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Autore: athenawinchester    23/04/2014    3 recensioni
Una punta di colore su uno dei notiziari stropicciati attira gli occhi di ghiaccio dell’uomo, tanto che non si accorge che il suo cappello vola via. La data è il 24 ottobre del 2002, ed è una maschera ad occupare la prima pagina. Una maschera rossa attraversata da una rete che pare una ragnatela. Spider-man salvezza o minaccia? Recita il titolo. L’uomo butta via il pezzo di carta. Non sa chi sia Spider-man, e non sa distinguere tra salvezza e minaccia.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Peter Parker
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA FINE DI UN EROE








 
Io non so se questo breve racconto valga la pena di essere letto.
Fatto sta che qui dentro ho riposto una parte del mio cuore.
E magari il mio cuore non vale neanche più di tanto.
Ma separarmici ha fatto male.






Dedicato a tutti coloro che ancora credono negli eroi.








 
Il sole è freddo. Splende vanitosamente nel cielo come se nessuno potesse eguagliarlo, i suoi raggi, però, non scaldano la pelle, ma la bucano come fossero punteruoli. Un uomo con un cappello sgualcito se ne sta in piedi davanti all’ingresso del cimitero di New York, ma non vi entra. Le dita delle mani tremano violentemente mentre cerca nella tasca interiore della sua giacca. Trova una fiaschetta argentata e la porta alle sottili labbra. Beve così insistentemente che il liquido trasparente gli cola dagli angoli della bocca. Ripone poi la fiaschetta al suo posto e torna a guardare il cancello nero che si erge davanti a lui, a vedere il niente. Una fitta nebbia, infatti, aleggia dentro la sua testa, ed è accompagnata da un ronzio che non si ferma mai. E’ entrata dalle orecchie, dagli occhi, dal naso. E’ entrata dalla cicatrice che ha sul petto. E non sa che continua a entrare.

Le stelle non ci sono. Il buio è calato e il cielo è limpido. Ma le stelle non ci sono. Non riesce a vederle più. Allora cerca di nuovo la sua fiaschetta perché la nebbia è più facile alimentarla che mandarla via. Ma la fiaschetta è vuota. E la testa è vuota. E il cuore è vuoto.

L’uomo comincia a camminare. Non sa dove sta andando, lo ha dimenticato tempo fa. Un leggero vento gli pizzica il viso rugoso e le mani callose. Un barbone dorme in una scatola di cartone e vecchi giornali sul ciglio della strada. Una punta di colore su uno dei notiziari stropicciati attira gli occhi di ghiaccio dell’uomo, tanto che non si accorge che il suo cappello vola via. La data è il 24 ottobre del 2002, ed è una maschera ad occupare la prima pagina. Una maschera rossa attraversata da una rete che pare una ragnatela. Spider-Man, salvezza o minaccia? Recita il titolo. L’uomo butta via il pezzo di carta. Non sa chi sia Spider-Man, e non sa distinguere tra salvezza e minaccia.


Cammina ancora, non sa per quanto, sa solo che qualsiasi siano le strade che percorre il tempo non conta, perché si ritrova sempre nello stesso posto. A est il sole nasce di nuovo, e l’uomo sta ancora guardando il cancello quando muore, tingendo ogni cosa di rosso. La nebbia è meno densa dell’ultima volta che è stato qui, e riesce a vedere immagini sfocate. Immagini di capelli del colore del tramonto che proprio ora sta giungendo al termine. Immagini di occhi vitrei, troppi occhi vitrei. Immagini simili a quella sul giornale della scorsa sera e di insetti. L’uomo trema, ma non ha freddo. E’ perché il cancello si è aperto. “Vuoi entrare?“ Un’anziana donna è ferma sull’uscio e lo invita a far visita ai morti. "Ma io non sono morto“ Sussurra l’uomo tra sé. Perché dovrebbe visitare le case degli spettri? Per far sì che possano tendergli una trappola e catturare anche lui? ”Non riuscirai ad ingannarmi! Non entrerò là dentro!“ L’uomo adesso urla disperato, agitando le braccia e scuotendo il capo. “Allora perché sei qui?“ Gli chiede la donna confusa. L’uomo si ferma d’improvviso, come pietrificato. Perché si trova lì? Una voce tenera e gradevole si separa dal ronzio perpetuo che copre ogni altro suono del mondo. E’ assurdo essere vivi solo a metà, Peter. Che cosa significa? Chi è Peter? Un altro suono supera lo strato di nebbia e parla con la voce di un’anziana signora, una voce tanto simile a quella della donna del cancello. Io penso che ci sia un eroe in tutti noi, enuncia dolcemente. L’uomo scuote la testa, ma ciò non basta a far tornare il silenzio. Al contrario le voci diventano più chiare, più forti. Si susseguono rapidamente come in una maratona. Noi siamo quello che scegliamo di essere. Ora scegli! Un verso roco, aggressivo. Io non ti riconosco più. Delusione. Proprio come tu hai umiliato me, te ne ricordi? Vergogna, desiderio di vendetta. Mi vuoi uccidere come hai ucciso mio padre? Il miagolio di un gatto ferito e solo. Non dirlo a Harry. Supplica, pentimento. L’unica cosa che la gente ama più dell’eroe, è il vedere l’eroe fallire. Cruda verità. L’uomo si copre le orecchie con le mani, ma le voci non arrivano da fuori. Le voci provengono da dentro. Dalla cicatrice sul petto. “Basta!“ L’uomo grida ancora, e miserabile cade in ginocchio. “Basta”. Le voci cominciano a smorzarsi, smettono di rincorrersi e poi si fermano. Un’ultima frase echeggia e si ripetete. Da un grade potere, derivano grandi responsabilità. Consapevolezza. Ricordatelo sempre Peter, ricordatelo sempre. Desiderio di fare la cosa giusta.

L’uomo inspira avidamente, alla ricerca di un’aria che sembra sfuggirgli. La cicatrice sul petto gli fa male. Gli occhi bruciano e non riescono a mettere a fuoco niente. L’ultima cosa che vedono è il viso della donna che ha aperto il cancello. Corre verso di loro. Poi nero.



 

 
 
L’uomo si sveglia su una superficie morbida e calda. Prova a mettersi seduto, ma la testa gli fa così male che ha bisogno di tornare a stendersi immediatamente. Si guarda curiosamente attorno. Le pareti della stanza sono dipinte di azzurro, e qua e là vi sono attaccati diversi poster che ritraggono eroi di fumetti e scienziati famosi. L’arredamento consiste in un comò situato al fianco destro del letto su cui si trova, una scrivania piena di libri e penne colorate poco più in là, e un armadio rovinato in fondo alla stanza. C’è qualcosa di familiare in quella camera.

Qualcuno bussa alla porta. “Avanti“. La porta si apre e lascia entrare un’anziana donna, molto probabilmente sulla settantina, o forse sull’ottantina. Il viso è tondo e genuino nonostante le rughe piuttosto profonde agli angoli degli occhi e della bocca. I capelli sono completamente bianchi e le mani coperte da una fitta rete di vene viola. Regge un vassoio pieno di cose buone da mangiare. Lo poggia sul comodino per poi dirigersi alla finestra e aprire le tende. Il sole splende noncurante come al solito, e riflette insistentemente i suoi raggi su tutta la stanza. L’uomo si copre rapidamente gli occhi. Il sole ancora gli fa male. “Puoi chiudere?” Sussurra così, alludendo alle tende color porpora. “Per favore” Aggiunge poi, per sembrare più gentile. Infondo quella sconosciuta lo ha aiutato. L’anziana annuisce. “Hai dormito bene?” Chiede poi. L’uomo riconosce quella voce e sussulta. E’ la voce che parlava nella sua testa. E’ la voce della donna del cancello. Vuole ingannarlo, vuole portarlo alla casa degli spettri. “Non riuscirai ad imbrogliarmi!” Dice allora con fermezza, deciso a non accettare nessun’altra gentilezza da parte di quella donna. Anche se i pancakes, il caffè e la frutta all’interno del vassoio ancora appoggiato al comò lo chiamano per il nome che non ricorda più di avere. L’anziana aggrotta la fronte. L’uomo si arrabbia. Non ci crede nemmeno per un momento che non abbia capito di cosa sta parlando. Fa tutto parte dell’inganno. Ma lui non si farà più trascinare là dentro. Ci è già stato prima, e da allora non ha più dormito. Non ricorda come è riuscito a scappare, ricorda solo tanto dolore. Troppo per poter essere contenuto all’interno di un fragile corpo umano. Forse è così che si è formata la sua cicatrice sul petto. Troppo dolore. E la pelle ha ceduto.

La donna, infine, capisce. Si massaggia le tempie e si siede sul bordo del letto. Sospira forte, e le sue ossa magre tremano tutte. “Non voglio portarti al cimitero” Dice. L’uomo non ci crede. “Ma” Aggiunge subito dopo la donna: “Se quel posto ti piace così poco, perché ti trovavi lì?” La testa dell’uomo ronza. Perché? Perché? Gli ha già posto quella domanda, e subito dopo sono arrivate le voci. “So cosa stai facendo” Bisbiglia. “SO COSA STAI FACENDO” Grida poi. Grida di nuovo. Ancora. E grida così forte che gli manca il fiato. Sbatte il vassoio con il cibo contro il muro, colpisce il comodino con i pugni. E’ sicuro di aver spaventato la donna. Sarebbe questa la normale reazione di una persona al suo comportamento. Ma l’anziana non si è mossa di un millimetro. Il suo viso non esprime paura, ma tristezza. Le lacrime le colmano gli occhi, ma lei se le asciuga ancor prima che esse possano scendere. L’uomo non sa cosa fare. Non capisce. “Perché piangi?” Chiede allora, ingenuo come un bambino. “Oh, Peter” La voce dell’anziana è rotta, nostalgica. “Senti, non so se sia per colpa mia o di questo Peter, ma se è colpa mia mi dispiace. Semplicemente non volevo essere imbrogliato, e adesso è meglio che vada” L’uomo parla tanto velocemente che si mangia alcune parole. Poi, nervosamente, fa per cercare le scarpe che trova ai piedi del letto senza tanti problemi. Anche la donna si alza, gli occhi sono ancora più gonfi di prima. “Non ricordi niente?” Supplica: “Sono zia May!” La donna ha iniziato a singhiozzare. “Sono io, Peter!”. L’uomo sente una disperata urgenza di andarsene. La saliva gli viene a mancare e le mani iniziano a tremare così tanto che non riesce ad allacciarsi le scarpe. Allora le lascia così, slacciate, prende il cappotto e si affretta verso la porta, ma l’anziana lo segue. Le sue mani ruvide gli toccano i capelli, le guance. “Devi ricordare qualcosa! Devi!” Scongiura la donna. “Non ricordo niente, mi dispiace!” Poi l’uomo corre giù per le scale, fuori dalla porta.

Quella donna è pazza, pensa. Il cuore batte forte e sbatte contro la cicatrice sul petto. Gli fa male. Devi ricordare qualcosa! Devi! L’anziana lo ha sicuramente scambiato per qualcun altro, non c’è niente che lui debba ricordare. Non ricordi niente? No. Perché non è successo niente. Ogni cosa dentro di lui rimbomba. La nebbia si dirada. Sì, ricorda.
 


<< Oh, Peter, sei un tale mistero >> La rossa sorrise amaramente.
<< Se solo sapessi >> Peter non si rese conto di averlo detto ad alta voce, e quando lo fece, si schiaffeggiò mentalmente.
<< Se solo sapessi cosa? >> La ragazza non perse un attimo per indagare sulla frase che il suo migliore amico si era lasciato sfuggire. 
<< N-niente >> Balbettò nervosamente quello, e mentalmente – si assicurò che lo fosse per davvero stavolta – si disse che se avesse continuato a darle indizi di quel genere tanto valeva raccontarle tutta la verità. E come avrebbe voluto farlo. Ma non poteva permettersi di commettere quell’errore. Non poteva esporre Mary Jane al rischio che era diventata la sua vita. In realtà, non avrebbe nemmeno dovuto frequentarla come amico, ma era troppo egoista per poter rinunciare anche a quel piacere. Aveva già rinunciato a troppe cose, ma infondo, era giusto così. Non aveva mai dimenticato le ultime parole di suo zio. ‘Da un grande potere derivano grandi responsabilità’. Le recitava come una preghiera ogni mattina e ogni giorno tentava di attenervisi e di utilizzare il suo potere come meglio poteva. 
<< Ogni volta che ti chiedo qualcosa, la tua risposta è ‘niente’. Ma non può essere sempre niente. Perché non mi parli, Peter? >>
‘Perché devo proteggerti’, avrebbe voluto dirle lui. ‘Perché la mia vita è un casino, e voglio il meglio per te.’ ‘Perché ti amo da sempre’. Ma non avrebbe mai potuto dirle cosa davvero provava per lei.
<< Bè, non c’è niente di interessante nella mia vita >> Rispose così, e non avrebbe potuto trovare bugia più grande. Ripercorse velocemente quella stessa giornata. Si era svegliato alle cinque per finire un saggio per l’università. Al termine delle ore sarebbe poi dovuto andare a mangiare dalla zia, ma a causa di un’emergenza che aveva richiesto la sua presenza non aveva fatto in tempo e aveva digiunato. Una volta svolto il proprio dovere era corso al quotidiano locale, il Daily Bugle, dove aveva avuto un appuntamento per le quattro. Era arrivato con mezz’ora di ritardo, ma era comunque riuscito a vendere a J. J. Jameson una foto di Spider-Man al solito prezzo di trecento dollari, che però non erano bastati a coprire l’anticipo del mese prima. Aveva poi tentato, come al solito, di convincere il nevrotico Direttore del quotidiano ad affidargli un posto fisso, ricordandogli che lui si trovava là da tanto tempo e che aveva sempre fornito alla stampa ottime foto, ma senza avere successo. Circa un’ora e mezza dopo aveva raggiunto la banca di New York con l’intento di pagare l’affitto del suo logoro appartamento formato da una sola stanza, ma aveva trovato l’istituto chiuso. Allora aveva preso il suo motorino usato e si era avviato verso la pizzeria in cui lavorava, ma una nuova emergenza lo aveva chiamato. Era arrivato al lavoro con venti minuti di ritardo, il Capo lo aveva minacciato di licenziarlo per la centesima volta e poi era corso a consegnare le sue pizze, ma nell'andare aveva incontrato altre difficoltà e, volando tra i grattacieli, aveva perso qualche pizza per strada. Al momento di depositare i soldi nella cassa aveva quindi aggiunto lui stesso qualche moneta al fine di nascondere il fatto che alcune consegne non avevano mai raggiunto la loro destinazione. Alle dieci e mezza aveva finalmente terminato di lavorare, ed era quindi passato a casa della zia perché non aveva un soldo per fare la spesa e non gli andava di digiunare un’altra volta. Dopo aver mangiato lasagne e pollo arrosto aveva salutato zia May, ma fuori dalla porta aveva incontrato Mary Jane, che abitava nella casa affianco. Ed ora eccolo là, a parlare con la bellissima ragazza dai capelli rossi, e nonostante fosse stanco morto, sarebbe stato lì con lei altre tre ore. 
<< Non ci credo neanche per un secondo >> Fece lei.
<< Bè, io non sono un attore di Broadway >> Disse Peter tentando di distogliere l’attenzione da lui.
<< E’ un modo per cambiare argomento >> Mary Jane lo prese con le mani nel sacco.
<< No, è un modo per dirti che domani sera voglio venire a vederti a teatro >> Mentì Peter, anche se a teatro voleva andare a vederla davvero. Non ci era mai stato, ma avrebbe scommesso la sua maschera che Mary Jane era l’attrice più brava della struttura. Ancora ricordava quando erano solo alle elementari e Mary Jane otteneva sempre il ruolo della protagonista, e lui veniva stregato da lei come sotto l’effetto di un incantesimo persino da bambino.
<< Ci vieni davvero? >> Gli occhi della rossa si illuminarono.
<< Certo >> Affermò Peter, che quegli occhi sarebbe rimasto ad ammirarli per secoli. Se solo lui non avesse avuto una missione da compiere. Il suo potere era stato una benedizione molte volte, ma altre si era trasformato in una maledizione. 
<< Allora ti aspetto. Non mi deludere! >> Aggiunse la ragazza, poi gli diede un bacio lieve e fresco come una folata di vento sulla guancia, e si ritirò in casa.
<< Non lo farò >> Sussurrò Peter mentre si toccava la guancia destra. 




L’uomo sente le sue ginocchia tremare mentre memorie tornano a galla. All’inizio crede di stare diventando matto come la donna del cancello, mai poi si rende conto che i battiti del suo cuore vanno di pari passo con i tipi di ricordi che all'improvviso lo colpiscono come fulmini durante una tempesta. Inizia a muovere le gambe e si lascia trasportare da esse. Quando si ritrova davanti a un grande cancello nero e ad una targa che recita “Cimitero di New York”, scopre di non essere sorpreso. Una consapevolezza si fa strada dentro di sé. Se quel posto ti piace così poco, perché ti trovavi là? Perché, nonostante la sua mente non sia capace di ricordare, il suo cuore sa sempre dove andare, e così lo porta in quel luogo ogni volta. Là dentro, infatti, vivono le persone che gli sono state più care quando la nebbia ancora non era entrata nella sua testa e il suo cervello non era ancora morto. Il suo cuore lo porta dalle persone che più ama, sempre. Anche se lui non lo sa la maggior parte delle volte. E adesso che ne è a conoscenza, ora che ha ricordato e capito, deve sfruttare questo momento. Apre così il cancello, ed entra nella casa degli spettri. Ancora una volta si lascia guidare dalle sue gambe, che sanno esattamente dove andare. Mentre cammina sente i fantasmi chiamarlo, ma avanza imponendosi di non prestarvi attenzione. Ancora pochi passi, poi si ferma. Si prende prima del tempo per respirare profondamente, nel caso non riuscisse più a farlo una volta che avrà abbassato lo sguardo. Poi lo fa, e contemporaneamente il cielo diventa più cupo. Le nuvole nascondono lo spregevole sole.

Richard e Mary Parker, genitori pazienti e amorevoli. Peter si rende conto di non sapere molto dei suoi genitori. Sono morti in un incidente aereo quando era appena un bambino: non ha mai avuto veramente l'opportunità di godere del loro affetto. Non ha mai avuto la possibilità di giocare a basket con suo padre nel giardino sul retro, o di farsi dare lezioni di guida da lui al compimento dei sedici anni. Non ha mai avuto la possibilità di assaggiare la cucina di sua madre, o di parlarle della ragazza di cui era innamorato. Tutto questo gli è stato negato, e ora non sa neanche piangere le loro morti come un figlio dovrebbe. Ma quando poi fa un passo avanti, improvvisamente lo sa.

Ben Parker, miglior marito e zio. L’incisione sulla lapide è sbiadita quasi del tutto, e la prima cosa che l’uomo – che Peter pensa, è che deve essere subito chiamato qualcuno che la ripassi. Lo zio Ben merita il migliore dei lavori. Si concede un attimo per ricordarlo, per ricordarlo come si deve. Sempre pronto a rendersi utile, a dare una mano, a dare il massimo per la sua famiglia nonostante l’età, le malattie. Sempre pronto a fare la cosa giusta, non importava quali sarebbero state le conseguenze. Poi il ricordo di uno sparo, di un ladro che corre. Come si può avere il coraggio di sparare a un pover’uomo per una manciata di soldi, per una vecchia macchina? Gli occhi di Peter pizzicano, e quando se li gratta scopre di avere le dita bagnate. Va avanti prima che il cuore possa uscirgli dal petto e le sue vene esplodere in un’eruzione di sangue.

Norman Osbornottimo padre e grande scienziato. Il padre del suo migliore amico. Ricorda il momento in cui lo ha conosciuto e ha creduto che fosse un genio, che fosse il suo modello da seguire. Poi ricorda una maschera verde dagli orribili occhi gialli che terrorizza la città, che uccide decine di innocenti. E dietro di essa, il volto del suo idolo. Ricorda come quello lo ha supplicato di non dire niente a suo figlio, dopo essersi infilzato con la lama dello stesso aliante che utilizzava per volare. Lama che sarebbe dovuta finire nella schiena di Peter.

Vicino alla lapide di Norman Osborn, c’è quella di Harry Osborn. Valoroso amico, recita. Peter sa di essere stato lui a farlo scrivere. Sa di essere stato al suo funerale, di averlo guardato mentre veniva sepolto sotto terra. Sei il mio migliore amico, gli ha detto Harry prima di morire tra le sue braccia, dopo essersi sacrificato per salvarlo. Harry non poteva essere più diverso da suo padre. Ha dimostrato che c’è sempre l’occasione di fare la scelta giusta.

Peter tira su col naso, e con coraggio va avanti. Incontra le lapidi di vecchi compagni del liceo, del Capitano della polizia, George Stacy, morto nel tentativo di salvare degli innocenti, e di sua figlia: la biondissima Gwen, che Peter aveva a lungo sognato durante le notti senza sonno della sua adolescenza, e che poi aveva persino amato, lasciata cadere dal ponte di Brooklyn da un mostro verde.

E mentre arriva all’ultima lapide, Peter si rende conto che la causa di ogni morte che lo circonda non è altri che lui. Se avesse fermato quel ladro quando ne aveva avuto l’opportunità, zio Ben avrebbe potuto essere con lui proprio in quel momento, a dargli una pacca sulla spalla. Così come avrebbe dovuto fermare l’aliante di Norman Osborn, dandogli la possibilità di cambiare, perché abbiamo tutti una seconda scelta. E se solo non avesse chiesto a Harry di combattere con lui quella sera, lui non sarebbe mai morto. Se fosse stato meno egoista, se avesse agito più in fretta, se avesse prestato più cautela e se non avesse permesso a tutte quelle persone di affezionarsi a lui, adesso le cose sarebbero diverse.

Gli occhi sono troppo appannati perché riesca a leggere il nome sull’ultimo ritaglio di pietra. Ma sa a chi appartiene. Mary Jane Watson Parker, magnifica donna amata da sempre, per sempre. Peter ricorda le parole a memoria. E sa che ancora una volta è stato lui a farle incidere. Come ha potuto permettere che tutto terminasse con una frase? Come ha potuto permettere che lei venisse abbandonata sotto tutti quegli strati di terra? Peter si inginocchia e piange. Non osa tollerare che la sua mente porti a galla ricordi del suo sorriso e dei suoi luminosi capelli rossi, perché non potrebbe resistere a tanto dolore. Così piange, piange e piange per un tempo che gli pare infinito. Piange fino a sentire uno strappo in prossimità del petto, a sinistra. La sua cicatrice si è aperta. Sente il sangue uscire a litri dal buco che si è venuto a formare. Lo sente infilarsi ovunque e attaccargli la camicia alla schiena. Peter si toglie il cappotto con urgenza e poi se la guarda. Neanche una macchia. Eppure lui ha sentito, ha sentito la sua pelle rompersi e il liquido rosso uscire fuori e scorrere come un fiume di montagna. Apre i bottoni della camicia con tanta impazienza che qualcheduno salta via. Si tocca il petto, lo esamina, ma non c’è neanche un graffio.

“E’ dentro” Fa una voce alle sue spalle. La voce della donna del cancello. La voce di zia May. Peter si volta alla disperata ricerca di risposte. “Che cosa è dentro?” Chiede. “Il dolore. So come ti senti.” Dice dolcemente la zia: “E’ talmente forte che credi che qualcuno ti abbia tagliato la carne, ma è tutto quanto dentro di te. E non so se sia meglio o peggio” Conclude con gli occhi velati di malinconia. Peter invece guarda in basso. E’ peggio. Lo sa. “Ma adesso pensa a quanto sia bello il fatto che tu abbia ricordato” Aggiunge May accarezzando la guancia del nipote. Peter si gode quel tocco materno, e ne vorrebbe ancora, esattamente come un bambino, perché sua zia è tutto quello che gli è rimasto. “Io non voglio ricordare tutto questo. Vorrei non aver mai rammentato niente” Bisbiglia poi. Zia May gli prende il viso tra le mani. “Ma Peter, il dolore ci dimostra che siamo vivi, che siamo immensi come le emozioni che proviamo. Potrebbe essere meglio non aver mai vissuto nessuna delle meraviglie che abbiamo vissuto pur di non soffrire?”. Potrebbe? Come sarebbe la sua vita se non avesse gli occhi verde mare di Mary Jane da ricordare? E la bontà di zio Ben? E l’altruismo di Harry? E ad un tratto lo sa. Lo sa perché ha vissuto gli ultimi anni senza ricordare gli occhi verde mare di Mary Jane, la bontà di zio Ben, e l’altruismo di Harry. Ha vissuto gli ultimi anni in una nebbia costante, accompagnata da un ronzio che non si ferma mai. Ha vissuto nel vuoto, nel niente. “No, non potrebbe mai” Risponde infine, e zia May lo abbraccia forte, nonostante le fragili braccia. “Dimenticherò di nuovo, non è vero?” Le chiede Peter quando si separano, e la donna annuisce con gli occhi lucidi. Solitamente Peter respirerebbe forte in un momento come questo, ma non lo fa. Ha continuato a respirare forte per fin troppo tempo, tanto che crede che il suo problema non sia l’assenza di aria, ma la sua troppa quantità. Si alza e bacia i capelli di zia May. “Grazie” Le dice, e la donna capisce che è ora di andare via. Lo saluta un’ultima volta, poi se lo lascia alle spalle. E’ orgogliosa di suo nipote.



 



 Peter si siede sull’erba umida e guarda i nomi dei suoi cari. E aspetta. Vuole stare accanto a loro fin quando non tornerà a dimenticare. Aspetta. Il sole cala dolcemente a ovest. Aspetta. Si stringe il petto con le braccia e si appoggia alla lapide della sua Mary Jane. Aspetta. Poi, poco più in là, scorge un’altra lapide. Credeva che quella della sua amata fosse l’ultima della fila, ma non è così. Si alza curioso e avanza verso di essa. E’ nascosta dall’erba che è più alta in quel punto. Peter si abbassa e la strappa. Quando finalmente riesce a leggere il nome sulla lapide, qualcosa si muove dentro di lui. Un frammento di ricordo lo spinge ad alzarsi e a recuperare il suo cappotto. Quando torna alla lapide nascosta, rilegge l’incisione. Spider-Man, coraggioso eroe. Peter cerca nella tasca interna del cappotto. Le sue dita toccano prima la fiaschetta argentata, e poi qualcos’altro. E’ un tessuto ruvido, resistente. Lo tira fuori e lo guarda. E’ rosso, e una fila di linee simili a ragnatele lo attraversano tutto. Lo rigira nelle mani. In alto sono attaccati due pezzi di vetro che sembrano due grandi occhi da insetto. Quello non è un semplice tessuto. E’ una maschera.

Peter sorride. La stringe e si rivede giovane, veloce e agile. Si vede mentre si arrampica sui muri fino ad altezze incredibili e gli pare di possedere il mondo. Si vede mentre salta fino a toccare il cielo con un dito e vola tra i palazzi della sua città. Sente il vento tra i capelli, l’adrenalina scorrergli nelle vene. Si sente libero. E non può fare a meno di sorridere di nuovo pensandosi leggero come il vento. Peter appoggia la maschera sull’erba, e poi scava con le mani in prossimità della lapide. E’ notte quando finisce. E’ notte e lui vede le stelle. Sono tante, sono bellissime.

Peter raccoglie la maschera e la indossa un'ultima volta. Sa di vertigini e di dovere. Da un grande potere derivano grandi responsabilità. Si toglie la maschera, la piega su se stessa e la seppellisce nel buco che ha scavato. Ricordatelo sempre Peter. Le unghie sono nere. Ricordatelo sempre.
 
E’ questa, la fine di un eroe.
  
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