perde la pazienza…
- Non me lo dire!- borbottò Jules, incrociando le braccia al petto.- Ho ancora nelle orecchie la sua voce l’ultima volta che mi ha urlato dietro. Tutto per uno stupido caffè…
- Magari avresti anche potuto evitare di rovesciarlo sui documenti, il caffè.
- Non è stata colpa mia. Me lo sono ritrovato di fronte all’improvviso, e con quella faccia sembra John Merrick direttamente dal diciannovesimo secolo…
- Forse è stato proprio per il fatto che l’hai fissato con disgusto che si è arrabbiato. E sputa quella gomma, non ne posso più di vederti ruminare come una zebra!
- In ogni caso, non abbiamo il diritto di decidere per lui - dichiarò la signora Dallas, cercando di lisciare l’invito alla bell’e meglio.- Devo dirglielo. Poi, si vedrà.
Senza attendere risposta, la donna prese a salire le scale che conducevano al piano di sopra, reggendosi con una mano alla ringhiera di legno di ciliegio. Al secondo piano della villa la luce era ancora più esigua, e le ci volle qualche istante prima di abituarsi. Il signor Storm viveva praticamente nel suo studio, da cui usciva pochissimo, dove lavorava, dove si faceva portare i pasti e da cui comunicava con il mondo esterno solo via computer o, raramente, con il telefono. Il suo stile di vita era nettamente cambiato dopo l’incidente che gli aveva deturpato il volto, così anche come il suo carattere: era sempre stato un tipo abbastanza schivo, poco incline alla confidenza facile, ma dopo quel che era successo tendeva ad arrabbiarsi con più facilità che in passato, e per questioni di gran lunga più futili, tanto che spesso neppure loro sapevano come comportarsi. Vivevano con uno spettro, con un padrone che si limitava a chiedere e ordinare, e che non vedevano quasi mai.
La signora Dallas si avvicinò alla porta dello studio dove sapeva che lui fosse, e bussò con cautela.
- Chi è?- fece una voce dall’esterno, calda e profonda, ma assolutamente priva d’intonazione. La signora Dallas si schiarì nervosamente la voce.
- Sono io, signor Storm. E’ arrivata…posta.
- Avevo disposto che fosse Howard ad occuparsene.
Male. Molto male. Stavolta si riuscivano ad avvertire le prime punte di irritazione. La signora Dallas perse un profondo respiro.
- Lo so, signor Storm, ma…ho ritenuto opportuno informarla, stavolta. E’…è arrivato un invito per lei. L’invito a…un ballo in onore della festa di Ognissanti…- lesse, con parecchia fatica data la poca luce.
- Grazie per la premura, signora Dallas, ma può gettarlo via.
- Ne…ne è sicuro?- insistette la donna. Non l’avrebbe mai ammesso, ma lei lavorava in quella casa da vent’anni, da quando ancora c’erano i genitori del signor Storm, e si poteva dire che l’avesse visto crescere: le dispiaceva che si fosse chiuso in quell’isolamento. Uscire gli avrebbe fatto bene, nonostante…beh, quello.- E’…da parte di una certa Caroline Woods. La figlia del rettore, sa? Penso che potrebbe prendere in considerazione l’idea di…
- Ho detto di gettarlo via, signora Dallas. La ringrazio, ma non insista.
La donna assunse un’espressione delusa, fissando la porta. Emise un sospiro, chinando il capo.
- Come desidera, signore.
Non ottenne altra risposta. Ridiscese le scale, e si diresse in salotto.
Alle sue spalle, Jules si lasciò sfuggire un gemito di disappunto quando la signora Dallas gettò l’invito nel fuoco del camino.
 
Villa Storm, Thorned Rose n. 12, esterno
 
Dall’altra parte della strada, Ryan Black era appostato da più di un’ora in attesa che l’invito fosse consegnato a Nathan Storm e, ora che aveva visto l’auto del postino allontanarsi e la vecchia governante rientrare in casa con il plico di lettere, poteva dirsi soddisfatto.
Si allontanò. Aveva creduto di non rivedere più quel bastardo di Storm dieci anni prima, quando lui e i suoi compagni avevano tentato di bruciarlo vivo, ma era sopravvissuto e loro avevano quasi rischiato di venire ammazzati dal Principe per non essere riusciti a ucciderlo. Quella era stata la fine che aveva fatto Riley, due anni dopo: morto ammazzato. Non dal Principe, era finito accoltellato in una rissa, ma di fatto loro erano rimasti prima in quattro, e poi con il passare degli anni in due: uno era finito in galera per stupro, e l’altro era morto per overdose.
Alla fine erano rimasti solo lui e Harold. Ma Harold era un figlio di papà con i soldi, e non appena aveva visto che le cose si mettevano male aveva cercato di tirarsi fuori. Non ci era riuscito del tutto.
Ryan estrasse il walkie-talkie dalla radio, portandoselo all’orecchio.
- Sono Harold - rispose una voce dall’altra parte. Notò che era impaurita e nervosa, e questo lo disgustò.
- Obiettivo raggiunto. I Woods hanno invitato anche Storm. Vuol dire che sabato la casa sarà libera.
- Chi te lo assicura? E’ da dieci fottuti anni che non esce, perché dovrebbe farlo adesso?
- Il ballo sarà al Grand Hotel, e ci saranno anche i von Schneider. Se sta continuando ad indagare, allora non potrà mancare. Il Principe vuole che recuperiamo quei documenti.
- Non è che stiamo entrando in casa del Lupo in persona, eh? E poi, in due siamo troppo pochi. Occorre qualcun altro che faccia da palo.
- Non preoccuparti, so benissimo a chi rivolgermi. Tu tieniti pronto.
Senza aggiungere altro né salutare, Ryan chiuse la conversazione, e prese ad avviarsi tranquillamente verso quella che era diventata casa sua da lì a qualche anno. Era un’abitazione squallida, e la puttana che gli toccava sopportare era anche peggio, ma allora non aveva potuto fare altrimenti: era agli esordi nella sua carriera di pusher, il Principe gli stava col fiato sul collo e la polizia ancora di più. Sposare Theresa Nichols era stato inevitabile, ma in fondo aveva tratto dei vantaggi da quel matrimonio.
Sua moglie era una depressa cronica che dipendeva totalmente da lui, faceva tutto ciò che le ordinava, e poteva divertirsi a estirpare denaro e favori da quella famiglia di molluschi che aveva acquisito: un suocero vedovo e cardiopatico, un ragazzino che faceva tanto il gradasso ma che di fatto aveva ancora il latte agli angoli della bocca, una sgualdrina ancora più troia della sua gentil consorte, una bambina sapurita che faceva di tutto per opporglisi fallendo miseramente e un handicappato in grado solo di mugolare.
Più facile a farsi che a dirsi. E, ora che ci pensava, suo suocero gli doveva un favore…
 
Piscina The Three Lilies, Garden Hill
 
Ariel riemerse dall’acqua, prendendo una rapida e generosa boccata d’aria prima di rituffarsi e riprendere lo stile a farfalla che suo padre le aveva imposto come tecnica alla fine dell’allenamento. Era l’ultima vasca. L’ultima vasca.
La ragazza fece una capriola sott’acqua prima di toccare con i palmi delle mani il muro che delimitava la fine della corsia, quindi riemerse in contemporanea al fischio acuto di suo padre. Anzi no, il suo allenatore. Era stato lui stesso a metterlo in chiaro sin dal primo giorno in cui era divenuto a tutti gli effetti il suo coach. Non appena entrambi mettevano piede in piscina, lui categoricamente cessava di essere papà e si trasformava nel Mister Triton Water.
- Abbiamo finito. Avanti, esci - più che un’esortazione, il tono di voce di suo padre rasentava più un ordine. Ariel rimase a mollo nell’acqua che odorava di cloro, muovendo appena gambe e braccia per mantenersi a galla.
- Posso restare ancora un po’ qui?- chiese.- Solo un’altra vasca a stile libero. Senza cronometro.
- No, Ariel, non oggi. Non siamo qui per divertirci, e il tempo che avevamo a disposizione è scaduto. Ho detto esci, avanti…
Ariel sospirò, nuotando lentamente verso la scaletta e togliendosi la cuffia. Suo padre le gettò l’accappatoio sulle spalle non appena fu completamente fuori dall’acqua: i lunghi capelli rossi erano bagnati e appiccicati al cranio. Aveva bisogno di una doccia, subito.
- Sei migliorata, ma puoi fare di più - Triton gettò un’occhiata al cronometro.- Solo trentadue secondi, stavolta. Brava, ma devi essere più veloce. Le Olimpiadi di Tokyo saranno fra pochi mesi, e il tuo tempo è nella media. Devi cercare di nuotare più velocemente, o non arriverai neppure alla fine della prima vasca che le altre atlete ti avranno già superata.
- Va bene, papà - soffiò Ariel, asciugandosi il volto con una manica dell’accappatoio. Trentadue secondi…decisamente troppi. Era sicura che tutte le altre ne avrebbero impiegati almeno venticinque per due vasche, se non di meno.
Il vociare di tutti i frequentatori della piscina – suo padre aveva richiesto al proprietario uno spazio di tempo privato ogni giorno affinché lei si potesse allenare, pagando un extra sull’iscrizione anche per tenere la piscina aperta più a lungo la sera – cominciò a riecheggiare sulle pareti, e Ariel e suo padre iniziarono ad avviarsi verso gli spogliatoi. Triton le avvolse un braccio intorno alle spalle.
- Cos’hai portato per pranzo, oggi?
- Due barrette e dell’insalata. Va bene?
- Certo. Ma cerca anche di mangiare qualcosa che contenga carboidrati di tanto in tanto. Senza esagerare, ma ti darebbe energia.
- Okay, papà.
Gli spogliatoi erano deserti. Ariel raccolse dal suo zainetto la saponetta e l’asciugamano ma, prima che potesse dirigersi verso le docce, suo padre la bloccò.
- Prima che tu vada, volevo chiederti una cosa…
Ariel annuì, sedendosi su una panca quasi istintivamente. Era una scena che si ripeteva spesso: quando Triton annunciava di dover dire qualcosa a qualcuno, sia lei che le sue sorelle dovevano immediatamente filare in salotto, sedersi sul divano e attendere quanto necessario finché lui non avesse finito. L’uomo le rivolse un debole sorriso.
- Stamattina tua madre e Alana mi hanno detto che non hai ancora scelto il tuo abito per il ballo. E’ sabato prossimo, quanto intendi aspettare? Vuoi ridurti all’ultimo momento?
- Io…io a dire il vero…- Ariel si mordicchiò il labbro inferiore, colta alla sprovvista.- Io a dire il vero non pensavo di andarci.
- Hai ricevuto un invito, no?
- Sì, ma…l’ho gettato via.
(Per mettere i puntini sulle i, è stata la Bharrahaji a buttarlo…spero).
Triton sospirò, passandosi una mano prima fra i capelli, poi accarezzandosi la barba lunga e bianca. Proprio come quando era irritato.
- E si può sapere perché lo hai fatto?
- Ma…io…- Ariel si accorse di stare balbettando, il che non avrebbe fatto altro che far innervosire ancora di più Triton. Cercò di riprendersi.- Io pensavo…sai, gli allenamenti…tu stesso mi dici sempre che non posso permettermi di perdere tempo…credevo che nemmeno tu saresti stato d’accordo…
- In effetti, non mi piace molto che tu ti distragga dai tuoi obiettivi, ma hai fatto una sciocchezza a gettare via l’invito senza dirmelo. Ora tua madre non potrà venire con te perché dovrà cederti il suo. Ma non è un problema, so che hai sale in zucca, mi fido di te. Ma ricordati, Ariel, che c’è un motivo per cui devi andare a quella festa, anche se sarai da sola: i Woods sono persone molto influenti, e ti hanno invitata perché sanno che sei una promessa nel nuoto, l'atleta di questa città. Questo potrebbe agevolarti, una volta arrivata a Tokyo. E poi, pensa al mio lavoro. E’ una questione di rapporti sociali, capisci?
Ariel annuì a denti stretti, chinando il capo. Avrebbe dovuto aspettarselo: lei a quella festa non ci voleva andare, ma suo padre era pronto ad andar contro tutti i suoi principi pur di mantenere buoni i rapporti con le altre famiglie influenti di Garden Hill. Da che ricordasse era sempre stato così.
Lei proveniva da una famiglia…perfetta. In tutto e per tutto.
Suo padre, Triton Water, era un armatore molto ricco, proprietario di ben due compagnie navali. Sua madre Athena era una giornalista televisiva parecchio famosa a Garden Hill. Ariel aveva sei sorelle maggiori, e tutte loro erano eccellenti in qualcosa: Aquata aveva avuto il QI più alto del liceo ed era uscita con il punteggio massimo all’università, e tutt’ora dirigeva un acquario come biologa marina; Andrina era la prima ballerina dell’Opéra di New York, e ora lavorava lì; Arista aveva vinto al concorso di bellezza di Miss America; Attina era due volte medaglia olimpica di pallavolo; Adella era il Primo Violino dell’orchestra di Garden Hill e Alana aveva recitato come comparsa in un film candidato al Premio Oscar e per lei si apriva una radiosa carriera di attrice.
E lei, Ariel?
Lei era un’ottima nuotatrice. Le piaceva stare in acqua, lo considerava il suo ambiente, forse si poteva dire che stesse meglio in piscina che a casa sua, ma per tutta la vita aveva sempre sentito la necessità di confrontarsi con quegli obiettivi irraggiungibili che erano i suoi genitori e le sue sorelle. Athena le ripeteva spesso di non preoccuparsi, che ognuno era bello e speciale per quello che era, e che lei doveva fare della sua vita quello che più riteneva giusto.
Triton non era dello stesso parere, e non appena si era accorto del talento di sua figlia l’aveva messa sotto torchio, con allenamenti che duravano anche tutto il giorno, spesso facendole saltare la scuola per permetterle di stare più ore in piscina. Era per quello che Ariel spesso non studiava, non faceva i compiti e non aveva amici. E, con il tempo, si era sempre più immedesimata nella mentalità di suo padre. Per lei esisteva solo il nuoto, nulla più.
Ma di tanto in tanto esisteva lo strappo alla regola. L’armatore Water era un uomo importante, in vista in tutta la città, ed era normale che dovesse mantenere delle buone relazioni sociali: motivo per il quale lei e le sue sorelle erano spesso costrette a partecipare a ricevimenti a cui a nessuna di loro andava di prendere parte.
Era sempre così: se volevi partecipare a una festa per divertirti, allora tanto valeva che ti mettevi il cuore in pace e ci rinunciavi; ma se invece si trattava di tenere buoni gli avvoltoi benestanti della città, allora potevi benissimo diventare carne da macello senza tanti complimenti.
Triton le diede un buffetto su una guancia, sorridendole.
- Non preoccuparti. Tua madre non sarà dispiaciuta, vedrai. Ora va’ a farti una doccia e intanto pensa al vestito che ti piacerebbe indossare. Occorrerà tempo per confezionarlo.
Ariel annuì nuovamente, alzandosi in piedi e dirigendosi verso le docce con la morte nel cuore.
 
Covo del Lupo (da qualche parte in Tulip Street)
 
Il telefono squillò un paio di volte, quindi si accese la spia rossa della segreteria.
Il Lupo la lasciò fare, senza alzarsi dalla sedia su cui era seduto, nel buio più totale.
Poggiato sul tavolino, c’era un articolo di giornale in prima pagina, riguardante la morte di Hans von Schneider. Poco più sotto, un trafiletto annunciava la fuga di un uomo da un ospedale psichiatrico di Boston.
- Sono io - fece la voce nella segreteria, profonda e cavernosa, chiaramente truccata.- Obiettivo portato a termine. Sabato notte, al Grand Hotel. Ti farò avere più informazioni in seguito. Ricordatelo: sabato notte, al Grand Hotel.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Questo capitolo era necessario per diverse questioni che avrete certamente compreso. Dal prossimo finalmente avremo Blanche, Anna ed Elsa (Rapunzel comparirà più tardi) e il prossimo ancora sarà dedicato essenzialmente ad Annabelle e alla sua famiglia, all’appuntamento serale fra i fratelli von Schneider e Caroline e Philip, alla cena indigesta fra Marione John King e a Jasmine, e sarà anche l’ultimo di una sezione che vedrà presentate le varie protagoniste e le motivazioni che le indurranno a partecipare alla festa di Halloween…serata in cui, come avrete intuito, ne capiteranno di tutti i colori, e non solo presso il Grand Hotel. Dopo quest’altro, si avrà un ulteriore macro-capitolo che vedrà i vari preparativi per il ballo e poi, finalmente…la grande serata! Ne vedremo delle belle, statene certe :).
Dunque, sorpresona: Ryan, il marito della sorella di Annabelle, era anche uno dei cinque teppisti che hanno conciato Storm per le feste (per la precisione, era il capo). E…chi si cela sotto il nome de il Principe? Chi è Harold e cosa hanno in mente di fare lui e Ryan? E ancora, che combina il Lupo?
Dai prossimi capitoli faremo la conoscenza di zio Richard, del Sultano e di sua moglie Sharifah, di zio John e di Grimilde, della famiglia di Annabelle al completo e di zia Prudence, oltre a naturalmente le protagoniste mancanti.
So che per ora Annabelle non è molto simpatica, ma miglioerà presto, vedrete ;).
Rispondo alle domande di LadyAndromeda: allora, il nome Alain l’ho preso in prestito da una storia che ha scritto una mia amica, in cui ha chiamato Clopin appunto con questo nome. Quanto a Chase…allora, ho cercato diverse varianti per il nome Quasimodo, da Quentin, Carl e simili, e alla fine questo mi è sembrato il più adatto. Il padre di Daniel no, non è Febo e se ci sarà Fiordaliso…non era contemplata all’inizio ma mi hai fatto venire voglia di inserirla, quindi sì ;).
Ringrazio Landil, Anamique, Jessica21, Princess Vanilla e LadyAndromeda per aver recensito :).
Ciao a tutti!
Beauty
  
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