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Autore: Silver Pard    29/04/2014    2 recensioni
Il lieto fine dipende dal punto di vista.
[ Raccolta di rivisitazioni fiabesche:
01 ~ Cenerentola – Lei era acqua, e non esiste ostacolo che non possa superare.
02 ~ La bella addormentata – Profondamente addormentata e indescrivibilmente bella: se l’è cercata.
03 ~ La bella e la bestia – Le manca la Bestia.
04 ~ Il gatto con gli stivali – Il Gatto non è più tanto accomodante.
05 ~ Cappuccetto Rosso – Facciamo un gioco.
06 ~ Le fate – A volte le si tagliavano così tanto le labbra che i diamanti parevano rubini.
07 ~ I sei cigni – Il sesto fratello, il sesto cigno si abbandona alla deriva, dilaniato tra due mondi.
08 ~ Biancaneve – E si sveglia con il labbro rotto a morsi e gli occhi neri di odio e il cuore pieno di ghiaccio.
09 ~ Mr Fox – Osa, osa, ma non osare troppo, o il sangue dentro il cuore ti si ghiaccerà di botto.
10 ~ Hansel e Gretel – Soprattutto, ha paura del modo in cui sua sorella guarda alla strega.
11 ~ Tremotino – Il tuo nome è panna nella sua bocca, ma nelle dosi giuste, tutto è veleno. ]
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Nota: Tremotino (Rumplestilzkin in inglese, Rumpelstilzchen nell’originale tedesco) è una fiaba dei fratelli Grimm abbastanza nota, credo, ma per chi non la ricordasse o non la conoscesse posto un link e un riassunto: la figlia di un mugnaio che si era vantato con il re delle capacità della figlia di filare oro dalla paglia, quando il re la costringe a dimostrarlo (pena la morte), si ritrova a fare un patto con una sorta di folletto, dandogli un anello e una collana e promettendogli il suo primogenito. Il re alla fine la sposa e lei partorisce un bambino; il folletto arriva dunque a reclamarlo, ma lei riesce a scucirgli un altro patto: se lei avesse indovinato il suo nome, avrebbe potuto tenersi il figlio, e così effettivamente accade (e Tremotino si arrabbia così tanto da fare una fine abbastanza truculenta, of course).




Name ~ Nome





Piangi e piangi, le tue lacrime e le tue pene non hanno fine, poiché all’autocommiserazione subentra la paura e alla paura la disperazione.

Fili.

La paglia si spezza.

La paglia si spezza.

La paglia si spezza.

Quel poco che regge non può essere attorcigliato al fuso.

Soffochi nella polvere, nella paglia, nell’impotenza. Morirai.

« Perché piangete » dice qualcuno.

Apri gli occhi, offuscati dalle lacrime, incontri gli occhi più strani e accesi che tu abbia mai visto. Non potresti descrivere il loro proprietario nemmeno se ci provassi, sebbene tu lo veda con una tale chiarezza che ora che c’è lui il mondo è un dipinto incompiuto. (Il suo aspetto dovrebbe far ridere? Ce la fai a ridere? Non ne hai voglia.)

« Il Re mi ucciderà » dici, con la semplicità dell’autocommiserazione.

« Siete un gioiellino, incredibile che un uomo sprechi una tale bellezza. »

« Vuole più l’oro di quanto voglia me » dici. Non hai le parole per descrivere cosa questo significhi per te; non sai di cosa essere più spaventata – della morte o dello sguardo senza nome che non comprendi. « Vuole che fili oro da tutta questa paglia, ed è impossibile! »

Le parole si accalcano sulla tua lingua, spiegazioni come: egli ha sangue antico, sangue che brilla, di un qualche tempo e luogo remoto, e per quanto sia diluito, crede di riconoscerci qualcosa in me; ricorda che con delle foglie si può fare un sacco pieno d’oro, ma non che tornano a essere foglie al mattino dopo. Lui ti guarda e le dimentichi.

« Come vi chiamate, gioiellino? »

« E-Elise » mormori. (Sciocca ragazza, ogni storia non fa che raccontarti del potere dei nomi.)

« Elise? Elise. Non credo sia adatto a voi. Avete bisogno di carpire più forza da un nome. Cessate il vostro pianto, mia cara, il compito che vi hanno affidato non è una gran cosa. »

« Lo sapete fare? Sapete filare l’oro dalla paglia? » Ti prudono le dita, insanguinate dalla paglia scheggiata.

« Sì » risponde, sorridendo, aggrovigliando in forme strane il tuo tormento tra le sue lunghe dita.

« Non vi credo » dici. Ti trema la voce (è speranza, è disperazione?). « Voi mentite. »

« Io non mento mai. Dico sempre la verità. Una di quelle due cose è vera. »

I tuoi occhi non si lasciano sfuggire le sue mani, le sue belle mani agili, tra le quali a una certa luce la paglia risplende d’oro. « Mi ucciderà se domattina non trova l’oro. Darei qualunque cosa per vivere » mormori.

« Qualunque cosa? » dice, sorride. « Mia dolce, sciocca ragazza, accorta con le parole. »

(Troppo tardi. In questo momento temi lui più di qualsiasi sovrano.)

« Concedetemi il vostro medaglione (concedetemi la vostra grazia) e per voi filerò l’oro dalla paglia. »

Ti senti piegare le ginocchia dal sollievo (tutto qui, tutto qua quello che vuole?). Slacci il medaglione, un regalo di tuo padre, donato in tempi migliori, e glielo concedi.

(Adesso sei legata a lui – o lui è legato a te – così come se avessi mangiato un frutto dalla sua mano.)

Lui lo tocca, famelico, come se valesse quanto una stanza piena d’oro (quando se lo appende al collo dimentichi il volto di tuo padre, il tuo amore mai sopito per lui che è sopravvissuto a tutte le sue vanterie, e a tutti i guai, e a tutto il dolore che ti hanno causato.)

Il telaio gira e gira e il filo risplende d’oro.




Maledici il Re e di nuovo esamini la stanza in cerca di una via di fuga, le morbide mani da filatrice insanguinate dalla pietra, dalla paglia.

Allora ti siedi, e aspetti, finché non senti lui, il tuo nome come panna sulla lingua: « Elise, mia Elise, come mai le lacrime? »

Tu dici, con gli occhi rossi, la faccia bagnata, la voce che trema di furia e impotenza: « Quando gli basterà? »

Lui dice: « Elise, innocente Elise, il cuore di un uomo ha finitezza, la cupidigia trabocca. Non gli basterà mai. »

Tu chiedi: « Che farò? »

« Concedetemi il vostro anello (concedetemi la vostra grazia), mia dolce, recidete i legami col passato e concedetemene i fili, e filerò e intreccerò e vi tesserò un futuro d’oro brillante. »

(Ti dimentichi di chiedere a te stessa o a lui se è quello che vuoi.)

L’anello di tua madre, e della madre di tua madre, una cosetta insignificante che vale più per il ricordo che per l’argento con cui è stato lavorato.

Lui si prende il tuo ricordo e se lo infila al dito più piccolo – senti tua madre che lascia andare i suoi legami di sangue e ti abbandona, e di colpo non sapresti dire perché perderla ti abbia mai stritolato il cuore.

« Ricordate, tre è un numero magico, e il sangue del Popolo delle fate è debole se troppo lontano dalla fonte. »

« Sì » dici.

« Comprendete? Vi tesserò un futuro, ma dovete darmi il modello da seguire. »

« Comprendo » rispondi. « Ho magia sufficiente per tre notti. Lui deve giungere a quella conclusione da solo. »

« Brava » dice. (Il tuo cuore si gonfia, ti riempie il petto, così grande da starti scomodo – così facile da ferire. Quanto è semplice farti piacere.)

« Dopo sarò libera? »

« Le nostre definizioni di libertà non coincidono » dice, « perché siamo creature molto diverse, io e voi. »

(No. No, tu non sarai mai libera.)

Il telaio vortica e vortica e il filo risplende d’oro.




« Non ho nient’altro da darvi » dici l’ultima notte, la terza notte, il che è lungi dalla verità. Hai la stessa valuta di ogni donna. Ci sarebbe anche il sangue, e il sangue versato aumenta sempre il valore di qualcosa, o così sembrerebbe a volte.

Se fossi saggia, ti offriresti, invece che lasciargli chiedere – ma sei giovane, una bambina che non è mai stata innamorata ma ci crede lo stesso, e non ce la fai a obbligarti.

Immagini tutte le cose che uno della sua razza potrebbe chiedere. Immagini: il cuore del tuo primo vero amore in uno scrigno di legno. Il tuo cuore, la sua rottura o il suo sangue. La tua memoria. La tua giovinezza. I tuoi ultimi anni. La tua voce. Il tuo udito. La tua vista. Il tuo corpo è l’ultima cosa che potrebbe chiedere. Eppure fai scegliere a lui.

Lui ti guarda, arriccia le labbra. Il tuo nome è panna nella sua bocca, ma nelle dosi giuste, tutto è veleno.

Si avvicina. « Concedetemi la vostra creatura » sussurra. Senti la sue parole sulla pelle. « Il vostro primogenito, maschio o femmina, non importa, chiedo soltanto che mi diate la vostra creatura. »

« Io – sì » accetti, sommessa e debole come un gattino appena nato. « Ma – potrei non averne mai » mormori, lo sguardo sulla sua gola per evitare quegli alieni occhi smeraldo.

Lui ti stringe la testa tra le mani, i palmi soffici (ovvio, lavora con la lana come te), rivolge il tuo viso al suo. I suoi occhi incontrano i tuoi e ti divorano. Brillano, risplendono, famelici in un modo che non conosci. (Pensi che ti voglia, e sai che per metà è vero.) « Ne avrete » ti dice, un dato di fatto.

(Tua madre ha travagliato e travagliato per farti venire al mondo; eri la sua terza figlia e la sua prima. Ma lui dice che ne avrai e non c’è posto per il dubbio.)

Sospetti di aver frainteso (speri di aver frainteso). « Ve ne occuperete voi? » chiedi, con un tono che avrebbe voluto essere malizioso e risulta invece soltanto curioso.

Lui ride. Lo senti nelle ossa. Pensi, malinconicamente: (se io potessi scegliere) saresti il primo. Pensi, sensatamente: non posso scegliere. Pensi, saggiamente: ho molto da temere da te.

« Vostro figlio » ripete.

(Tieni più alla vita che a un ipotetico figlio. Come chiunque.) « Sì » dici, la voce un po’ più forte (vivrai, tu vivrai, e a costo di un qualcosa che potrebbe non venire mai).

« Ancora » incalza. « Una terza volta vi chiedo – mi darete la vostra creatura in cambio del lavoro di stanotte? Lo giurate? »

« Lo giuro. »

« Chiesto tre volte, per tre volte accettato » dice, si siede, e comincia a filare.

Sei stata sempre una sciocca.




Ti sposi con dei fili di paglia d’oro intrecciati ai capelli scuri, una corona di foglie. Le tue mani odorano di fumo di legno da quando hai trascinato le dita nelle ceneri fredde del telaio.




Il tuo nuovo marito ti chiama con nomignoli come cara, tesoro e amore, ti chiama moglie come per ricordarlo a se stesso.

Credi che non sappia il tuo nome. Se anche lo sa, non ne accarezza mai le sillabe, che non fluiscono da lui come seta, come se la loro stessa esistenza fosse acqua per una gola riarsa.

(Ma nel buio della tua notte di nozze – ed è sul letto nuziale che sei sdraiata, anche se le candele proiettano ombre strane e rendono tutto ancora più alieno di prima – il tuo nome cola come miele dalla sua lingua.

Non è doloroso come immaginavi, quanto ti aveva detto Greta, l’amareggiata Greta che è cresciuta tanto in fretta e tanto bruscamente, eppure ti mordi il labbro e ti si riempie la bocca di sangue, mentre il tuo nome ti viene restituito, panna che si mischia al rame.

La notte successiva è diversa, ma non è sempre così che va?)

Ti sveglia il russare di tuo marito al tuo fianco, la fronte corrucciata come nel tentativo di ricordare qualcosa mentre è intrappolato nei sogni. Lo lasci lì e cerchi le camere riservate a te, linde e nuove, che odorano di cera d’api. Ti lavi con l’aceto e rimiri un’alba solitaria.

(Concedetemi la vostra creatura. Le genti del Popolo delle fate, del Popolo brillante, non si riproducono con facilità o bene.) Nulla cresce nell’aceto, dicono le vecchie mogli.

Appendono il lenzuolo sporco di sangue alla merlatura come un trofeo.




Il tuo corpo ti tradisce, si velocizza e cresce. Maledici la tua fertilità e ti domandi cosa trattenga tuo figlio quando i tuoi fratelli e le tue sorelle sono riusciti a restare nel grembo di tua madre solo il tempo di qualche nome indeciso.

(Il vostro primogenito, maschio o femmina, non importa, chiedo soltanto che mi diate la vostra creatura.)

Odi la corona che non indossi ma senti comunque sul tuo capo. Odi i vestiti, odi il velluto e il broccato che ti schiacciano, odi le domestiche e il modo in cui ti guardano la vita, odi i sogghigni dei nobili, odi la consapevolezza che per quanto ti pieghi e inchini non è mai abbastanza – sbagli la postura, come mangi, come parli, come cammini, niente di quello che fai è mai abbastanza – stanno tutti aspettando che ti spezzi.

Non darai loro la soddisfazione. Raddrizzi la schiena, ti tieni stretto il tuo nome e te ne stai da sola, come sei sempre stata – sempre, a eccezione di tre notti.

Odi il fatto che stai imparando la crudeltà.

(Ami il fatto che stai imparando la crudeltà.)

« Un gioiellino » ti chiama tuo marito (ma non lo dice nel modo giusto – concedetemi la vostra grazia, mia cara, mia preziosa, dolcissima gioia.) « È un gioiellino ma bello come può essere bello un falco, sa essere brutale quando vuole, e letale senza il cappuccio. Fortuna » scherza, « che ce l’ha sempre. »

Lui stima la tua crudeltà; la chiama maestosità – per lui, è come un segno che siete pari, che ha scovato una regina nata, senza averne alcuna idea. Per lui, gli altri uomini lo invidiano per la tua mancanza di smancerie, e forse è così, ma trovano il tuo freddo ritegno di gran lunga più inquietante.

Abbozzi un sorriso stretto (se ti vedessi in uno specchio lucidato forse lo riconosceresti) e gli lasci credere che sei cieca, perché è vero, ma stai imparando ad ampliare la vista giorno per giorno.

Non odi tuo marito (non te ne importa abbastanza da sprecare una tale emozione per lui). Così ti sta bene, ti conviene. Se lo odiassi, sarebbe molto più difficile farti amare da lui, e tu sei determinata a farti amare da lui, o almeno a fargli vedere che sei utile. (Ti occupi dei suoi registri, dei suoi libri, puoi conservare le sue ricchezze invece di accrescere. È un buon patto. Chiedi così poco in cambio, in fondo, soltanto il suo cuore, il suo cuore inesperto che non saprà la differenza tra l’amore e l’affetto necessario.)

« Sei crudele, mio bell’uccellino » dice lui, canzonatorio, perché non sa la verità delle sue parole. Crede che tu stia imparando ad amarlo (non gli passa per la mente che sei tu l’insegnante). Crede che il figlio che porti in grembo ti addolcisca, ti intenerisca il cuore (così è più facile dividerlo in pezzi e gettarlo via) quando in realtà è il contrario. Un cuore fievole non serve a nessuno – non vince le domestiche, non protegge i bambini.

Abbassi le ciglia, mormori: « Sono solo ciò che voi avete fatto di me. »

Sotto la tua mano, il bambino che hai già perso scalcia e si volta.




« La maternità è adatta a voi » constata. « Vi viene naturale. »

Tu culli tua figlia, soffice, calda e vulnerabile, tua figlia con i suoi occhi accesi. (Quanto hai riso la prima volta che l’hai vista – una figlia femmina, a lui non dispiacerà più di tanto la perdita di una figlia femmina – non sapevi che il suo peso tra le braccia, il suo morso al seno avrebbero sciolto il tuo cuore di pietra come purissimo oro.)

« Mi dovete una vita » ti rammenta gentilmente, leggendo i tuoi pensieri.

« Non la sua. »

« Sì, la sua » dice. « Me l’avete promessa. Tre volte me l’avete promessa. »

« Avete chiesto che vi dessi una creatura. » (E ve l’ho data, non lo dici, non puoi riconoscere l’evidenza che si palesa sin dagli occhi di tua figlia.)

« Furbetta » dice, divertito. « Non provate a sfidare me ai giochi di parole, mia cara. »

Ha sempre avuto i denti così affilati, così lunghi?

« Vi prego » implori, ricordi l’avidità con cui guardava le tue lacrime, come se volesse leccartele dalla faccia per assaporare il tuo dolore. Le lasci cadere (debole, che scambi le tue lacrime per debolezza alla maniera degli uomini).

« Rinnegate il nostro contratto » dice, la voce che si fa fredda, tagliente, una daga di ghiaccio in un giorno d’estate.

« No- » dici (sì, dici), pensando agli occhi di tua figlia, accesi e pieni di luce. (La odi, la ami – ma è tua e questa è l’unica cosa che conta.)

« Elise. » Seta nella sua bocca. « Dov’è il vostro coraggio, la vostra forza? I vostri vestiti di velluto hanno annegato tutto ciò che eravate? Che cosa avete da temere da me, io che vi ho aiutato in cambio di nient’altro che un anello, un medaglione e la vostra parola? »

« Vi darò- »

« Qualunque cosa? Mia dolce, sciocca ragazza, sono quelle le parole che ci hanno portato qui. »

« Oro, argento- »

« Paglia? » Ride.

« Vi prego, chiedetemi qualcos’altro, una cosa qualunque, tutto tranne mia figlia. »

« Mia figlia » la corregge. « Mia, perché avete promesso, avete giurato, e un contratto stipulato tre volte non va infranto. »

« Mi portate via l’unica cosa che è mia. »

« Verranno altri bambini. »

« Ma saprò di averla persa. Non voglio sostituirla con altri bambini! Lei non può essere sostituita! »

« Sh, sh. Perché combattete tanto? »

« Voglio tenermi la mia piccola. »

« Non per la paura di cosa vi farà vostro marito quando troverà la culla vuota? Avete imparato ad amarlo, Elise, temete la sua delusione? »

Sputi sul pavimento, torni a essere una contadina. « Questa bambina » dici. « Questa bambina è mia. La amo, non combatto per lei che per la sola ragione che è mia. »

« Brava » commenta, ma il cuore stavolta non ti si gonfia, non si fa più toccare se non dalla figlia inquieta tra le tue braccia. « Vi propongo un patto. »

« Basterà un nome » dici, impotente. (Il cerchio si chiude, punto e daccapo ti ha portato il telaio.)

« Ah, precisamente. Se saprete chiamarmi con il mio vero nome tra tre notti, potrete tenere la bimba. »

(Le genti del Popolo delle fate non hanno nomi umani.)




È piccolo, lui? Credi sia piccolo, ma forse la tua memoria lo ha rimpicciolito per provare a diminuirne la minaccia. Lo dividi a pezzi, ne descrivi ogni segmento con tutta la compiutezza di cui sei capace e speri che messi insieme abbiano senso compiuto. Ha gli occhi accesi, tanto accesi. Non li scambieresti mai per occhi umani. Ha i capelli neri come la notte, lucidi come l’ala di un corvo, e fini come i petali di un soffione, con lineamenti affilati e selvaggi.

I tuoi messaggeri e le tue spie ti guardano con sorrisi indulgenti e forzati. Quelli di lignaggio basso (il tuo lignaggio) ti guardano con pietà, pensano che i tuoi ricordi titubanti appartengano a una ragazza innamorata, che la memoria e la perdita hanno fatto di una cosa ordinaria qualcosa di straordinario (ricordano che avevi una vita prima che accadesse tutto questo). Tu non sai cosa pensino i nobili (cosa pensi tuo marito quando glielo riferiscono). Non ti importa.

« Scoprite il suo nome » dici. « Vi ricompenserò. »

Uno per uno ricordano che hai sangue che brilla, che dalla paglia sai filare oro che non si tramuta in pula alla luce del giorno (ricordano che il telaio è bruciato, ma sono abbastanza saggi da credere che la magia non risieda nello strumento).

Se ne vanno via, in ogni angolo del regno, riportano nomi che nella tua bocca non sanno di nient’altro che di nomi.




« Non mi chiamo così. »

« Non mi chiamo così. »

« Non mi chiamo così. »




« Mia Regina, ho trovato, credo, l’uomo che cercate. »

« Il suo nome? Ditemi il suo nome! »

« Mia Regina, l’ho visto cantare, ma in una lingua che non conoscevo, anche se sono pratico di una dozzina di lingue o più. Mia Regina, se il suo nome era tra quelle parole non saprei ripeterlo. »




« Qual è il vostro nome » dici, la mano sul suo polso, la tua voce un bisbiglio implorante.

Lui ride. Ti bacia, i denti aguzzi contro le tue labbra soffici, e non trasalisci. « Mi congratulo per la vostra arguzia, ma non crediate di potermelo vincere con il vostro corpo, per quanto incantevole. Perciò lasciatemi, bambina, e mantenete la vostra dignità. »

« Ho inviato messaggeri a frugare la terra in lungo e in largo. Ho invitato maghi e streghe e chi semplicemente fa affari con la vostra razza. Ho imparato a memoria il censimento. Vi ho detto tutti i nomi a mia disposizione, dagli antichi ai moderni, dai più usurati ai nomi che ho inventato io. A ciascuno avete detto: “non mi chiamo così.” »

Stringe tua figlia tra le braccia, la culla con delicatezza. Lei fa per toccarlo con le sue minuscole mani, la tua parte migliore, e la sua perdita è in agguato, come un baratro sotto i piedi. « Prendetela, dunque, se dovete » cedi, parole di veleno.

« Un bambino ha bisogno di una madre » dice lui, pigramente.

Nel tuo petto vuoto, il cuore come il nocciolo una pesca rinsecchita crolla, si ferma, si dimena per ricominciare a battere.

« Avete imparato ad amarlo, vostro marito, l’uomo che vi avrebbe ucciso se non foste riuscita a filare oro dalla paglia? »

« Lui mi ama » dici semplicemente. Non con orgoglio, anche se ti sei impegnata tanto perché fosse tale.

« Credete che questo basterà a proteggervi, contadina che non può più filare? »

« Forse » mormori, ma hai gli occhi sul viso di tua figlia.

« Cosa vi lega a questo luogo? »

« Non ho legami » gli dici. « Nessuno all’infuori di mia figlia. Non ricordate? Vi ho concesso i legami del mio passato e li avete recisi, ma non mi avete dato i fili del mio futuro con cui rimpiazzarli. Ci avete solo tessuto qualcosa da farmi calpestare. »

Il tuo ciondolo al suo collo, il tuo anello alla sua mano, tua figlia fra le sue braccia. (Pensi che ti voglia, e sai che è vero.)

« Allora Elise, mia dolce Elise, ricordate cosa mi avete chiesto la seconda notte? Vi ho detto che le nostre definizioni di libertà erano diverse, ma non più di tanto. Lasciate che ora vi dia la libertà, la possibilità di scegliere come preferite. Nella vostra lingua si può dire che il mio nome sia Tremotino. Ora che potrete tenere vostra figlia indipendentemente dalla vostra scelta, venite con me o restate, se volete – ma fate come voi volete. »

« Lasciate che vi dia anch’io la libertà dal nostro patto » dici. « Il mio nome è Elfriede. »

(Dietro di te, un regno di paglia.)






Nota della traduttrice: So. Questo potrebbe essere l’ultimo aggiornamento alla storia. Qualche anno fa Silver Pard aveva detto di star scrivendo un capitolo sul Pifferaio Magico, ma non aggiorna le sue storie da un annetto (due, su fanfiction.net) e questa rivisitazione di Tremotino è datata al 31 gennaio 2011.
La raccolta in originale non è indicata ufficialmente come completa, e forse un giorno Silver Pard la rispolvererà. Fino ad allora, la segnalerò come incompiuta, anche se quest’ultima storia sembra stranamente adatta a chiudere il cerchio, con una fine che sa di fine – di lieto fine, addirittura, che per una raccolta che si è ripromessa di ribaltare il concetto di lieto fine fiabesco è dire tanto. Con una protagonista forte che è libera di trovare la propria felicità come e dove meglio crede, con un co-protagonista maschile che per la prima volta le chiede cosa vuole lei e lascia che sia lei a scrivere il suo lieto fine.
Dal momento che questa è potenzialmente l’ultima storia, nei prossimi giorni potrei dare una sistemata all’intera raccolta (nel frattempo ho ritoccato la presentazione), e colgo l’occasione per ringraziare tutti i lettori e i commentatori che hanno seguito questa traduzione di Hall of Mirrors nel corso degli anni, e anche tutti quelli che sono passati solo di sfuggita e possono avervi trovato qualcosa. Era una di quelle storie che avevo cominciato a tradurre solo per me, perché mi piacciono le fiabe e mi piacciono le riletture moderne che non sentano il bisogno di essere altezzose o politically correct, e sono contenta che altri abbiano apprezzato.
Alla prossima ;)
youffie
   
 
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