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Autore: Karyon    16/07/2008    6 recensioni
Le loro sfida non erano mai solo quello. Erano lotta per il dominio, per la sopraffazione. Fiction partecipante al"100 Prompts" del Collection of Starlight.
Genere: Sportivo, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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La fiction partecipa al contest “100 Prompts!” del C.o.S. Collection of Starlight.
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C
onfession on a parquet basketball

°°°


Hanamichi aveva notato come il rimbalzo mantenesse sempre la stessa cadenza, quando lui giocava.
Stesso ritmo.
Poteva contare i rimbalzi che la sfera rossastra compiva sull’asfalto scuro… tum, tum, tum, poi correva. L’inflessione restava praticamente invariata: palla che si alzava, tre palleggi, corsa.
C’era un qualcosa di attrattivo, quasi ipnotico, nel suo gioco.
I muscoli delle gambe si tendevano ad ogni passo, la mano che giocava alla palla, si muoveva con un leggero colpo di polso; il salto era vaporoso, la postura elegante.
Ed era sempre canestro.
Uno dopo l’altro, i centri si susseguivano a scandire il tempo altrimenti statico, eppure il movimento fendeva l’aria, senza in realtà scuoterla. Solo il vento, a volte, imperversava a dondolare le particelle d’atmosfera.
Si stupì, quasi, di quali e quante cose si rendesse conto, osservandolo giocare.
Rukawa era lì ogni domenica mattina.
E lui, ogni volta, andava a vederlo.
Che se ne rendesse conto o meno, poco importava. Lui voleva solo guardare.
Non il suo gioco che pure era realmente spettacolare, non lui, ma il tutto.
La Volpe era nel suo habitat naturale e si vedeva: gli occhi balenavano d’impeto, di quella forza viva, dinamica che si muoveva come liquido sulla superficie di lapislazzulo del suo sguardo in caso contrario gelido. Il corpo si spostava sicuro, agile, concentrato sullo spazio che lo circondava e il paesaggio sembrava contribuire all’atmosfera tenue e impalpabile del sogno.
Rukawa si fermò, bottiglia alla mano, assaporando l'acqua a lunghi sorsi, mentre gocce di fatica, impenitenti, carezzavano il corpo d’avorio, tornito ed elegante.
Hanamichi osservava stregato le gocce d’acqua che si districavano dal groviglio di ciocche corvine, per serpeggiare sul collo niveo e affondare nella canottiera azzurra; e forse, fu proprio la cura con cui appuntava alla mente la dovizia di particolari, che lo tradì.
«Do’aho».
Certo non ci si poteva aspettare niente di meno, da lui. Quell’appellativo fastidioso diveniva speciale giacché era usato unicamente per la sua persona.
Hanamichi accomodò meglio il mento sulle braccia incrociate alla recinzione, e ghignò «Kitsune. Sempre ad allenarti, eh?»
Conosceva quello che lui cercava. Era IL sogno, quello che si trova d’improvviso, che diviene l’ideale per una vita intera. Per il quale si sacrifica ogni cosa di quel mondo ordinario al quale non si appartiene mai realmente: amicizia, amore, fortuna; altrettanto ideali, altrettanto effimere.
Ma quel sogno no, per quanto possa essere folle, deve essere reale, concreto e raggiungibile.
La Kitsune, lavorava instancabilmente per diventare il numero uno del Giappone, per poi spalancare le porte a un nuovo sogno, infinitamente più grande, più arduo: l’America.
Il suo?
Ne aveva cercati tanti, molti nel corso della sua esistenza.
Col basket, questo aveva cambiato meta e lo aveva dimostrato più volte, attraverso il suo fare comico.
Il Tensai del basket, il re dei rimbalzi, il più forte di tutti i tempi.
Eppure… tra le infinite sfide che lui stesso si era procacciato, molte inevitabilmente perse, una lo aveva smarrito.
Da allora, il suo traguardo era uno e uno solo: raggiungerlo.
C’era qualcosa di gradevolmente masochistico nel guardarlo giocare: lui era ciò che forse non sarebbe mai stato, ma che al contempo voleva guardare, doveva guardare, come per imprimersi alla mente la verità.
E lo odiava.
Odiava il modo in cui carezzava la palla con forte delicatezza, per poi mandarla al canestro inevitabilmente; persino i gesti più semplici, ormai radicati nelle abitudini, lo infastidivano: quando toccava i capelli dopo ogni canestro, quando si appoggiava alle ginocchia per riprendere fiato, quando beveva l’acqua in un sol sorso, quando… ma era anche conscio di sapere ogni gesto a memoria. Come un film rimandato nella sua mente più volte.
«Che ci fai qui?»
La sua voce da tono basso, algido, irruppe nel filo dei suoi pensieri, sbaragliandoli.
«Che domande, vengo a spiare il mio rivale e a verificare i suoi miglioramenti» rispose Hanamichi, con un sorriso. Di certo, non l’avrebbe bevuta.
Difatti Rukawa sbuffò, dandogli le spalle, continuando a palleggiare col suo ritmo ossessivo.
Voleva sfidarlo, pensò in quell’istante Hanamichi, sentire l’adrenalina scorrere col sangue, pompare i muscoli per tenderli all’estremo, sentire l’eccitazione fluire e ingigantirsi con la loro corsa, raggiungere il cervello e riempirlo solo ed unicamente di sfida, di lui.
«Sfidiamoci» gli disse con sicurezza, trattenendo a stento l’esaltazione.
Rukawa lo fissò per un lungo istante, poi gli lanciò la palla «Vuoi farti male» osservò con il primo sorrisetto della giornata.
Solo con lui sorrideva. Con questo, Hanamichi pensò di aver assolto metà della sua sfida quotidiana; se lui rideva, era coinvolto in ciò che faceva o diceva lui, e quello bastava.

«D’accordo, Kitsune, preparati!» Scattò Hanamichi, cominciando a palleggiare.
Rukawa gli si pose di fronte, le braccia allargate in posizione di difesa «Do’aho, non sprecare il fiato, gioca».
E lo fece. Oh, se lo fece.
Giocarono con ogni porzione di fiato che rimaneva loro, i corpi, velati dal sudore, sembravano quasi luccicare sotto al sole cocente, ma non si fermavano.
Con il defluire del tempo, i movimenti divenivano più rigidi, rozzi, e spossati; uno scontro di corpi, dove la forza brutale cominciava a prevalere sul gioco di palla.
Rukawa procedeva nell’azione, con uno scatto, Hanamichi corse a rubargli la palla, ma il colpo fu male indirizzato. La palla rotolò lontana e Rukawa si sedette a terra, tenendosi il polso, respirando a fatica; l’altro lo seguì, con stesso fiato mozzo, i petti che si alzavano e abbassavano velocemente. Per qualche minuto fu un silenzio scandito dal respiro affannoso di entrambi, poi una bottiglia colma d’acqua fece capolino davanti allo sguardo velato di stanchezza del rosso.
«Tieni, o potresti morirmi davanti agli occhi» sbottò la Kitsune, in piedi davanti a lui, per poi sedersi al suo fianco stremato.
«Sono quasi commosso!» Ribatté Hanamichi, cominciando però a bere con avidità.
Rukawa lo scrutò bere a grandi sorsi profondi, quasi senza prendere aria «Dovresti bere di più, durante gli allenamenti» osservò.
«Questa era un’improvvisata, di solito lo faccio» replicò Hanamichi, passandosi la mano sulle labbra per asciugarle.
Lo sguardo del bruno si spostò verso un punto imprecisato di fronte a sé, poi scosse il capo «No, non lo fai mai».
Quella piccola rivelazione di per sé insignificante, indicava l’attenzione con cui aveva registrato gli atteggiamenti del rivale, così come Hanamichi aveva fatto con i suoi.
Rimasero in silenzio, ancora, ma con naturalezza quasi cameratesca di chi si è allenato insieme, contribuendo l’uno al miglioramento dell’altro.
«E’ stata una bella sfida, dovremmo rifarla, qualche volta» fece ancora Rukawa, per poi alzarsi, voltandogli le spalle.
L’assurda sensazione che quella frase avesse chiuso definitivamente la conversazione, strappò a Hanamichi una sensazione al basso ventre che lui ormai chiamava “provocazione alla Rukawa”: era il desiderio, insito nel suo sangue, di contestare tutto ciò che l’altro faceva o diceva. Come se la sua rivalità non fosse legata al fattore esterno, cioè lui, ma ad un istinto interiore al quale era impossibile sfuggire.
«Cos’è, ti sei già stancato?» Borbottò, con un ghigno e un tremore, alzandosi.
Rukawa lo fissò, inarcando le sopracciglia.
Probabilmente, quella volta davvero non capiva di cosa l’altro parlasse e d’altronde quella frase era stata pronunciata con le migliori intenzioni possibili. Tuttavia conosceva la distorta suscettibilità del rivale, che fraintendeva tante volte quante lui ne diceva. In realtà, erano davvero rare le occasioni in cui Rukawa decideva di scontrarsi con la sua irritabilità, era l’altro a travisare ogni sua parola ed a iniziare la lotta per la ragione
«Cosa ho detto, questa volta?» Domandò, con non voluta rassegnazione.
«Non usare quel tono di sopportazione con me, Kitsune!» Sbottò Hanamichi, avvicinandosi a lui.
Fine della parentesi umana e, come al solito, il Do’aho aveva equivocato il suo tono.
Rukawa si lasciò afferrare per la maglia, appoggiando le mani al petto dell’altro, fasciato da una canotta nera.
«Do’aho, rilassati».
Fissò lo sguardo in quello color caramello dell’altro e vide balenare la “fiamma del rosso”, come la chiamava lui, cioè quella stupida aria da giocatore oltraggiato che usava praticamente sempre. Si diede dello stupido, quando capì che quella frase lo aveva irritato maggiormente e quasi non si rese conto del pugno che lo colpì, ferendogli la mascella.
Si ritrovò a terra, passandosi una mano sulla zona colpita, mentre l’altro si piegava in due dalle risate come suo solito.
«Ah, peggio di una ragazzina! Sei troppo delicato per lottare?»
Hanamichi vide lo sguardo che s’incendiava sotto le sue parole: il ghiaccio delle sue iridi sembrava sciogliersi fino a liquefare e quel fluido vorticava rabbiosamente.
Fu il suo turno di tenersi la guancia dove si era posato il gancio dell’altro «Dannata Kitsune!»
Hanamichi gli fu addosso ed entrambi rotolarono per il campo; accaldati sia per la fatica di poc’anzi, che per lo scontro, sembravano due fuochi pronti a divorarsi l’un l’altro, sotto il sole rovente di Luglio.
«Do’aho…» sibilava Rukawa, assestando colpi.
Persino nella rissa, la sua voce rimaneva bassa ad un tono fosco e cupo, così in contrasto con i suoi vaneggiamenti urlati.
Quell’ennesima grande, piccola dimostrazione di diversità abissale, lo infuriò ancora di più; sopra di lui, con i polsi nivei dell’altro bloccati dalle sue mani, Hanamichi torreggiava su Rukawa e lo guardava con sguardo sprezzante.
«Perso» fece trionfante, ma l’altro lo fissava senza espressioni di sorta «Levami le mani di dosso» sbottò, con gli occhi ridotti a fessure, la voce controllata.
Hanamichi strinse la presa ai polsi «Dannazione, Kitsune, possibile che sia sempre così controllato?»
Quello smise di muovere le mani e s’irrigidì «Dovrei essere un invasato come te?»
«Non dico questo, maledizione!»
Hanamichi si morse il labbro inferiore, senza spiegarsi. Rukawa era la contraddizione fatta persona; come riusciva ad amare con tanta passione il basket ed essere così freddo nella vita?
«A te, che interessa?» Gli domandò la voce lontana.
Il rosso batté le palpebre e ricordò di come l’altro fosse sotto di sé «Perché non lo capisco» rispose semplicemente.
«Non capisci perché qualcuno è diverso da te?»
La voce di Rukawa si tinse di sorpresa, mentre con attenzione scrutava Hanamichi, senza accennare a spostarsi da quella posizione imbarazzante.
L’altro lo guardò arrabbiato «Non intendevo quello! Parlo proprio di te. Come fai ad essere sempre così gelido e scostante con tutti?»
La domanda aveva per entrambi un’importanza maggiore di quanto entrambi erano disposti ad ammettere.
«Non lo sono, infatti».
«Oh, andiamo! Lo vedono tutti».
«Do’aho, non insistere» Rukawa lo fissò con rabbia. «Potresti almeno spostarti da questa stupida posizione…»
«Ah no, ora che ti ho in pugno, mi risponderai!»
Il bruno strinse i pugni, con un mormorio «Non sono cazzi tuoi… ora togliti, dannazione!» Sbottò, cominciando a muoversi nel tentativo di dargli un calcio.
«Avrai anche un fisico imponente, Kitsune, ma non sei abituato alle risse come me» affermò un sorridente Hanamichi, per poi bloccargli le gambe, infilandoci in mezzo una delle sue. «Persino ora che sei mezzo intrappolato, non ti lamenti come si deve. Sei ancora troppo silenzioso».
Rukawa sbuffò con derisione «Se speri che mi lamenti, hai sbagliato persona, Do’aho».
Hanamichi lo fissò: l’orgoglio e la sfida si diffondevano a macchia d’olio in quegli occhi ghiacciati e si espandevano all’esterno, come una fragranza. Anche se non lo avrebbe mai ammesso, la Kitsune era la persona più eccitante che conoscesse. Le sfide con lui non erano mai sterili competizioni che si esaurivano con la vittoria o meno, erano vere e proprie battaglie per il predominio in qualsiasi campo. Ammettendolo, lui perdeva spesso, ma non quella volta.
Quella era la sua volta.
Un ghigno beffardo si aprì sul viso ambrato del rosso, che avvicinò la testa a quella del bruno «Ho provato a convincerti con le buone, Kaede, ma non c’è verso…»
Il fatto che avesse pronunciato il suo nome era di per sé una preoccupazione, ma che lo avesse fatto con tono tanto suadente era ancora peggio.
Rukawa scrutò il ghigno odioso del rivale e cominciò a sudare freddo: l’ultima volta che aveva visto quel ghigno, aveva ricevuto una testata. Cominciò a muovere delicatamente i polsi, con la speranza che l’altro si distraesse e lo lasciasse; purtroppo per le gambe non c’era speranza, le sue erano molto più lunghe e robuste.
«Non so di cosa parli, Do’aho e non mi interessa. Vorrei solo che sparissi dalla mia vist-»
In pochi istanti, le labbra del rosso catturarono le sue in un bacio passionale che l’altro non rifiuto, ma nemmeno facilitò. Solo quando sentì la sua lingua sulle labbra, che chiedeva di entrare, girò il capo.
«Che diavolo credi di fare?»
«Reagisci, diavolo! Prendimi a calci, muoviti, ma reagisci!»
Sbottò l’altro, incredulo all’ennesima reazione men che tiepida di Rukawa. Eppure il suo miglior rivale lo stava baciando, dannazione!
Arrabbiato, gli pose una mano sulla nuca, tra i capelli corvini, e azzerò la distanza tra loro, baciandolo più selvaggiamente di prima.
La mano liberata di Rukawa gli si pose sul petto, cercando di spingerlo via, mentre la gola riuscì a farfugliare solo qualche mugolio.
Hanamichi aveva serrato gli occhi, mentre la mano stringeva le ciocche di petrolio dell’altro; la lingua umida scivolò tra le labbra del bruno e quel contatto lo fece reagire, inevitabilmente.
Un sospiro profondo gli sfuggì dalle labbra e la mano libera si avvinghiò al collo bronzeo di Hanamichi, il quale non si fermava.
Il bacio divenne profondo, possessivo, un divorarsi di labbra che distrasse il rosso, il quale ammorbidì la presa sul polso e sulle gambe dell’altro.
Nessuno dei due, tuttavia, se ne rese conto. Le mani libere di Rukawa si spostarono sul petto, seguendo la linea dei muscoli tesi allo spasmo; l’altro sussultò dalla sorpresa, ma non si fermò, anzi la morsa tra i capelli si serrò fino a diventare quasi dolorosa e l’altra mano cominciò a muoversi verso l’orlo della maglia, sul ventre piatto del bruno.
«Mmh…»
Con un sospiro e un mugugno, Hanamichi, spostò la propria attenzione verso il collo candido che cominciò a mordere con trasporto.
«Ah…»
In un certo senso, non aveva tutti i torti su di lui: viveva in modo controllato ogni aspetto della sua vita, anche quello. Amava l’amore rilassato, mentre di fronte a sé aveva una tempesta ormonale in piena regola.
Il sospiro di Rukawa lambì l’orecchio dell’altro, che cominciò a mordere e carezzare con maggiore frenesia la scapola.
Le mani del bruno sembravano irrequiete a voler afferrare l’aria, poi si posero sulle spalle del rosso e cominciarono a tirare su la maglia. Affondò le unghie nella carne bronzea dell’atro e non gli sfuggì il suo sospirò tremolante.
Così, il Do’aho amava le maniere forti.
Le mani del rosso, intanto, erano impegnate a percorrere il suo torace spogliato della maglietta chiara, mentre la bocca si chiudeva su un capezzolo turgido; Rukawa, colto alla sprovvista, si abbandonò col capo all’indietro, con un mugolio di piacere.
Cominciava a perdere lucidità e il tocco Hanamichi sembrava trascinarlo verso la passione sfrenata; prima, però, doveva rispondere alla sfida. Si avvicinò al suo orecchio e cominciò a mordergli l’elice, accompagnando il gesto da brevi guizzi di lingua. Con un ghigno udì il sussulto dell’altro e le sue mani si fermarono.
«Mi hai sfidato, Do’aho. Ed io non ho mai perso una sfida con te» gli sussurrò, prima di ribaltare le posizioni con un colpo di reni.
Bloccò le sue lunghe gambe tornite con le sue e i polsi, più robusti dei suoi, furono arrestati dalle dita affusolate.
Rukawa lo guardò dall’alto, con un ghigno di soddisfazione che eccitò l’altro più dei baci stessi. Rukawa sorrideva raramente e il semplice tocco delicato dei polpastrelli candidi, lo fomentava. Come volevasi dimostrare la sfida si era trasformata in qualcosa di differente e il tremore che li sconvolgeva ne era la testimonianza.
I loro respiri affannati scivolavano sulla pelle, lambendola come brezze roventi, lo sguardo sprezzante di uno era incatenato a quello glaciale dell’altro.
Rukawa serrò la presa ai polsi di Hanamichi, poi sorrise e quella volta anche con gli occhi.
Senza una parola che sottolineasse la propria trepidazione, l’inquietudine e l’impazienza con le quali aspettavano, avevano allacciato i loro corpi e le loro menti in qualcosa.
Che, quella volta, li avrebbe annientati.

 

N/A

Mi giustifico dicendo che questi due devono pur fornicare ogni tanto.
Sì, anche in una palestra all’aperto. ù.ù
Come dice anche aka_z, tra l’altro. XD
Grazie anche a te Hane!

 

   
 
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