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Autore: icered jellyfish    25/04/2014    7 recensioni
→ | «Papà, tu mi vedi?»
Stoick rimase con la bocca spalancata e il boccone della sua cena appena davanti alla sua dentatura.
Le calde luci delle candele, che illuminavano con i loro colori ambrati il buio ambiente della sala, conferivano allo sguardo del suo ragazzo – cupo e ansioso al tempo stesso – un miscuglio letale per lui che ne era il padre.
Non sapeva cosa volesse significare quella domanda, specie se moralmente e istintivamente affiancata alle sue costanti assenze degli ultimi tempi, ma per quanto si sforzasse di non credere che le due cose fossero collegate, non poteva fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa di più da sapere. |
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Astrid, Hiccup Horrendous Haddock III, Stoick, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Nonsense, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Io non lascio traccia







C A P I T O L O   U n i c o

“ Io non lascio traccia







Gli piaceva così, indomabile e aggressiva, un'acerba bacca di uva spina profondamente selvatica e incapace di risultare dolce come i frutti più maturi, e quella era la loro ennesima, quotidiana litigata.
Inevitabile, continuava a ripetersi, poiché con Astrid non era possibile non incombere almeno in una discussione al giorno, ma quella volta non aveva davvero motivo di infuriarsi così insistentemente per qualcosa di cui non aveva colpa alcuna – e si sarebbe difeso fino alla fine per la sua causa.
«Ero esattamente davanti a te con Sdentato, come puoi accusarmi di essere sparito?» replicò con il primo cipiglio a decorargli il volto, ma nessuna ostile espressione sembrava poter essere sufficiente a intimidire la ragazza che, prontamente, non lasciò passare nemmeno un secondo dalla fine della sua frase.
«Non prendermi in giro, Hiccup! Sono rimasta per ore ad attendere che tu tornassi!»
Sembravano non esserci punti d'incontro per quel loro disguido, ma lui era sicuro di quel che stava dicendo, e non riteneva  di certo colpa sua la disattenzione di Astrid, che non era stata capace di seguire la sua rapidità in volo ed ora lo calunniava d'esser scomparso.
«Evidentemente le furie buie sono troppo veloci per i tuoi occhi, non ti è venuto in mente?» si azzardò allora ad insinuare, ma si mangiò la lingua l'istante dopo.
Astrid ora stringeva i denti così forte tra di loro, che da un momento all'altro si sarebbe sinceramente aspettato di vederli spezzarsi, sgretolarsi in mille pezzi per la troppa pressione in cui li aveva costretti.
Prima di veder la sua faccia – ormai rossa – esplodere, inspirò ed espirò profondamente una boccata d'aria, pronto a lasciar perdere quel futile litigio, nato per niente, e scusarsi – sebbene continuasse a non capire bene per cosa.
«Oh, non importa, Astrid. Lascia stare. Scusami.»
La colorazione paonazza di Astrid – assieme alla sua detonazione più prossima – sembrò attenuarsi sull'istante, davanti a quelle parole.
Attimi di silenzio seguirono quel momento di totale e prepotente assenza di argomenti a riempirlo, fino a che non fu proprio lei a interrompere quella crepa orgogliosa per entrambi, tirandogli uno dei suoi soliti e ben calibrati pugni sulla spalla – chiaro segno, ormai, che anche per lei poteva essere tutto dimenticato, in fondo.
Lasciò che seguisse una piccola imprecazione del ragazzo, per poi rimproverarlo con quella che ritenne idonea come sua ultima frase – quella che avrebbe messo un punto finale a tutto quello.
«Ultimamente sei troppo scostante, non ci sei mai. Vedi di smetterla.» Osservò l'espressione stranita – e probabilmente contrariata – di Hic, ma non se ne curò, decidendo piuttosto di voltarsi verso Tempestosa per cavalcarla e volare via, lontano da lui.
Hiccup continuò a massaggiarsi distrattamente il punto dolente, con gli occhi incollati sul cielo azzurro e su quel puntino distante che era Astrid col suo drago.
Si scambiò infine un'occhiata complice con Sdentato, anch'egli meravigliato in egual modo per quanto accaduto.
Se i giorni seguenti furono più quieti e tranquilli, la pace per loro sembrava non voler comunque rispettare il posto a sedere che gli era stato assegnato, preferendo alzarsi, piuttosto, ancora una volta per lasciar spazio ai tormenti di quei folli rimproveri che parevano intenzionati ad arrivargli ormai da chiunque.
Come poteva Stoik l'Immenso, suo padre, infervorirgli contro per aver saltato la cena precedente, quando era stato proprio lui ad essere mancato alla tavola e non il contrario?
Lo aveva atteso con le mani incrociate sul legno del tavolo, con le bistecche di yak impiattate e pronte per essere consumate da entrambi, ma lui non arrivò mai a prender posto sulla sedia di fonte alla sua, ed ora doveva addirittura subirsi la paternale su un'assenza che non aveva mai compiuto.
Per un istante, uno soltanto, pensò addirittura ad un burlesco complotto, uno scherzo di cattivo gusto che non era in grado di apprezzare – poiché non c'era nulla di apprezzabile, in fin dei conti.
Innervosito, preferì lasciar perdere ogni tentativo di discolpa; se c'era una cosa che aveva imparato di suo padre, era che aveva la testa più dura del martello di Thor, e lui non aveva intenzione di sbattere la sua sopra il muro dell'impossibilità.
Aspettò che Sdentato uscisse con lui di casa, per poi chiudersi violentemente la porta alle spalle e sperando che ogni rabbiosa sensazione rimanesse al di là di questa.
«Andiamo bello» disse poi all'amico, salendoci in groppa e spiccando il volo più scattante che avesse mai fatto e non sentendo nemmeno la voce di Gambe di Pesce, alle sue spalle, che lo stava chiamando – correndogli incontro con un piccolo pacchetto tra le mani.
Purtroppo non ci fu niente che il robusto e biondo vichingo potesse fare per impedirgli di sfrecciare via, così, con un sospiro a fior di labbra, proseguì sul terriccio che lo avrebbe condotto fino alla porta di casa Haddock, bussandoci sopra un paio di volte e attendendo a quel punto che Stoick gli aprisse.
«Gambe di Pesce» esclamò quello, ritrovandoselo davanti.
Il giovane ragazzo, con un lieve sorriso a guidare la linea della sua bocca, gli porse allora il pacchetto che aveva tra le mani.
«Per voi: zuppa di pesce da parte di mia madre.»
Stoick parve ricordarsi solo in quel momento della richiesta che aveva fatto alla signora Ingerman – sbattendo più volte le palpebre come se si fosse appena destato da un sogno ad occhi aperti.
«Oh, oh certo. Ringrazia tanto tua madre, mi ha salvato la cena di stasera.»
Portandosi una mano dietro la testa e grattandosela senza un reale motivo, Gambe di Pesce sorrise nuovamente ed esordì con un 'a lei piace cucinare, non c'è problema'.
«C'è Hiccup in casa?» domandò poi, ma Stoick inizialmente lo guardò come se non stesse capendo nemmeno di chi parlasse, finché una scintilla non lo ricollegò al discorso e scosse il capo in segno di negazione.
«No, non è ancora tornato. Ultimamente fa sempre tardi, o non torna nemmeno a casa. Fatico a ricordare addirittura la sua faccia, ormai.»
Gambe di Pesce arricciò le labbra con un pizzico di rammarico; era perfettamente d'accordo con lui. In effetti erano giorni che non vedeva l'amico e non capiva per quale motivo Hiccup lo evitasse – evitasse tutti loro.
Il giorno successivo, seduti sul pavimento dell'accademia, lui, Astrid, Moccicoso e i gemelli Thorston si riunirono per parlare dell'anomalo comportamento del loro scostante compagno, ma prima ancora che venissero esposte osservazioni sensate, Testa Bruta mostrò un'espressione sbalestrata e confusa.
«Hi–chi?» domandò con totale sbigottimento tra le sue corde vocali.
Testa di Tufo, accanto a lei, le tirò dunque un pugno sull'elmo – facendolo scivolare appena più giù sul lato di destra e beccandosi dell'idiota di rimando.
«Quanto sei stupida. Hiccup! Stiamo parlando di Hiccup, la pecora di Mildew» la riprese verbalmente, riassumendole la chiave della loro riunione – ma errando radicalmente in ogni cosa, tanto che Astrid, Gambe di Pesce e Moccicoso rimasero stupiti e incapaci di muovere anche solo un muscolo, davanti a quella che interpretarono come una loro totale mancanza di equilibrio, anche se così non era. Ma questo nessuno poteva saperlo.
«Ok, fermatevi un secondo», si intromise al ché Moccicoso, «non che io simpatizzi granché modo per mio cugino, ma ragazzi... Hiccup! Ricordate? Quella petulante lisca di pesce piena di lentiggini e strane idee per la testa? Una gamba sola? Avete presente?»
Né lui né gli altri due speravano che i gemelli si ricollegassero sulla frequenza che vedeva Fungus come vero nome della pecora di Mildew – e quest'ultimo non più su Berk –, ma certamente non si aspettavano di vederli scordarsi completamente di Hic, del loro Hic.
Improvvisamente, però, per loro fortuna, i due biondi parvero re–incanalarsi sul binario della logica – pur sempre dentro i limiti delle loro possibilità – e, dopo aver dato cenno di essere finalmente riusciti ad afferrare il punto focale del loro ritrovo, Astrid sospirò con preoccupazione.
«Sta sparendo, ragazzi. Hiccup sta sparendo» sfogò addolorata, stringendo le mani in due pugni – conficcandosi, quasi, le unghie nei palmi.
«Ieri sera sono andato da lui» aggiunse Gambe di Pesce, mettendo una mano di conforto sulla spalla della ragazza, «e c'era solamente suo padre. Ha detto che Hiccup continua a mancare anche a casa ormai, nemmeno lui sa più che fare.»
Testa di Tufo si guardò in faccia con la gemella e nel suo sguardo rivide esattamente il suo stesso dispiacere, ma anche la medesima incapacità di saper come risolvere il problema.
«Sì ragazzi... Ma noi cosa possiamo fare?» chiese, con gli occhi rivolti a terra – mentre quelli di Bruta sembravano guardare tutti al posto suo.
In quel momento così delicato e vuoto poi, d'improvviso, Tempestosa sembrò non poter accettare di rimanere archiviata più a lungo di così, nel suo angolo assieme ai draghi degli altri – avvicinandosi al ché alla sua padrona e spintonandola delicatamente col muso per attirare la sua attenzione.
«Ehi, Tempestosa, che c'è?» le sorrise Astrid, accarezzandole il corno appena sopra le larghe narici.
«Si annoiano» constatò subito dopo Moccicoso, «anche Zannacurva si sta annoiando lì in fondo. Perché diavolo dobbiamo tenerli chiusi qui dentro, con una giornata come questa?»
Senza aspettare alcuna risposta da parte di nessuno, allora, si alzò per dirigersi verso l'amico palesemente stufo di quel nulla da fare, ed improvvisamente anche tutti gli altri sembrarono concordi con il suo disappunto – come se il problema che li aveva accomunati fino all’attimo prima, non fosse mai esistito.
«Portiamoli fuori!» propose Gambe di Pesce entusiasta, «non capisco proprio perché ce ne stiamo qui a oziare.»
Testa Bruta e Testa di Tufo si appropinquarono allora verso Rutto e Vomito, mentre Astrid – con Tempestosa esaltata alle spalle – per minuti che le parvero istanti, si sentì confusa al punto da non capire più nemmeno dove si trovasse, finché l'ennesima insistenza del suo drago la costrinse a voltarsi verso di lei e a sorridere accondiscendente – pronta a seguire l'esempio del resto del gruppo di amici.
Voli gioiosi li guidarono nell'immensità del cielo limpido e privo di nuvole – nella smisurata spensieratezza che solo quell'esperienza era in grado di regalargli –, come se nessuna preoccupazione fosse più lì a pugnalare i loro animi graffiati dall'abbandono di una presenza per loro più importante dell'aria che li stava accarezzando. Eppure, nulla di tutto questo sembrava più toccargli, albergare nei caldi cuori che gli battevano nel petto – nulla sembrava più esistere, nessuna macchia era più lì a sporcare le bianche pareti delle loro laceranti incertezze.
«Papà, tu mi vedi?»
Stoick rimase con la bocca spalancata e il boccone della sua cena appena davanti alla sua dentatura.
Le calde luci delle candele, che illuminavano con i loro colori ambrati il buio ambiente della sala, conferivano allo sguardo del suo ragazzo – cupo e ansioso al tempo stesso – un miscuglio letale per lui che ne era il padre.
Non sapeva cosa volesse significare quella domanda, specie se moralmente e istintivamente affiancata alle sue costanti assenze degli ultimi tempi, ma per quanto si sforzasse di non credere che le due cose fossero collegate, non poteva fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa di più da sapere.
«Sei qui davanti a me, esattamente come il tuo piatto. Che non hai ancora toccato», si limitò a rispondergli con pacata cautela – ma con una nota di simpatico sarcasmo.
Hiccup storse la bocca in quella che poteva essere interpretata come una smorfia divertita per quella puntualizzazione sul suo digiuno, ma quell'espressione durò talmente poco che non fu certo nemmeno lui di averla manifestata.
Con un dito, giocherellò per qualche secondo con i piselli nel piatto.
«Io... Io non lascio traccia. Nessuno sembra più accorgersi di me.»
Un battito forte come un martello sull'incudine si assestò nel cuore dell'Immenso; adesso non erano più ansia e buio a governare il volto del ragazzo, ma paura, e lui non capiva affatto perché fosse lì, forgiata sui lineamenti di suo figlio – e non ce la voleva vedere, non ce la voleva vedere per niente.
Non comprendeva nemmeno se fosse egoismo o altruismo il suo, perché il confine tra il dolore di Hiccup e quello che provava lui nel vederlo in quelle condizioni, era così fragile e sottile da risultare brina sulle foglie d'inverno. Non sapeva più nemmeno se voleva  porre fine ai crucci di Hic, per Hic, o se voleva semplicemente essere lui a smettere di soffrire per quella visione.
«Sai cosa non lascia traccia, Hiccup?» Si assicurò di avere la sua attenzione, prima di continuare. «La pioggia sulla neve. Quella non lascia traccia, non tu.»
Soddisfatto della sua perla, riprese allora a mangiare il pezzo di carne lasciato in sospeso prima di quella conversazione, sigillando così ogni cosa – con la speranza di aver trasmesso abbastanza al ragazzo, da distoglierlo dalle sue futili preoccupazioni. Perché lui esisteva, esisteva e non doveva aver paura di essere un semplice riflesso, di confondersi col fango dei ricordi.
Un altro piccolo accenno di sorriso inarcò la bocca di Hiccup e, per quanto non sapesse se lo avesse o meno rincuorato, Stoik si autoconvinse di aver fatto il possibile, anche se di traccia, nei giorni seguenti, suo figlio sembrava non lasciane veramente.
Lo zoppicante Skaracchio continuava a fare avanti e indietro davanti all'entrata della sua bottega – osservando, di tanto in tanto, l'intatto angolo dedicato a quel ragazzo che ancora non era giunto all'orario concordato.
Il ritardo era allarmante quanto rimproverabile, e non ci sarebbero state pezze d'appoggio ad aiutarlo, quando lo avrebbe finalmente raggiunto – nulla gli avrebbe impedito di fargli una ramanzina con i fiocchi.
«Per l'occhio di Odino! Ma perché ultimamente non arriva mai in tempo quel Hi– » nel pronunciare il suo nome, si bloccò. Non riusciva a comprendere il perché di quella mancanza, ma le lettere che avrebbero completato quel nominativo, parevano essergli state rubate di bocca – e quella parola, ora, sembrava essergli sfuggita via esattamente come un sogno che non era più in grado di ricordare. E non perché non la volesse dire, ma perché non ricordava più cosa volesse dire.
Scuotendo la testa con un paio di scatti per riprendersi dal suo stato di incomprensione verso se stesso – e domandandosi mentalmente che cosa stesse facendo lì fuori a perder tempo, quando c'erano delle armi da forgiare che lo attendevano –, sospirò come per liberarsi di una malinconia di cui non riusciva a spiegarsi la natura, per poi girarsi e attraversare l'entrata della sua attività.
Hiccup, intanto, continuava a camminare avanti e indietro nell'esatto punto in cui si trovava il suo mentore, eppure non lo vedeva da nessuna parte.
Avevano concordato un preciso momento della giornata, per il loro incontro lavorativo, ma Skaracchio sembrava non voler giungere alla bottega – e ormai erano ore che lo attendeva senza vederlo sbucare da nessuna parte.
Si voltò alle sue spalle, un po' lontano con lo sguardo, in direzione del rialzo più alto del villaggio – quello che sarebbe stato perfetto per controllarlo interamente, se ne fosse stato il capo. Un paio di massi e di verdi piante facevano da cornice ad un piccolo spiazzo vuoto, come un piatto con il solo contorno, ma senza la portata principale a predominare. Come se lì vi fosse destinata una costruzione ancora in programma – o che forse non c'era più.
Gli sarebbe piaciuto, in futuro, avere una casa lì.
«Stoik! Stoik! Devi correre, presto!» A distanza di una settimana da quel giorno, si sentì d'un tratto la voce di Astrid chiamare l’autorità principale – nel mentre che gli correva incontro.
Le iridi azzurre dell'uomo, costrette in un paio d'occhi dal taglio dolce e per nulla aggressivo – come se fossero un pezzo di montaggio destinati ad un altro corpo, e non al suo – si riempirono di stupore nel veder giungere, in tutta fretta, la ragazza in sua direzione.
«Cosa c'è, Astrid?» la interrogò con curiosità contenuta.
L'espressione affannata della giovane, mutò dunque la sua piega frenetica per cedere il suo spazio a una più elettrizzata e gioiosa.
«La famiglia Róbjörg... Ci siamo! E' nato!» si affrettò a dire, indicando un punto preciso – impreciso – del villaggio.
Il volto di Stoik si illuminò sull’immediato, a quella notizia; aspettavano tutti quella nascita da parecchio e, ora, finalmente una nuova vita si era affacciata sulla loro popolazione.
Ultimamente non sembravano essere molti i concepimenti, e lui non trovava spiegazione a quale potesse essere il motivo, lui che doveva garantire ricchezza e prosperità alla sua gente – e che la voleva vedere sempre più numerosa e felice –, ma quel pargolo era infine venuto al mondo, spezzando quell’impensabile e dannato periodo sterile, e lui non vedeva l'ora di incontrarlo.
«E' maschio, quindi?» chiese ad Astrid – incapace di occultare completamente il suo tripudio nell'aver udito, poco prima, ‘è nato’ e ‘bambino’.
Astrid sorrise intenerita dalla benignità di quell'omone grande e grosso, che sapeva però sciogliersi davanti alla dolcezza di momenti delicati e immensi come quelli – come la sua qualifica.
Accennò un sì deciso con la testa, senza però abbandonare il giubilo sul suo volto, e Stoick rivolse allora la sua attenzione al cielo, ringraziando i suoi dei per quel dono di cui lui non era stato graziato.
«Sai Astrid, ho sempre voluto un figlio», si lasciò andare in quella breve confidenza. «Lo avrei chiamato Hiccup. Mi sarebbe tanto piaciuto fosse maschio, per lasciargli in mano le redini di Berk.»
In quell'ultima aggiunta, un'ombra di desolazione gli attraversò amaramente e infelicemente gli occhi; non c'era dolore più grande per lui, di quello di aver perso sua moglie e di non aver mai avuto una prole – e, per quanto non se ne parlasse mai, non era un segreto per nessuno questa sua condanna.
Cercò di mascherare il tutto sorridendo ancora e poggiando una mano sulla spalla della ragazza, prima di lanciarsi nel raggiungimento della fortunata famiglia.
«Sono certo che, quando troverai qualcuno e avrai un figlio anche tu, sarà splendido Astrid.»
Incassata quella conclusione, con espressione serena Astrid lo osservò dunque allontanarsi definitivamente e goffamente via nella sua pesante corsa.
Si toccò il kransen che ancora portava in testa, segno della sua più estrema purezza.
In realtà non sapeva se lei avrebbe mai costruito una famiglia; dopotutto, aveva ormai vent'anni e nessuno le era ancora al fianco come suo cavaliere – e nemmeno ce lo voleva in fondo, un cavaliere, perché non c'era vichingo su Berk in grado di completarla, di colmare quello strano senso di vuoto che aveva nel petto, quella sensazione di appartenenza a qualcuno fatto di niente. Quel suo sentirsi un chiodo arrugginito in un bicchiere d'acqua.
Aveva uno strascico illeggibile dentro di sé, trasportato dal sangue in ogni sua vena. Un sentimento facente parte di qualcosa più grande delle sue conoscenze e della sua personalità, della sua stessa esistenza – perché non sapeva decriptare in alcun modo, quella latente ferita cucita con ago e filo dentro le ossa, quella ferita che la piegava davanti a un volere che non credeva potesse far parte di lei, ma, soprattutto, non riusciva a scoprire come potesse non farle male, ma solamente, semplicemente, essere in grado di costringerla nella gabbia della malinconia.
C'era una traccia invisibile sulla sua pelle, ma non riusciva a trovarla, né tantomeno sapeva affatto chi gliel'avesse lasciata – ed era incorporeamente assurdo, come non potessero vedersi, lì, l'uno davanti all'altra, a respirarsi sulle labbra.
Mentre lui osservava quello spiazzo terroso, vuoto e arido, si domandò per quale motivo si trovasse in quella strana terra senza null’altro che boschi e quella piazza spoglia a caratterizzarla – eppure, sentiva che una volta, forse, lì c’era stato un solido villaggio e una popolazione decisa e cocciuta.
Non ricordava esattamente che posto fosse quello, però avvertiva chiaramente della familiarità per quell'isola che, se mal non ricordava, doveva chiamarsi Berk – fredda ma dai colori intensi ed estivi, per quanto gli si congelassero anche solo i pensieri, in quel luogo vuoto e privo di qualsiasi cosa per cui valesse la pena soffermarsi.
Tuffò poi i suoi verdi occhi in quelli aspri di Sdentato – non sapendo nemmeno lui cosa stesse cercando con precisione nel suo sguardo –, ma alla fine decise di sorridergli e avvicinarglisi, accarezzando appena il suo muso nero e caldo, e osservandone l'espressione contenta a quel gesto.
«Andiamo, bello?» gli propose retoricamente, salendo successivamente sulla sella che gli aveva montato sulla schiena e lanciandosi in volo, verso la brillantezza di quel Sole alto nel cielo che gli accecava la vista.







F I N E




    » N O T E    A U T R I C E ;

Assolutamente nonsense, volutamente angst.
Esordisco a distanza di pochi giorni dall'ultima pubblicazione, e dovete ringraziare – o maledire? – solamente il video e la canzone dei Negramaro,
'Io non lascio traccia' – da cui questa storia prende appunto il nome e due o tre frasi rielaborate a modo mio.
Mi sono anche lasciata influenzare dal parallelismo di Silent Hill – son certa che tutti voi avrete visto il film –, da un'angosciante fanfiction russa di Kuroko no Basket che mi è stata raccontata e, durante la stesura del testo ho ascoltato prevalentemente la instrumental di BratjaFullmetal alchemist –, quindi immagino capirete il perché questa storia non poteva venire fuori in altro modo.
Sono veramente distrutta perché sono riuscita a farmi male da sola, ma vorrei comunque fornire una brevissima spiegazione per concetti magari poco chiari: questa storia è ambientata poco prima del 2 di How to train your dragon e, naturalmente, è tutto un what if un po' fantascientifico, perché Hiccup qui sta sparendo, sta entrando appunto in contatto con un universo parallelo al suo. Sporadicamente, infatti, vive in quel luogo senza nemmeno rendersene conto, per questo non riesce a spiegarsi come mai nessuno riesce più a vederlo e, con il suo continuare a frequentarlo inconsciamente, crea anche degli errori di memoria – chiamiamoli così – che interferiscono con il suo mondo di appartenenza e che cancellano la sua presenza da lì e dai ricordi degli altri, così come cancellano anche i suoi 
ed è per questo che, entrato definitivamente a far parte dell'altro universo, non ricorda assolutamente nulla della sua vita.
La piccola area vuota che Hic vede circondata da massi e piante, quando è alla bottega di Skaracchio, è esattamente il punto in cui sarebbe ubicata la sua abitazione, solo che lui ormai non la vede più.
A livello temporale, credo sia intuibile che il periodo sia lo stesso, solo che nell'universo da cui Hic viene risucchiato, Berk è vuota. Non ci sono case e non ci sono vichinghi.
Non c'è nulla; solo alberi e uno spazio arido sul quale, appunto, nell'universo primario il villaggio continua ad esistere senza di lui.
Come ho detto, la storia è nonsense e non credo quindi ci siano altre spiegazioni logiche.
Come unici appunti, dirò solo che Mildew è un personaggio che compare nelle due serie televisive Dragons: Riders of Berk e Dragons: Defenders of Berk, e Fungus è appunto la sua fidata pecora.
Róbjörg è un cognome – nome? – islandese/vichingo e non significa assolutamente nulla e non appartiene a niente della trama originale. L'ho inserito perché dovevo dare, comprensibilmente, un nome alla famiglia che cita Astrid.

Non credo di poter continuare più a lungo di così queste note, perché questa storia mi ha ucciso almeno quanto «Alle stelle, Hiccup. Alle stelle» – e chi l'ha letta, sa di cosa parlo – quindi saluto e ringrazio in anticipo ogni lettura e ogni commento. Alla prossima.


© a u t u m n
   
 
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