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Autore: Noal_Writer    13/04/2014    0 recensioni
Questa storia è una storia che ho scritto in primo superiore e che ho trovato adesso a distanza di due anni. Parla di una ragazza che accecata dall'amore per un compagno di scuola, quando capisce che quell'amore non fa più per lei, è ormai troppo tardi e si ritrova vittima della violenza di quel ragazzo. Durante la narrazione sono presenti delle riflessioni introspettive, tipiche del carattere adolescenziale, e se siete adolescenti anche voi, tormentati da una relazione, probabilmente questa storia vi coinvolgerà emotivamente.
Vi prego recensite, mi interessa molto il vostro parere :)
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CIECA FIDUCIA
Ero stesa su quello scomodo letto dell’ospedale, in una stanza che aveva l’odore di spirito e medicine. Sentivo anche un leggero profumo di vaniglia, inconfondibile; era della donna che mi stava accanto e che mi sussurrava nell’orecchio che sarebbe andato tutto bene perché lei ora era qui con me. Quel suo sguardo preoccupato era tipico di tutte le mamme che vedono la propria figlia in quello stato, ma quel sorriso a trentadue denti era quello che ogni persona mostra ad un’altra se la ama, un sorriso vero. Quello stesso sorriso lo avevo avuto anch’io stampato in faccia, ma non lo avevo mostrato proprio alla persona giusta.
Si chiamava Christian, lo avevo conosciuto a scuola; io facevo il primo liceo, lui il quarto. Lo avevo visto per la prima volta seduto in un angolo a piangere nell’atrio, con gli occhi sbarrati tra le sue mani. Ero appena arrivata a scuola e siccome non c’era ancora nessun mio compagno di classe, avevo deciso di avvicinarmi a lui. Lo chiamai appoggiando la mia mano sulla sua spalla, ma lui mi respinse:
“ Chi sei? E che vuoi?”
“Niente, sono Marta. Volevo solo sapere cosa ti è successo!”
“ Non sono affari tuoi!”
Questa sua ultima risposta mi fece perdere la voglia di rimanere lì e me ne andai. Lui mi bloccò.
“Rimani qua, scusa è che… beh, forse non ti interessa! … comunque piacere Christian!”
Suonò la campanella e lui mi disse che se avessi avuto voglia, avremmo potuto incontrarci allo stesso posto durante la ricreazione. In quell’istante lo ignorai, ma tornai lì. Incominciammo a parlare e da lì iniziò tutto. Mi disse che quel giorno era un anno che era diventato orfano; viveva in una casa- famiglia ed era costretto ad andare a scuola per prendere almeno il diploma. Nessuno là dentro poteva sostituire l’importanza dei suoi genitori, quindi non aveva l’umore giusto per restare in quell’ambiente che neanche gli piaceva. Sfogò così tutto il suo dolore in delle lacrime che rendevano più lucidi i suoi occhi azzurri. Da quel giorno ci iniziammo a conoscere meglio e ci frequentammo. Lo so, era stata una fiducia a primo impatto da parte di entrambi, quasi cieca. Fin quando non arrivò quel giorno in cui gli mostrai quel sorriso che prometteva l’infinito, gli avevo giurato amore, ma era l’amore di una quattordicenne, quello che si spera duri per sempre, ma non si ha mai la serietà giusta per far sì che sia tale. Poi le nostre labbra si erano sfiorate ed ero diventata sua. Il nostro rapporto era sempre stato tranquillo ma intenso, però dopo due anni era entrata in discussione quella cosiddetta parola ‘Quotidianità’. La nostra relazione era diventata scontata, non mi sentivo più amata e avevo bisogno di ritrovare gli anni non vissuti da adolescente. Lo lasciai. Ho capito che lo sbaglio non è stato molto quello di lasciarlo, ma quello di avere fiducia cieca verso di lui. Io lo amavo, gli avevo anche affidato il mio corpo, anche quello era solo suo. Il problema a volte, però, non è amare, ma essere amati. Io gli avevo dato me stessa. Lui si sentiva amato così. Ma io?... Lui mi aveva fatto ridere, mi aveva trattata bene, da amica. Forse inizialmente l’amore c’era stato, ma era finito là. Questa era la spiegazione che gli avevo dato, e se ne era andato via, senza reagire. Poi era ritornato con foga. Mi aveva raggiunta nel garage di casa mia perché sapeva che a quell’ora tornavo da scuola. Stavo posando il mio motorino, in casa non c’era nessuno, il quartiere era vuoto. Aveva detto che voleva riprendersi qualcosa che gli apparteneva, qualcosa che gli avevo potuto dare solo io. Mi prese dalla camicia e mi sbattette contro il muro.
“Scemo ma che fai?”
“ Stai zitta.”
Mi tirò uno schiaffo sulla bocca per farmi tacere e mi cinse le labbra fra le sue mordendomele. Il suo respiro comprimeva il mio. Cercai poi di urlare, ma una mano finì dritta avvinghiata al mio collo e con l’altra mi strappò la camicia di dosso.
“Cretina, dimmi che mi ami”.
“No!”
Cercai di scappare. Gli diedi un calcio e lui cessò la presa. Mi rincorse, mi strinse il petto, poi le sue mani mi accarezzarono lievemente il profilo e si fiondarono sulla mia vita. Mi afferrò i leggins. Ora le mie unghie lo graffiarono, ma lui non accusò dolore, anzi mi spinse contro il pavimento. Adesso ero completamente nuda, nuda anche di pudore. Mi contorse la testa dall’altro lato. Una parte del cranio sbattette contro il suolo ruvido. Si avvicinò al mio orecchio e mi sussurrò con voce feroce: Sei mia!”
Quella ferocia fece diventare quel sussurro un urlo e le sue parole continuavano a rimbombarmi in testa. Racchiudevano un significato di possesso, ed avevo capito che ‘possesso’ era il sinonimo che Christian dava alla parola amore. Adesso il suo corpo predominava sul mio: era forte e violento. Io strillavo, continuavo a chiedere aiuto, ma lui mi zittiva con un bacio, me li rubava tutti. Era un ladro di anime e sentimenti. Poi una macchina si posò nel garage di fronte al mio. Christian scappò di corsa.
“ Mi fai schifo bastardo!”
La signora Luisa mi vide accasciata sul pavimento e mi raggiunse. Io cercavo di allontanarmi da lei il più possibile. Strusciavo come un verme con le ginocchi incollate a terra che si laceravano perdendo sangue. Cercavo delle mura o un angolo che fungesse da protezione almeno per il mio viso pieno di vergogna, tristezza e rabbia allo stesso tempo. Mi sentii toccare una spalla:
“Piccola, che è successo?”
Volevo darle tante di quelle risposte, ma tremavo e mi limitai ad abbracciarla scoppiando a piangerle addosso. Lei mi prese in braccio senza badare al mio corpo sudato fradicio. Mi rassicurò dicendomi che saremmo andate all’ospedale. E mi ritrovai su quel materasso. La signora Luisa non c’era più. Probabilmente aveva chiamato mia mamma che mi stava ancora accanto. Probabilmente io mi ero addormentata durante il tragitto o mi avevano fatto addormentare con qualche puntura. Non ricordo, non mi interessa neanche…
 
 
Ok, questa storia come ho già detto prima, l’ho trovata in un quaderno del primo superiore, a maggior ragione, volevo sapere se il contenuto vi interessa e ne vale la pena continuare a leggere… Recensite :)
  
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