Il
Signore degli
Orsetti
1. Come tutto ebbe inizio
(ovvero: la sfiga non viene mai sola)
Buck
non era affatto un orsetto come
tutti gli altri, come si potrebbe invece pensare. Nossignore! Non
passava le
giornate seduto immobile su una mensola, a contemplare la parete di
fronte
stando in mezzo alla bambola Dolly e all’anonimo soldatino.
Non si faceva
strapazzare così facilmente da un qualunque marmocchio che
passasse di lì, né
usava prendere il tè con gli altri giocattoli, che essi
fossero pupazzi,
bambole, soldatini o qualcuno di quegli stupidi giochi a molla. No,
decisamente… Dovete infatti sapere che Buck era un orsetto
speciale, magico
oserei dire. Non sto dicendo che fosse sotto uno di quegli incantesimi
del tipo
“sei condannato a rimanere un orsacchiotto per
l’eternità! Solo di notte potrai
rivelare la tua vera essenza di bambino buono”. Per
l’amor del cielo! Nessun
maleficio, come a volte veniva quasi spontaneo pensare, faceva
sì che le sue
gambe e le sue braccia si muovessero come quelle di un umano,
né gli faceva
articolare parole a cui si potesse attribuire un senso logico,
né lo faceva pensare,
dubitare, sognare e tutto il resto. La causa della sua
“anormalità” doveva
essere, infatti, ricercata nella catena di montaggio dei folletti di
Babbo
Natale, che, evidentemente, avevano montato qualche rotella di
traverso, che
però era bastata a catapultare Buck in quello che i vecchi
barbuti chiamano “il
mondo psichico dell’essere umano”. In altre parole,
Buck era uguale in tutto e
per tutto a un qualunque sfortunato individuo come noi, con la sola
differenza
dell’apparire come un innocuo orsacchiotto giocattolo. Ma
nessuno, a parte noi
lettori, conosceva il suo segreto, nemmeno il suo padrone, che
incontreremo tra
poco, e così a Buck bastava starsene immobile sul divano o
sul letto per
schivare tutte le evenienze della vita, passando per un oggetto
senz’anima.
Ma
un’anima, Buck, ce l’aveva eccome.
Be’, non si può dire che fosse altruista,
coraggioso, intelligente, sensibile,
dotato del senso del dovere, forte, di buon temperamento e…
si potrebbe andare
avanti all’infinito elencando tutto quello che non era.
Diciamo solo che non…
straripava di virtù, sì, ecco.
Dall’altra parte, era invece cinico, sempre e
comunque, scansafatiche, vigliacco, egocentrico, scavezzacollo, che
preferisce
l’ingozzarsi al porsi le domande basilari
dell’esistenza umana. Chi siamo? Dove
andiamo? Da dove veniamo? Be’, lui la risposta a questi
quesiti ce l’aveva già,
e da un bel pezzo, anche. Perciò, si chiedeva,
perché lui, piccolo esserino
dalla mentalità limitata, c’era arrivato e tutto
il resto del mondo no? Era una
domanda troppo impegnativa, questa. Tornando alle tre domande
fondamentali,
be’, lui era Buck, o almeno tutti lo conoscevano
così, anche se avrebbe di
certo preferito un nome altisonante… che so, Alessandro
Magno, Lorenzo il
Magnifico, Ciro il Grande e via dicendo. Ma purtroppo era solo una
manciata di
quattro stupide lettere messe assieme per puro caso, che
però avevano tanta
voglia di divertirsi, far baldoria, rimuginare
sull’hakuna-matata, ascoltare
tanta musica rock e leggere decine e decine di fumetti osceni, che
però lui
teneva in altissima considerazione, neanche si trattasse
dell’Iliade di Omero.
Li classificava, infatti, come supremi esempi di vita.
D’altronde, chi va con
lo zoppo impara a zoppicare, no? Non sapeva perfettamente da dove
veniva, forse
da qualche parte su su, vicino al Polo Nord, dove un vecchio pazzo
senza
pensione cantava Jingle Bells anche ad agosto. Per il resto, non andava
da
nessuna parte, anche perché se ne stava più che
comodo lì stravaccato sul
divano-letto di una piccola hobbit casa della Contea, in quella che
chiamano la
Terra di Mezzo. Sì, perché quella era la sua casa
praticamente da… sempre, e
perciò non aveva la benché minima intenzione di
scollare il posteriore da tutte
quelle comodità, in particolare dalla poltrona in pelle con
funzione doppio
relax che al momento sostava davanti a un caldo caminetto.
Però, forse, va
precisata una cosa o due: infatti, Buck diceva di vivere lì,
a Hobbiville, da
quando il mondo era stato creato, ma in realtà ci stava
soltanto da quando il
suo padrone aveva deciso di venire ad abitare in quel piccolo paesino
hobbit, a
casa di un suo caro zio. Tutti quanti gli Hobbit erano delle personcine
veramente gradevoli, benché somigliassero molto, ma non
nella statura (assai
inferiore), a quei perenni malintenzionati degli umani.
Però, si diceva Buck, a
parte la gentilezza, gli Hobbit, quando ci si mettono, riescono a
romperti le
balle come nessun altro. Lo sapeva bene lui, che ci aveva a che fare
con quelli
ogni santo giorno! Sì, perché anche il suo
padrone, come si è potuto intendere,
era un Hobbit, e di nome faceva Frodo, Frodo Baggins.
Si
trattava di uno scapolo che aveva
abbandonato l’età dell’innocenza
già da un pezzo, e che viveva lì a Hobbiville
con lo zio, Bilbo, da quando, ancora ragazzo, aveva abbandonato
l’ala protettrice
degli altri suoi parenti, in quella sottospecie di casermone di Villa
Brandy,
dove tutti si ubriacavano da mane a sera. Per quanto poteva ricordare
Buck, le
loro vite si erano incrociate a partire dal quinto compleanno di Frodo,
durante
il quale l’orsetto, che doveva essere il regalo del piccolo
Hobbit, era stato
murato dentro la torta di compleanno, una sottospecie di ziqqurat di
fichi e
mele con su almeno due spanne di glassa alla fragola. Da quel momento
Buck era
diventato l’amico più intimo di Frodo, fungendo da
silente confessore dei
segreti più imbarazzanti dell’Hobbit. E che due
stivali e stivaletti dei
pensieri del suo padrone! Per un’ora al giorno, la sera prima
di addormentarsi,
Buck era sottoposto al flusso ininterrotto dei pensieri contorti di
Frodo, che
sviscerava anima e corpo pur di trovare qualche dubbio da sottoporre
allo
sguardo statico e silenzioso del suo compagno di pezza.
E per fortuna Buck, in quanto semplice
orsetto, non era tenuto a rispondere a tutti quei domandoni di un
povero
scapolo ultratrentenne, con un diploma conquistato per caso alla scuola
professionale e che non era ancora riuscito a trovare il suo posto
nella vita,
come non era mai arrivato a cuocere un uovo senza trasformare il
pavimento
della cucina in una specie di distesa ricoperta di bava di lumaca.
Però, anche
se ogni sera doveva sorbirsi i suoi sproloqui, a volte gli faceva
così pena
quell’Hobbit! E poi, se continuava a recitare la parte di un
qualunque orsetto
indifeso, poteva usufruire di tantissimi confort e rubacchiare qua e
là tutti i
biscotti al cioccolato che voleva… quando Bilbo non
guardava, s’intende.
Perciò,
anche quella sera, come tutte le
altre, Frodo, da buon adulto vaccinato che però ama ancora
stringersi al petto
un animale sintetico come Buck (accidenti a lui e ai suoi abbracci!,
pensava
l’orsetto; una volta o l’altra ci sarebbe rimasto
asfissiato!), si mise a
raccontare la sua giornata, che non si sapeva bene cosa dovesse avere
di
speciale. Invece, Buck si sbagliava grandemente, poiché,
sì, proprio quella
sera e quel dialogo avrebbero cambiato per sempre la sua vita. Se ne
stava come
sempre tra le braccia di Frodo, infilato a dovere sotto le coperte e
con i
piedi riscaldati da una soffice trapunta patchwork, mentre zio Bilbo
aveva da
poco spento la luce. Frodo, come da copione, iniziò nel buio
a raccontare dal
principio la sua giornata che, stando all’introduzione,
doveva aver riservato
notevoli sorprese al piccolo Hobbit. Buck, con le coperte che gli
sfioravano il
naso, se ne stava immobile, fermissimo, tanto da parere davvero un
semplice
pupazzo di pezza inanimato: in lunghi anni di esperienza era ormai
diventato un
esperto in questo. Per il resto, una parte del suo cervello ascoltava
distrattamente le parole concitate di Frodo, che fremeva nel narrare
ogni
singolo particolare, mentre l’altra, la parte più
grande, era concentrata
sull’elaborazione di una teoria che avrebbe potuto cambiare
il mondo: il tizio
di quella soap-opera che aveva visto quel pomeriggio in tv alla fine
avrebbe
scoperto che la ragazza della porta accanto andava a passeggio con il
fattorino? Mah…
«Sai,
Buck, credo che presto dovrò
prendere una decisione importante, dopo tutto quello che mi ha rivelato
Gandalf…» disse Frodo, con fare melanconico e
stringendo ancor di più Buck al
suo petto.
L’orsetto
fu per un attimo sottratto
alle sue riflessioni “filosofiche”
dall’entrata in scena di Gandalf, il mago
pazzo del villaggio. Eh, sì, proprio lui, Gandalf, il buon
vecchio Gandalf!
Perché continuasse a frequentare la Gente Piccola, lui che
era uno della Gente
Alta, tutti se lo chiedevano a Hobbiville. In particolare, pareva
nutrire un
rapporto di calda amicizia verso i Baggins, gente rispettabile da
secoli. E
anche Buck, come tutti gli altri, se lo ricordava bene, eccome! Come
poteva
dimenticare quella volta in cui il vecchio mago aveva voluto dar prova
dei suoi
straordinari poteri, facendo resuscitare un coniglietto appena sbranato
da un
lupo che passava per caso di lì? E ci era pure riuscito,
sì. Il lupo aveva
vomitato fino all’ultimo ossicino del coniglio, restituendolo
così al mondo,
quando aveva visto Gandalf esibirsi in una strana danza indiana
completo di
costume tradizionale: paglietta in testa, pareo con lustrini, occhiali
da sole
stile John Lennon e assolutamente e sfortunatamente al naturale. Oppure
di
quella volta in cui aveva inculcato nelle menti di tutti loro la
ricerca del
proprio “io” nascosto, che li aveva portati a un
lungo peregrinare… e proprio
perché siamo in mezzo a persone civili è meglio
non dire dove arrivarono alla
fine.
Mentre
pensava al vecchio barbagrigia,
Buck si ritrovò a domandarsi, per la prima e ultima volta
nella sua vita,
perché il suo padrone ostentasse un’espressione
decisamente più tirata e
preoccupata del solito, quando gli rivelava i suoi piccoli crucci
quotidiani.
«Ah,
Buck, non te l’ho detto! La cosa
più importante della giornata non te l’ho ancora
raccontata! Ma dopotutto sono
così tante le cose di cui vorrei parlarti!»
esclamò Frodo, e stampò un grosso
bacio sulla fronte del povero orsetto.
Buck
trattenne a stento un rigurgito.
«Come
ben sai, mio caro Buck, oggi è il
compleanno di zio Bilbo. E lo zio, sai, ha deciso di concedersi una
vacanza.
Dice che partirà domani mattina per Gran Burrone, e inoltre
mi ha dato una cosa
molto speciale. Guarda…».
Così
dicendo, Frodo si tolse dal collo
una catena dorata, che a Buck risultava completamente nuova, e la fece
oscillare davanti al suo muso. Solo allora l’orsetto si
accorse che vi era
appeso un bellissimo anello d’oro, che, pensò, a
occhio e croce doveva valere
un bel po’ di verdoni. Chissà quanti biscotti al
cioccolato avrebbe potuto
comprare con il ricavato della vendita di quel ninnolo!
«Stai
bene attento, perché questo non è
un anello come tutti gli altri. Nossignore! Come mi ha spiegato
Gandalf, questo
è l’Anello, l’unico e autentico Anello
del malvagio Sauron».
Così
Frodo iniziò a raccontare a Buck la
storia di quell’incredibile manufatto, rifacendosi a
ciò che Gandalf gli aveva
spiegato aiutandosi con un teatrino e alcuni gnomi da giardino. Man
mano che il
suo padrone cianciava e cianciava ancora, Buck vedeva il valore
dell’Anello
salire, salire fino alle stelle e nei suoi occhi già si
delineava il simbolo
luminoso del dio Denaro. Non gli importava granché che
quell’oggetto dorato
fosse frutto di un potere malvagio, creato solamente per dominare ogni
creatura
della Terra di Mezzo, dai Nani agli Elfi, dagli Hobbit agli Uomini e
consegnare
il potere assoluto e irreversibile nelle mani del più
diabolico e crudele
aspirante tiranno che fosse mai comparso sulla faccia della terra. Per
il
guadagno, la coscienza scroccona dell’orsetto poteva passare
anche sul fatto
che quell’Anello poteva rivoltarsi al suo possessore e farlo
diventare una
specie di umanoide. Invece, il fatto che fosse in grado di rendere
invisibile
chi lo indossa, giocava a vantaggio del prezzo, che saliva, saliva e
saliva
ancora. Centomila biscotti al cioccolato, anzi no, un milione, no, no,
tre
miliardi… una caverna hobbit strapiena di biscotti fino a
scoppiare! Ma un
problema si delineava all’orizzonte…
«
…e proprio per questo devo mettermi in
viaggio e andare fino al Monte Fato, a Mordor, la terra di Sauron, per
distruggere l’Anello, poiché può essere
eliminato solo nel luogo in cui è stato
forgiato, ha detto Gandalf. E così, Buck, solo
così riusciremo a salvare la
Terra di Mezzo da un grande male» disse Frodo e tutte le
speranze di guadagno
che la mente di pezza di Buck aveva sfornato andarono in fumo,
spargendo nel
suo animo la stessa delusione dell’arrivo della bolletta del
telefono.
In
quel istante, in quel preciso
secondo, avrebbe dato qualsiasi cosa per poter urlare qualche invettiva
in
faccia al suo padrone, con l’alito che puzzava ancora di
bruschetta all’aglio,
oppure per rompergli in testa quel prezioso vaso cinese
nell’angolo, che però
Frodo, da idiota qual era, adoperava come vaso da notte. Il tutto
riuscendo a
fregarsene altamente delle conseguenze. Però tutto
ciò non gli era concesso, e
quindi dovette, come sempre, subire in silenzio.
«Quindi,
Buck, mi metterò in viaggio
appena possibile, dato che Sauron sta cercando il suo Anello, e
potrebbe essere
ormai vicino, forse troppo, a noi. Finalmente la famiglia Baggins
potrà
annoverare un altro eroe in famiglia, secondo solo a Bilbo
s’intende, dopo quel
suo incidente con il drago… Ma il percorso è
molto pericoloso, Buck, e già
dubito delle mie capacità. Oh, chi sono io per pretendere di
elevarmi a
salvatore della Terra di Mezzo? Sicuramente ci sono un sacco di persone
più in gamba
di me, degli eroi in grado di compiere gesta gloriose che saranno
ricordate per
l’eternità. Io non sono un eroe, no…
però il destino ha scelto me e quindi
andrò fino in fondo!».
E
bravo ragazzo!, pensò Buck trattenendo
uno sbadiglio. Finalmente hai trovato sul tuo dizionario una parola
importante:
autostima! Anche se a lui, l’orsetto più genovese
del mondo, ancora non andava
giù il fatto di dover rinunciare ad ingozzarsi di biscotti
al cioccolato fino a
vomitare. E per cosa, poi? Ah, sì, per la salvezza della
Terra di Mezzo,
bell’affare!
«Però,
Buck, non ti devi preoccupare per
me…» disse Frodo, con una nota affettuosa nella
voce.
A
quel punto l’orsetto non vedeva l’ora
che tutta questa storia finisse. Aveva un urgente bisogno di andare al
gabinetto, lui!
«È
vero, ci sono molti pericoli sul mio
lungo percorso. Il Signore Oscuro, l’Occhio Che Tutto Vede,
sta cercando il suo
Anello, ed è ansioso di rimpossessarsi del potere, e
perciò avrà dato ordine ai
suoi malvagi servi di cercarci… Gandalf ha detto che i suoi
servitori più
temibili sono i Nazculi. Non ha avuto il tempo di spiegarmi esattamente
cosa
sono, comunque girano con l’aspetto di Cavalieri Neri, dai
quali c’è da
guardarsi eccome. Gandalf, purtroppo, è dovuto ripartire in
fretta e furia,
poiché aveva degli affari urgenti da sbrigare, e ha detto
che ci rincontreremo
a Brea».
Problemi
con la banca, commentò Buck
mentalmente. Non esisteva garbuglio nel quale prima o poi il vecchio
mago non
fosse caduto: truffa di sigarette, raggiro di vecchiette con la scusa
di
raccogliere assegni e carte di credito per l’otto per mille,
spaccio di
tartarughe carnivore brasiliane, tentato omicidio di Babbo Natale
durate un
periodo di depressione (Gandalf affermava che il buon vecchio voleva
rubargli
il lavoro), falsificazione di buoni sconto per il supermercato
Sganci-Tu-Magno-Io, eccetera eccetera.
«Comunque,
non ho intenzione di partire
da solo, Buck. Sam, Merry e Pipino si sono offerti di
accompagnarmi» aggiunse
Frodo.
E
no! Proprio con i tre idioti del
villaggio no! Erano perfino più stupidi di Frodo, e per fare
ciò bisogna
sforzarsi non poco, senza contare che, messi insieme, assomigliavano
più a una
banda di tacchini appena uscita da un cocktail party a Saint Tropez.
Anzi, i
tacchini sono troppo intelligenti per subire un tale affronto
nell’essere
paragonati a quei tre Hobbit, naturalmente amici di Frodo, che tutto il
santo
giorno ronzavano in giro a rompere le palle perfino ai morti. No,
quella era
proprio un brutta compagnia con cui partire, e per di più
per un viaggio così
pericoloso!
Ma
cosa diavolo gliene importava a lui?,
si disse Buck alla fine, cominciando a sentire i crampi alla schiena a
forza di
stare lì fermo come uno stoccafisso. Tanto lui, quel povero
orsetto di pezza,
era destinato a rimanere lì a Hobbiville, nella sua
confortevole casetta
hobbit. E, finalmente, avrebbe potuto usufruire di tutto ciò
che si trovava lì
dentro senza avere l’acqua alla gola dal timore che,
improvvisamente, qualcuno
avrebbe potuto sorprenderlo a rovistare nella cassaforte di Bilbo e,
cosa
ancora più grave, scoprire la sua vera natura di orsetto
magico e vivente. Ma,
se tutti se ne andavano da casa Baggins, avrebbe potuto sguazzare tutto
il
giorno nella vasca idromassaggio, stare alzato fino a tardi a guardare
Dracula
in DVD, prosciugare le scorte di birra e idromele del padrone di casa e
riscoprire il ronzio di un lucida-scarpe elettrico che Bilbo aveva
relegato nel
ripostiglio del sottoscala il Natale scorso. Stava per addormentarsi
tra le
braccia di Frodo, con in gola un sospiro di sollievo e
un’esclamazione di gioia
davanti a tutta quella promessa libertà, quando il suo
padrone lo riscosse,
mettendolo a sedere dritto sul cuscino. Era ormai giunta
l’ora della
buonanotte.
Sia
Frodo che Buck stavano per
rimettersi a dormire, quando il primo disse all’altro:
« Ah, Buck, quasi mi
dimenticavo… vieni anche tu con me».