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Autore: Kim_HyunA    02/05/2014    5 recensioni
Forse doveva smettere di fissarlo in quel modo, chissà cosa avrebbe pensato di lui. Ma era una sua abitudine, era un qualcosa che non riusciva a controllare. E con Kibum, questa sua mania sembrava non fare altro che aggravarsi.
“Hai intenzione di fissarmi ancora a lungo o ti siedi?”.
“Posso scattarti delle foto?”.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jonghyun, Key
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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C’era un atmosfera irreale quel pomeriggio. Un’atmosfera calma e rilassata, quasi sospesa. Era quella la sensazione che la luce dorata del sole di metà pomeriggio diffondeva per tutta la città. Sotto un cielo limpido e luminoso, tra le foglie verdi degli alberi scosse da un leggero vento, era come se il tempo si fosse fermato. Si sentiva il cinguettio di un qualche fringuello nascosto tra i rami, e il rumore delle macchine in coda davanti ad un semaforo per troppo tempo rosso.
 
Jonghyun strizzò appena gli occhi, abbagliato dal sole, e si spostò i capelli dalla fronte. Il gesto gli fece scivolare la borsa su una spalla e, mentre aspettava di poter attraversare per poter raggiungere l’altro lato della strada, la sistemò meglio.
 
Era rilassante camminare per le strade tranquille della città. Si stava avvicinando l’estate e le vie si svuotavano giorno dopo giorno. Certo, non gli dispiaceva che la folla diventasse sempre meno numerosa; gli dava la possibilità di fare ciò che gli piaceva di più. Concentrarsi sulle persone. Amava camminare in mezzo agli altri, osservare i loro volti ad uno ad uno e, a partire dalle loro espressioni, cercare di capire qualcosa sulle loro vite. Sì, a Jonghyun piaceva immaginare. Più di ogni altra cosa. Gli capitava, a volte, di sedersi in un parco, su un prato o su una panchina, e scrutare attento per ore e ore i visi dei passanti. La sua fantasia iniziava a viaggiare mentre si chiedeva quale fosse la ragione dietro ad un sorriso o quale fosse la storia di due persone che si tenevano per mano. Osservava e si trovava a sorridere. Guardare gli altri lo faceva sentire a suo agio. Lo faceva sentire talmente a suo agio che non esitava mai a prendere il suo blocco da disegno dalla borsa e iniziare a disegnare per ore e ore. Qualsiasi cosa. La sua matita scorreva sicura sui fogli bianchi, dando vita a paesaggi e persone. I suoi disegni erano vivi, avevano un’anima. E mentre rifletteva prendendosi un labbro tra i denti, non si accorgeva di come il tempo passava. Gli era capitato tante volte di ritrovarsi circondato dall’oscurità. All’improvviso. Come se nel giro di qualche secondo fosse velocemente scesa la sera.
 
Jonghyun continuò a camminare lungo il marciapiede, il passo un po’ più veloce ora che stava raggiungendo la sua meta e non ce la faceva più ad aspettare. Varcò la soglia del museo facendo un cenno con il capo al guardiano, era diventato un volto familiare: erano mesi ormai che si rifugiava in quel posto per circondarsi di arte e di ispirazione.
 
Amava i dipinti. Ma quello che amava guardare di più non erano i soggetti in primo piano, o i colori forti, o le forme che occupavano quasi tutto lo spazio sulla tela. No. Erano i dettagli. I piccoli personaggi sullo sfondo, gli oggetti nascosti, tutto ciò che non balzava immediatamente all’occhio e che la maggior parte della gente non coglieva nemmeno. Gli piaceva perdersi nei dettagli e guardare oltre. Scoprire quali storie si potevano nascondere in un libro dimenticato e disordinatamente accatastato in una libreria, o come dovevano essere al tatto quelle preziose stoffe che ornavano i muri di una stanza. Pensava fosse meraviglioso passare momenti interminabili davanti ad un quadro ed immaginarsi quale storia si nascondesse al suo interno. Pensava fosse meraviglioso fantasticare su cosa avesse pensato il pittore quando, con una tela ancora quasi del tutto bianca davanti a sé e un pennello tra le mani, aveva iniziato a dipingere il volto di una persona o il profilo indistinto di un paesaggio. Era come se il tempo non esistesse più.
 
Si era seduto davanti ad un quadro sulla sua poltroncina. No, non era sua, ma la considerava tale ormai. Dopo tutti i pomeriggi che vi aveva passato, gli sarebbe sembrato strano doversi spostare da un’altra parte.
 
Doveva ancora capire per quale motivo quel quadro lo avesse affascinato così tanto. Tra tutti i quadri che erano esposti in quel museo, quello aveva qualcosa che lo aveva come ipnotizzato. Forse era per quei vestiti che sembravano così veri, con le loro stoffe morbide e trasparenti; o per il prato ricoperto di fiori, ce n’erano di così tanti tipi diversi che non gli erano bastati giorni interi per studiarne ogni dettaglio; o forse era per quello che rappresentava, per la simbologia che si celava dietro ad ogni personaggio.
 
Sorseggiò del caffè che aveva preso all’ingresso, stringendo le mani intorno al bicchiere di cartone e lasciandosi attraversare da quel piacevole calore. Nonostante la primavera stesse finendo, era una sensazione piacevole e le sue dita formicolavano a contatto con quel tepore.
 
Inclinò la testa di lato, come se da quella prospettiva potesse cogliere nuovi aspetti, nuovi particolari che erano rimasti invisibili fino a quel momento.
 
Appoggiò il bicchiere per terra, attento a non rovesciarlo sul pavimento di marmo e prese il suo inseparabile blocco da disegno. Sfogliò qualche pagina — le bozze che aveva accumulato nel corso degli ultimi mesi scorrevano sotto i suoi occhi, riportando alla luce vecchi ricordi — fino a quando non trovò un foglio bianco, che per lui era come un invito irresistibile a prendere una matita e iniziare a disegnare.
 
Aveva bisogno di concentrarsi e, con il blocco appoggiato sulle gambe incrociate, andò a recuperare le sue cuffiette bianche. Altro strumento inseparabile quando doveva isolarsi dal resto del mondo. Una musica tranquilla e rilassante era tutto ciò di cui aveva bisogno per potersi estraniare completamente. A volte era talmente assorbito nei suoi gesti, con la mano stretta forte intorno a quella matita, che quasi non faceva nemmeno caso alle parole delle canzoni. Si perdeva in un mondo tutto suo, la sua mente non poteva che concentrarsi con tutte le sue forze su quello che stava facendo e le sue orecchie quasi si chiudevano a tutto il resto. Ma in un qualche modo, aveva ugualmente bisogno di un lieve sottofondo che lo mantenesse concentrato.
 
Doveva essere passato parecchio tempo da quando si era seduto, perché la punta della sua matita era ormai del tutto consumata e le poche gocce di caffè rimaste sul fondo del bicchiere erano diventate fredde. Nascose uno sbadiglio dietro al dorso di una mano. Forse era meglio tornare a casa per quel giorno. Era stata una lunga giornata. Le lezioni al mattino, qualche progetto di arte da completare nel primo pomeriggio e ora il museo. Forse era meglio tornare a casa, prepararsi una veloce cena e andare subito a letto.
 
Come a voler confermare la sua decisione, il guardiano lo avvisò che stavano per chiudere. Era una sua abitudine avvertirlo durante il suo turno serale. Ormai sapeva che Jonghyun rimaneva lì fino a tardi. Mai, nemmeno una volta, era andato via prima dell’orario di chiusura. Era come se volesse sfruttare ogni momento. Come se ogni minuto fosse prezioso.
 
Lo ringraziò con un sorriso e, dopo aver sistemato le sue cose nella borsa, se ne andò, lasciando che l’aria piacevolmente fresca della sera lo avvolgesse.
 
 
 
 

 
La luce soffusa e luminosa del mattino che filtrava attraverso la finestra della sua camera lo svegliò.
 
Aspettò ad aprire le palpebre, aveva bisogno di qualche minuto per non rimanerne abbagliato. Si portò le mani agli occhi, stropicciandoseli e, girandosi su un fianco, intrappolò ancor di più il suo corpo nelle lenzuola. Erano fresche e profumate, una gradevole sensazione contro la sua pelle calda.
 
Restò immobile per qualche istante, beandosi di quella atmosfera di tranquillità. Non aveva nessuna lezione oggi — il giorno libero un privilegio per quelli del terzo anno — e poteva prendersi tutto il tempo che voleva. Nessuna doccia affrettata e nessun caffè bollente mandato giù senza pensarci che gli avrebbe lasciato la gola ustionata per le successive ore. No, niente di tutto questo. Poteva prendersela con calma.
 
Del latte con qualche biscotto. Era di questo che aveva voglia quella mattina. Si infilò distrattamente una maglietta di qualche taglia più grande, al punto che gli arrivava quasi alle cosce e non si preoccupò nemmeno di indossare dei pantaloni. Voleva rimanere comodo.
 
Uscì sul piccolo terrazzino del suo appartamento. Aveva comprato quel tavolino proprio per occasioni come queste. Cosa poteva esserci di meglio che inzuppare qualche biscotto mentre si godeva il panorama della città che si risvegliava? Quando poteva vedere dall’alto le persone che camminavano verso la metropolitana o che si affrettavano mentre andavano al lavoro a piedi. Gli piaceva vedere la città che iniziava a vivere dopo la notte mentre lui, con un ginocchio al petto e gli occhi ancora pieni di sonno, poteva osservare tutto senza pensieri.
 
La luce era quella giusta, il tempo era quello giusto. E gli sembrava la giornata ideale per dedicarsi ad un’altra delle sue grandi passioni. La fotografia.
 
Si fece una rapida doccia — l’acqua tiepida che gli risvegliava i sensi dopo una lunga notte di sonno — e non perse altro tempo prima di infilarsi la macchina fotografica intorno al collo e uscire da casa.
 
Un leggero vento iniziò subito a scompigliargli i capelli ancora umidi, facendogli ricadere qualche ciocca della frangia fastidiosamente sugli occhi. L’aria frizzante del mattino era quello che ci voleva per lavargli via tutta la stanchezza e riempirlo di energia.
 
I suoi occhi si muovevano attenti, alla ricerca di un dettaglio, di un qualcosa che attirasse la sua attenzione e gli facesse pensare che non poteva fare altro che immortalarlo.
 
Le persone erano il suo soggetto preferito. Ma non le voleva in posa, voleva che fossero naturali. Voleva catturarle nella loro spontaneità, quando non si aspettavano che avrebbe premuto il tasto per scattare una foto. Gli piaceva coglierle nella loro quotidianità, senza che fingessero un sorriso per l’obiettivo.
 
A volte entrava in un bar — il suo preferito era un vecchio bar in una stradina secondaria, con gli interni completamente in legno e un odore di cioccolata perennemente diffuso nell’aria —, si sedeva ad un tavolo, un po’ in disparte, e chiedeva ad alcuni clienti se non dispiaceva loro di diventare protagonisti di alcune delle sue fotografie. Il più delle volte erano d’accordo, anzi, si mostravano particolarmente interessati. Gli chiedevano di cosa si occupasse nella vita, cosa avesse intenzione di fare con i suoi lavori, se li volesse esporre. E a Jonghyun non dispiaceva raccontar loro della sua vita e che sì, un giorno gli sarebbe piaciuto allestire una mostra con le sue foto e i suoi disegni. Gli sarebbe piaciuto poter vivere della sua arte, sapeva che era quasi impossibile, che erano davvero poche le persone in grado di vivere solo con le proprie opere, ma sognare non poteva fargli male. Anzi, gli dava quella motivazione e quella spinta in più di cui aveva bisogno quando, in alcuni momenti di sconforto, pensava di gettare tutto all’aria e dedicarsi a qualcosa di più “concreto e solido”, come simpaticamente amavano ripetergli i suoi genitori.
 
Si fermò lungo il fiume. Il modo in cui l’acqua splendeva, il modo in cui la superficie increspata rifletteva il sole erano perfetti. Gli trasmettevano pace, serenità.
 
Era presto, non c’era ancora nessuno a quell’ora se non qualche raro sportivo che amava correre nella natura, immerso in quello spettacolo.
 
Jonghyun si sedette su un prato, c’era ancora della rugiada sull’erba, ma non gli importava. Sarebbe rimasto lì per tutta la mattinata, i suoi pantaloni sarebbero asciugati senza problemi.
 
Iniziò a scattare qualche foto: il ponte in lontananza attraversato da qualche macchina; un cane con in bocca un ramo che correva verso una ragazza; una barca che scorreva piano lungo il fiume. C’erano così tante cose che quasi gli girava la testa.
 
Respirò a pieni polmoni, sentendosi più vivo che mai. Era una bella sensazione, le gambe tese in avanti e le braccia all’indietro per sostenersi. Chiuse gli occhi e alzò il volto verso l’alto, lasciando che il calore del sole gli accarezzasse la pelle, solleticandolo.
 
Era mattina inoltrata ormai e il suo stomaco iniziava a borbottare irrequieto. Non era in grado di ignorare quei morsi della fame, ma non poteva nemmeno già pranzare; era ancora troppo presto. Il piccolo chiosco dei gelati qualche metro più in là gli sembrò il giusto compromesso.
 
Con un cono alla vaniglia tra le mani si sentì come rinascere e gli comparve un sorriso sul volto quando vide un cane avvicinarsi.
 
Si abbassò senza alcuna esitazione e, tenendo la mano stretta intorno al gelato a debita distanza, portò l’altra verso il suo muso, lasciando che l’animale gliela annusasse e prendesse familiarità. Lo accarezzò con entusiasmo mentre il proprietario li raggiunse. E ovviamente Jonghyun non ci pensò due volte prima di chiedergli se poteva scattare una foto ad entrambi.
 
 
 
 
 

Una forte pioggia si stava abbattendo su tutta la città quel giorno. Il cielo era grigio e le nuvole cupe non promettevano nulla di buono.
 
A Jonghyun non dispiaceva la pioggia. Gli piaceva affacciarsi ad una finestra e guardare l’acqua mentre cadeva; oppure sdraiarsi sul proprio letto, chiudere gli occhi e lasciare che il suono dello scrosciare lo rilassasse. Era uno dei suoi suoni preferiti, insieme allo sfogliare delle pagine di un libro. Avevano un qualcosa di confortante, che lo faceva stare bene.
 
Non era riuscito a concentrarsi a lezione quella mattina. Non trovava mai interessanti quelle noiose spiegazioni teoriche di progettazione e quella pioggia certo non lo aiutava a prestare attenzione. Semmai, lo aiutava a distrarsi.
 
I suoi occhi si ritrovavano continuamente a fuggire verso la finestra, a rivolgersi verso il cielo. Guardava le gocce che scendevano e si perdeva tra i propri pensieri. Aveva un quaderno aperto davanti a lui, ma per il momento non aveva alcuna intenzione di prendere qualche appunto. Non era un problema, li avrebbe chiesti a qualcuno, oppure ne avrebbe fatto a meno.
 
Mentre mangiucchiava in silenzio un panino, iniziò a scarabocchiare in un angolo della pagina a quadretti. Un ragazzo che si riparava dalla pioggia sotto ad un ombrello, i tratti neri della matita che davano profondità a quel volto così realistico. Aveva appena finito di aggiungere gli ultimi dettagli — i bottoni allacciati dell’impermeabile e le stringhe degli stivali — quando suonò la campanella che annunciava la fine della lezione.
 
Tirò un sospiro di sollievo. Finalmente anche quella giornata era finita. Si sentiva stanco, forse era quel grigiore che circondava ogni cosa che lo faceva sentire in uno stato di torpore.
 
Sapeva di cosa aveva bisogno in una giornata come quella.
 
Senza perdere nemmeno un secondo, uscì dalla classe, quasi correndo, quasi come se fosse un bisogno a cui non poteva rinunciare. Appena fuori dall’edificio, riparato sotto un ombrello rosso, si diresse a passo spedito verso l’unico luogo che poteva risvegliarlo.
 
 
 
 

 
Era un bene che gli studenti della facoltà di arte avessero accesso libero a quel museo, o altrimenti non si sarebbe mai potuto permettere quelle visite quasi quotidiane.
 
Era intento a disegnare qualche bozza — cercare di imitare i tratti di quei volti era ancora così difficile per lui — quando sentì una voce che si avvicinava.
 
Non gli capitava quasi mai di imbattersi in una qualche visita guidata, di solito i giri erano già finiti per quando arrivava lui nel tardo pomeriggio, ma nonostante questo, conosceva tutti i volti di coloro che lavoravano in quel luogo. Era quasi diventato come la sua seconda casa.
 
Si girò verso quella voce perché non gli era familiare. Non apparteneva sicuramente ad un visitatore, doveva per forza essere di una guida: poteva sentirlo spiegare con accuratezza la storia di una delle opere esposte nella sala accanto.
 
Rimase piacevolmente sorpreso quando il gruppo, guidato da quella voce mai sentita prima, entrò nella sala in cui lui si trovava.
 
Non aveva mai visto la persona a cui quella voce apparteneva, ne era certo. E non solo perché conosceva tutti in quel luogo, ma perché sicuramente non si sarebbe mai dimenticato di un volto simile.
 
Si dimenticò subito del disegno a cui si era dedicato nell’ultima mezz’ora, come se fosse diventata la cosa meno importante di tutte; girò foglio e si mise ad osservare con attenzione il volto di quel ragazzo.
 
Era giovane, probabilmente avevano la stessa età. Doveva essere parecchio bravo se si ritrovava già così presto a lavorare in un grande museo con un numero di persone così elevato. Il suo viso era particolare, non aveva le caratteristiche tipiche di tutti gli altri, aveva qualcosa di diverso, qualcosa di speciale, qualcosa che Jonghyun non poteva non riportare con la sua matita.
 
La sua mano si muoveva senza alcuna esitazione mentre disegnava i suoi occhi allungati, quasi da felino, o le sue labbra piene e dalla forma atipica, o i suoi zigomi alti.
 
C’erano così tanti aspetti che lo avevano colpito, che avrebbe voluto chiedergli di posare per lui, per poterlo osservare da vicino e studiare come la luce scivolava sulla sua pelle.
 
E più lo guardava — ancora troppo lontano per i suoi gusti —, più si accorgeva di quanto fosse attraente. Non era una bellezza ostentata, ma c’era qualcosa in lui che costringeva a guardarlo, a cercare di scoprire cosa avesse di particolare.
 
Jonghyun abbassò lo sguardo verso il foglio e fu orgoglioso di sé per il risultato che era riuscito ad ottenere in così poco tempo. Non gli era mai successo di fare un ritratto, seppure ancora incompleto, così velocemente.
 
Senza ben capirne il motivo, si trovò a trattenere il respiro quando il gruppo gli si fece più vicino, chiaramente diretti al quadro che era appeso davanti a lui, il quadro davanti al quale poteva passare ore e ore senza mai stancarsi.
 
Quella vicinanza gli permetteva di aggiungere i particolari che gli erano sfuggiti a causa della lontananza, come quella piccola cicatrice che aveva sotto un occhio, o la forma irregolare di una sopracciglia. Se possibile rendevano ancora più unico quel volto che stava fissando così apertamente.
 
Sì sentì addosso gli occhi della guida — “Kim Kibum” doveva essere il suo nome, a giudicare dal nome inciso sulla targhetta dorata appesa al suo petto — ed arrossì. Sicuramente doveva aver capito che aveva passato gli ultimi minuti a fargli un ritratto.
 
Abbassò lo sguardo, mordendosi un labbro, ma se il suo gesto gli aveva dato fastidio non lo diede a vedere, perché continuò nella sua spiegazione come se niente fosse, solo un sorriso appena accennato che gli attraversava il viso.
 
Jonghyun posò la matita e si mise ad ascoltare attento le sue parole. Sapeva già tutto quello che c’era da sapere su quel dipinto, ma non gli dispiaceva sentirne la spiegazione ancora una volta, soprattutto se veniva dalla bocca di quel ragazzo.
 
E ascoltarlo attentamente era anche un modo per poterlo guardare e imprimersi quanti più dettagli possibili nella memoria in modo da poter completare quel ritratto. Quando iniziava un disegno, terminarlo era una sua necessità. Non poteva lasciarlo incompleto.
 
E veloce com’era arrivato, la guida — quel Kim Kibum che non aveva avuto alcuna difficoltà a catturare l’attenzione di Jonghyun — se ne andò seguito dal suo gruppo.
 
Non poté fare a meno di seguirlo con lo sguardo mentre si allontanava verso un’altra sala. Senza che potesse fermarli, gli occhi gli scivolarono lungo il corpo, indugiando poi su quel fondoschiena che sembrava, anche da lontano, così tondo e tonico. Si chiese come sarebbe stato averlo sotto le proprie dita. Ovviamente per poterlo disegnare meglio, non che avesse avuto altre motivazioni.
 
 
 
 

 
Jonghyun aveva qualche giorno di vacanza e quale migliore occasioni per passeggiare per le vie della città con la sua fedele macchina fotografica al collo?
 
Sperava che l’aria aperta gli avrebbe dato l’ispirazione necessaria per un nuovo progetto al quale doveva lavorare. Amava poter lasciare spazio alla sua creatività, ma quando l’unica indicazione a cui doveva far riferimento era “unicità: essere senza uguali”, nessuna idea sembrava buona abbastanza.
 
Era pomeriggio inoltrato, quasi sera, quando il sole emanava una luce più soffusa e meno calda. Era l’atmosfera perfetta per riposarsi i piedi dopo tutti i chilometri che aveva fatto quel giorno e rilassarsi.
 
Percorse una stradina che costeggiava un giardinetto, appena fuori dal centro, il frinire delle cicale in sottofondo. C’era un edificio di pietra lungo quella via e Jonghyun vi fece scorrere le dita di una mano mentre camminava, la superficie irregolare che gli solleticava i polpastrelli.
 
Quando iniziò ad intravedere un piccolo bar in lontananza, accelerò il passo, ma quasi si bloccò quando vide, seduto ai tavolini all’aperto, sotto ad un pergolato, una persona a lui familiare.
 
Era Kibum.
 
L’aveva intravisto solo qualche rara volta dopo il loro primo incontro ma non aveva avuto alcun problema a riconoscerlo, anche in una situazione in cui non si aspettava minimamente di ritrovarselo davanti.
 
Indossava dei pantaloni appena sopra il ginocchio che gli mettevano in risalto la pelle bianca delle gambe affusolate. Stava sfogliando concentrato una rivista, probabilmente di moda a giudicare dall’immagine della copertina, mentre sorseggiava quello che poteva sembrare del tè. Jonghyun non ne era sicuro, non a quella distanza.
 
Si fece più vicino e non staccò nemmeno per un istante gli occhi dalla sua figura, quasi come se non aspettasse altro che l’altro ragazzo sentisse il suo sguardo su di lui.
 
Stava osservando la forma delicata del suo naso di profilo, quando finalmente lo vide voltarsi verso di lui.
 
Fu colto di sorpresa e per un secondo smise di respirare. Non gli era mai capitato di vederlo al di fuori di quel museo e ora, con la luce naturale sul suo volto e dei vestiti casual che avevano preso il posto della sua uniforme da lavoro, non gli era mai sembrato così attraente.
 
Forse doveva smettere di fissarlo in quel modo, chissà cosa avrebbe pensato di lui. Ma era una sua abitudine, era un qualcosa che non riusciva a controllare. E con questo Kibum, questa sua mania sembrava non fare altro che aggravarsi.
 
“Hai intenzione di fissarmi ancora a lungo o ti siedi?”.
 
Jonghyun ci mise qualche secondo per registrare quelle parole e ancora qualche secondo in più per capire che si stava rivolgendo a lui.
 
Doveva essergli sembrato piuttosto stupido.
 
Nascose una risata imbarazzata con un lieve colpo di tosse mentre prendeva posto di fronte a lui. Non era rimasto sorpreso che l’altro lo avesse riconosciuto, sicuramente non ci si poteva dimenticare di qualcuno che ti ritraeva nel bel mezzo di un museo, o di qualcuno che non gli staccava gli occhi di dosso ogni volta che si incrociavano.
 
Kibum era tornato alla sua rivista, come se non fosse nemmeno stato interrotto, come se l’idea di iniziare una conversazione non lo toccasse minimamente. Ma alzò lo sguardo poco dopo, quando si accorse che quel ragazzo per il momento sconosciuto lo stava scrutando ancora una volta.
 
“Sei uno stalker o qualcosa del genere?” Gli aveva chiesto, prima di tuffarsi ancora una volta nella tazza ancora piena fino a metà. Era tè, Jonghyun poteva sentirne l’invitante aroma ora.
 
Ridacchiò piano ancora una volta, segno che era nervoso, e gli raccontò qualcosa di sé, come faceva sempre. Gli piaceva aprirsi con le persone, come se rivelare qualcosa su se stesso fosse il suo modo per creare dei legami, per instillare fiducia negli altri. Gli piaceva confrontarsi con le persone, condividere le idee e imparare nuove cose.
 
E parlando con Kibum, aveva imparato che era più piccolo di un anno ma che aveva finito i suoi studi con largo anticipo e ora aveva iniziato a lavorare come guida. Ma non era il suo solo lavoro. Era anche un modello. Certo, ancora alle prime armi, ma era un impiego che pagava bene, e avere qualche soldo in più era comodo per poter vivere da solo nella grande città e doversi arrangiare tra spese e bollette.
 
Gli occhi di Jonghyun si misero a brillare improvvisamente quando scoprì che era un modello. Voleva dire che era abituato a stare davanti agli obiettivi, era abituato ad essere al centro dell’attenzione. Poteva essere il suo soggetto perfetto.
 
“Posso scattarti delle foto?”.
 
 
 

 
 
Jonghyun soppresse uno sbadiglio, il gesto quasi gli fece lacrimare gli occhi.
 
Era tardi, troppo tardi. Avrebbe dovuto trovarsi già a letto da qualche ora, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dallo schermo del suo portatile.
 
Era acciambellato in un angolo del divano. La luce del computer che si aggiungeva a quella di un lampione in lontananza che filtrava attraverso il vetro della finestra.
 
Il suo dito esitava sulla tastiera, avrebbe voluto riguardare tutte le fotografie che aveva scattato durante la giornata, ma in un qualche modo, quando si era imbattuto in quelle che ritraevano Kibum in quel bar, era come incapace di andare avanti. Sentiva che era estremamente necessario passare quanti più minuti possibili a osservare e studiare a memoria ognuna delle immagini.
 
Kibum che sorseggiava il tè, Kibum che alzava scherzosamente gli occhi verso l’obiettivo, Kibum che nascondeva una risata dietro ad una mano. Non era solo il fatto che fosse incredibilmente fotogenico, c’era qualcosa che lo rendeva il soggetto perfetto per Jonghyun.
 
Lasciò che i suoi occhi indugiassero su quelle graziose fossette che gli comparivano sulle guance ogni volta che le labbra gli si alzavano in un sorriso, o sulle sue lunghe dita mentre scorrevano tra la frangia bionda.
 
Jonghyun piegò la bocca in un timido sorriso e nel suo petto si diffuse una piacevole sensazione di calore ricordando le emozioni che aveva provato quando aveva scattato quelle foto. Quasi gli sembrava di poter sentire accelerare ancora una volta il battito del suo cuore, proprio come era successo quando si era ritrovato il volto allegro e luminoso dell’altro davanti agli occhi, o quando gli aveva promesso che sì, gli avrebbe fatto da modello personale.
 
C’era stato uno strano riflesso nel suo sguardo, e quasi gli sembrava di ricordare che la sua espressione si fosse trasformata in un leggero sogghigno, come se avesse voluto nascondere un significato più profondo dietro le sue parole. Ma forse si stava solo immaginando tutto. Quelle confuse emozioni che aveva iniziato a provare in sua presenza gli avevano benissimo potuto giocare un brutto scherzo. O forse era la stanchezza che gli attraversava ogni centimetro del corpo che gli faceva immaginare cose mai successe.
 
Ma doveva andare a dormire ora, doveva essere nel pieno delle sue forze se il giorno dopo avrebbe dovuto incontrare Kibum per iniziare a scattargli delle foto.
 
 
 
 
 

Con il cuore che gli batteva più velocemente del normale e con le mani ricoperte da un leggero strato di sudore, Jonghyun non faceva che camminare aventi e indietro in un’aula dell’ultimo piano.
 
Appena le lezioni si erano concluse, si era affrettato verso la sua meta, intenzionato a preparare tutto l’occorrente prima dell’arrivo dell’altro ragazzo.
 
Aveva sistemato alcuni degli oggetti che si trovavano lì — ogni sorta di oggetto che veniva spesso usato durante le ore di disegno, da pezzi di arredamento a semplici soprammobili — e, dopo aver cambiato per l’ennesima volta la disposizione di alcuni libri e aver deciso di spostare un tavolo davanti alla finestra per essere colpito direttamente dalla luce, percorrere ripetutamente il perimetro della stanza era l’unica cosa che era in grado di calmarlo. O almeno così sperava.
 
Avrebbe dovuto evitare di bersi due caffè quella mattina. Ma aveva bisogno di essere sveglio e la sua decisione di rimanere alzato fino a tardi la sera precedente si stava rivelando sbagliata, come tutte le altre notti che aveva, ingenuamente, deciso di passare in piedi.
 
Si sentiva la gola secca. E si sentiva anche uno stupido. Perché era nervoso? Non era la prima volta che lavorava faccia a faccia con una persona per uno dei suoi progetti d’arte. Doveva cercare di rilassarsi.
 
Fece un respiro profondo — inspirò più ossigeno possibile mentre chiudeva gli occhi — e, mentre stava bevendo un sorso d’acqua da una bottiglia, quasi gli andò di traverso quando la porta dell’aula si aprì improvvisamente, rivelando la figura di Kibum.
 
La prima cosa che Jonghyun notò fu il contorno più spesso intorno agli occhi. Aveva già avuto modo di notare la sua abitudine di avere un trucco leggero che gli enfatizzava lo sguardo, ma oggi aveva qualcosa di diverso. Era più marcato, più deciso, e quelle linee sulle palpebre gli rendevano le forme ancora più allungate e feline.
 
La seconda cosa che notò furono i suoi accessori. Orecchini, anelli, bracciali. Le sue orecchie e le sue mani erano ricoperte di gioielli argentati che sarebbero stati un ottimo punto di luce su cui concentrarsi con la sua macchina fotografica. Amava i dettagli.
 
E ovviamente non poté non notare come le sue dita fossero strette intorno ad alcuni sacchetti da cui gli sembrava di vedere vestiti di ogni genere. Gli aveva detto di portare qualche abito per poter avere una più grande varietà di immagini, ma mai si sarebbe immaginato che arrivasse con il contenuto di mezzo armadio.
 
“Dimentichi che faccio il modello di lavoro” era stata la sua semplice spiegazione di fronte al suo sguardo incuriosito, e Jonghyun gli chiese scherzosamente se questo voleva dire che li aveva rubati dopo i suoi servizi fotografici. “Sono regali” aveva tenuto a precisare Kibum, roteando gli occhi.
 
Tutto stava procedendo nel migliore dei modi. La luce, i vestiti, le pose, le espressioni; Jonghyun si sentiva davvero soddisfatto ed orgoglioso del lavoro che stavano facendo. C’era una buona sintonia, e questo aveva avuto il grande potere di riuscire a tranquillizzarlo.
 
Ma non ebbe nemmeno il tempo di crogiolarsi in questo gratificante appagamento che si pentì di aver suggerito a Kibum un cambio di abiti. Certo, non avevano un camerino a disposizione che gli assicurasse un minimo di privacy, ma non si sarebbe decisamente aspettato di vederlo sfilarsi la maglietta davanti a lui, senza alcun tipo di remora.
 
E aveva cercato di resistere, davvero, aveva cercato di controllarsi e tenersi concentrato facendo finta di premere i tasti della sua macchina fotografica, come se fosse impegnato a vedere i progressi delle prime ore che avevano trascorso insieme, ma ben presto i suoi occhi non poterono non attaccarsi al suo corpo.
 
Fissare era una sua specialità.
 
Ormai lo sapeva, e doveva saperlo anche Kibum che aveva notato come il suo sguardo fosse ancora una volta su di lui. Sulla sua pelle lattea e morbida, sul suo petto liscio e sulle sue linee delicate. Ma tutta quest’attenzione non sembrava dargli fastidio, anzi, Jonghyun aveva quasi l’impressione che lo stesse facendo di proposito, metterci più tempo del normale per scegliere il prossimo capo da indossare.
 
Inconsapevolmente si passò la lingua sulle labbra mentre guardava il modo in cui i muscoli della sua schiena si tendevano mentre indossava una canottiera lunga e dallo scollo largo, troppo largo. Scendeva pericolosamente, lasciando intravedere le linee del suo petto, senza rivelare nulla, ma creando un effetto stuzzicante che fece deglutire Jonghyun.
 
E più passava il tempo, più sembrava che si sentissero a proprio agio l’uno in presenza dell’altro, e lo spirito da modello di Kibum sembrava emergere sempre più. Le sue pose si facevano più sicure, più audaci, quasi più spinte.
 
Jonghyun si trovò a sperare con tutto se stesso che l’altro non si accorgesse di quanto i pantaloni gli stavano diventando fastidiosamente stretti mentre lo fotografava con un labbro tra i denti o la canottiera leggermente alzata a mostrare qualche centimetro della sua pancia, come se volesse invitarlo a fantasticare sul suo corpo.
 
Il colpo di grazia arrivò dopo qualche ora, quando il sole fuori ormai si stava avviando a tramontare e una luce più tenue invadeva la stanza.
 
Kibum aveva indossato una camicia bianca, slacciata sul davanti e abbassata per mostrare le spalle. Il suo volto era girato di profilo — la forma perfettamente disegnata del suo naso e le sue labbra a cuore ancora più in evidenza — mentre era seduto su una sedia dando le spalle al suo fotografo, le gambe aperte.
 
Si trovò a sua insaputa a trattenere il respiro mentre lo fissava immobile, la bocca leggermente aperta. Era la foto perfetta. Ne era certo ancora prima di averla scattata. Lo poteva percepire.
 
Con la voce incerta e le mani incapaci di smettere di tremare, gli annunciò che per quel giorno avevano finito, che aveva fatto un ottimo lavoro e che si sarebbe preoccupato di fargli avere ogni singolo scatto fatto quel giorno.
 
Era una sua abitudine fare in modo che alle persone con cui si trovava a lavorare rimanesse un ricordo del loro impegno, ma questa volta era soprattutto una scusa per poterlo rivedere ancora una volta. Per potergli parlare, per poterlo osservare da vicino.
 
I suoi occhi seguirono attenti i movimenti delle sue dita mentre si allacciavano lentamente i bottoni della camicia e dovette trattenersi dal pregarlo di lasciarla sbottonata.
 
Kibum stava lasciando la stanza, quando Jonghyun lo richiamò. Dovevano mettersi d’accordo per un compenso, dopotutto era stata una giornata di lavoro e anche se non aveva grandi disponibilità monetarie, soprattutto al momento, gli sarebbe sembrato di fargli un torto a lasciarlo andare via a mani vuote.
 
“Non preoccuparti” gli aveva risposto, voltandosi all’indietro, la mano ancora posata sulla maniglia e un sorrisetto sul viso, “Sono sicuro che riuscirai a ripagarmi”.
 
 
 
 

 
C’era qualcosa di sbagliato in quello che stava facendo. Non ne era del tutto certo, ma provava questa forte sensazione. Lo stava facendo sentire quasi in colpa.
 
Aveva iniziato in modo del tutto innocente: voleva semplicemente riguardare le foto che aveva fatto solo qualche ora prima. Era davvero fiero del risultato. Non solo i colori, le luci e le ombre non gli erano mai sembrati così particolarmente ben riusciti, ma quello che più lo colpiva era il soggetto. Le sue espressioni, le sue pose, il modo in cui aveva quasi un talento innato nel trovare la giusta posizione per le mani o la giusta inclinazione del viso per mettersi ancora più in risalto.
 
Il modo in cui si mordeva provocante un labbro gli aveva fatto contorcere lo stomaco più e più volte. Ma non era niente in confronto alla sensazione intensa che provò quando arrivò alla foto in cui mostrava la lingua, piegata di lato in modo sensuale, mentre fingeva di sistemarsi la giacca. O alla foto in cui, con la bocca leggermente schiusa e un dito tra le labbra, poteva vedere una gomma da masticare tra i suoi denti.
 
Non vedeva l’ora di andare a stamparle. Sulla carta, la forza di quelle immagini sarebbe stata ancora più intensa.
 
Era più che sicuro che con quel lavoro, prendere il massimo dei voti non sarebbe stato un problema. Ma non era su questo che si stava concentrando la sua mente.
 
Aveva iniziato a fantasticare sulle sue gambe lunghe e affusolate, avvolte in pantaloni talmente stretti che Jonghyun si era chiesto più volte come riuscisse a portarli; su quel petto nudo che si era ritrovato davanti senza nemmeno chiederlo ma di cui era profondamente grato.
 
Senza che gli occhi si staccassero dallo schermo, fece scivolare una mano più in basso, tra le gambe. Il modo più adatto per concludere quella giornata.
 
 
 
 
 

Il giorno in cui gli aveva chiesto di incontrarlo — lungo il fiume, all’aperto, lontano dal suo posto di lavoro al museo perché non voleva doversi affrettare, voleva avere la possibilità di trascorrere del tempo con lui — aveva dovuto tenere a bada il suo istinto.
 
Guardava come le sue labbra si muovevano mentre parlava e desiderava poterle toccare con le sue; e Kibum non poteva non aver notato il modo insistente con cui lo sguardo dell’altro era sulla sua bocca. Era palese, era proprio lì, davanti ai suoi occhi, il modo in cui Jonghyun sembrava essere attratto da lui.
 
Si accorse troppo tardi che lo stava fissando ancora una volta, quasi ignorando del tutto le parole che stava dicendo, e quando allacciò il suo sguardo a quello dell’altro, si sentì arrossire le guance.
 
Avrebbe voluto accarezzargli il viso, far scorrere le dita tra i suoi capelli, nascondere il viso contro il suo collo e respirare il suo profumo fino a quando la testa non avrebbe cominciato a girargli per la mancanza di ossigeno. Voleva prenderlo per mano, camminare fianco a fianco con lui e rabbrividire ogni volta che le loro braccia si sarebbero sfiorate per caso. Voleva sentire la sua risata, così unica, così particolare, e dargli un bacio.
 
Era su tutto questo che la sua mente si stava concentrando mentre si perdeva nei suoi occhi, e non riusciva a fermare questi pensieri.
 
Aveva persino pensato di fingere di aver dimenticato a casa le foto solo per poterlo rivedere ancora una volta, ma aveva già fatto la figura dello stupido troppe volte di fronte a lui.
 
 Non era riuscito a nascondere l’entusiasmo per quelle immagini. I suoi occhi brillavano, e aveva iniziato a parlare velocemente, senza essere in grado di fermarsi. Ormai era talmente evidente il suo interesse nei confronti di Kibum, che non aveva nemmeno paura di rivelare le sue emozioni in quel fiume di parole.
 
Amava il modo in cui l’altro lo ascoltava interessato, quasi come se l’entusiasmo dell’altro lo rallegrasse. Gli piaceva sentire i suoi commenti, quello che aveva da dire.
 
“Ovviamente il merito è tutto del modello” aveva scherzato auto-lodandosi, ma davanti all’espressione fintamente arrabbiata di Jonghyun, aveva subito aggiunto “Ok, un po’ anche del fotografo”.
 
Era un pomeriggio perfetto. Seduti su un prato sotto un cielo di un azzurro intenso, con il vociare delle persone in sottofondo. Tutt’intorno a loro c’era la vita e se Jonghyun si fosse trovato solo, sicuramente a quest’ora si sarebbe già trovato con una matita in mano e completamente assorto in uno dei suoi disegni. Ma Kibum seduto al suo fianco era uno spettacolo da cui non riusciva a distogliere l’attenzione. Gli sarebbe piaciuto poterlo disegnare. Non di nascosto questa volta. Un giorno glielo avrebbe chiesto.
 
Gli sembrava che niente non potesse andare meglio, ma si sbagliava. Si sbagliava alla grande.
 
 
 
 

 
Non avrebbe saputo spiegare come si erano ritrovati in quella situazione. Con la schiena di Kibum premuta contro la porta del suo appartamento e le loro bocche unite.
 
Erano entrati frettolosamente, fermandosi all’ingresso, le mani di Jonghyun già infilate sotto la sua maglietta, la sua pelle calda sotto le sue dita sensibili.
 
Le sue labbra erano morbide, ancor più di come se le era immaginate, e la sua lingua era calda e inarrestabile mentre si muoveva abilmente con la sua. Si rubava a vicenda il respiro dai polmoni, ma a nessuno dei due sarebbe importato rimanere senz’aria.
 
Non c’era niente di timido o di schivo in Kibum, nel modo in cui si muoveva, nei gemiti appagati che lasciavano la sua bocca o nei suoi morsi contro il suo collo. Anche se aveva lasciato che fosse Jonghyun a condurre il gioco, non aveva nessuna intenzione di passare in secondo piano, voleva essere il protagonista assoluto, non una semplice comparsa.
 
Stava muovendo il suo corpo contro quello dell’altro e tutto il corpo di Jonghyun non poteva fare altro se non reagire con entusiasmo.
 
Era come se avesse aspettato quel momento dalla prima volta che lo aveva visto, come se avesse saputo fin dal primo istante che sarebbero arrivati a questo punto. E l’idea di dover ancora aspettare lo faceva impazzire. Non perse altro tempo e lo fece arretrare verso la sua camera, senza permettere alle loro labbra di staccarsi.
 
 
 
 

 
Era un intrecciarsi di gambe e di mani, di nasi che si scontravano a metà strada e di capelli che ricadevano disordinati sulle loro fronti sudate. Era una serie di sospiri e di lamenti, di respiri mozzati e di nomi che suonavano come richieste, come preghiere di non smettere mai.
 
Jonghyun non aveva potuto fare a meno di guardarlo dritto negli occhi nel momento in cui era entrato in lui. Lo aveva visto chiudere le palpebre nel tentativo di rilassarsi e aveva sentito le sue dita stringersi più forte intorno alle sue spalle. Ed era come fuoco.
 
Aveva cercato di non perdersi nemmeno un dettaglio. Come le sue labbra erano diventate rosse per i troppi baci e i troppi morsi; come la sua pelle si fosse arrossata là dove le sue dita l’avevano stretto con troppa forza; come la sua bocca si era aperta in un urlo senza suono nel momento del piacere più intenso, con la schiena inarcata e le gambe avvolte strette intorno alla schiena dell’altro.
 
Aveva fatto fatica ad addormentarsi poi, non riusciva a credere a quello che era appena successo. Non gli sembrava vero. In qualche minuto la tensione che aveva accumulato sin dal loro primo incontro si era dissolta, si era frantumata in mille pezzi.
 
Si sentiva ancora il cuore a mille, pronto a scoppiare da un momento all’altro, e sentiva caldo, troppo caldo, come se ogni parte del suo corpo stesse andando a fuoco. Le mani di Kibum erano state delicate sul suo corpo, attente a non lasciargli segni troppo evidenti, ma anche una semplice carezza era stata in grado di accenderlo.
 
E quando la mattina dopo si era svegliato, il suo corpo ancora nudo e i capelli spettinati, dovette guardare a lungo quella figura che era sdraiata accanto a lui — le lenzuola che gli lasciavano scoperta una gamba e tutta la schiena — per rendersi conto che sì, era successo davvero. Avevano trascorso la notte insieme.
 
Si sentiva lo stomaco vuoto e aveva bisogno di una doccia per levarsi di dosso il sudore che ancora gli ricopriva fastidiosamente la pelle, ma aveva altre priorità in quel momento.
 
La luce dorata dell’alba che entrava attraverso le tende aveva reso ambrato il corpo di Kibum, facendolo sembrare quasi irreale, quasi come se non fosse una creatura di questo mondo. Sul suo viso si erano create le sfumature più belle e l’espressione che aveva — la bocca leggermente aperta per respirare meglio e la fronte rilassata — lo convinse che non poteva perdersi quello spettacolo.
 
Temporeggiò per ammirare l’ombra che le sue lunghe ciglia creavano sulle sue guance.
 
Afferrò il suo blocco da disegno e iniziò a ritrarlo. Era la seconda volta che tracciava le linee del suo volto, ma era come se lo avesse fatto da una vita. La matita si muoveva sicura tra le sue dita mentre abbozzava le forme generali che poi andava ad arricchire con tratti più marcati e sempre più precisi.
 
Lentamente vide prendere vita sul foglio una versione in miniatura del ragazzo che aveva davanti a sé.
 
Stava annerendo alcune parti del viso per dargli maggiore profondità quando si accorse che Kibum aveva aperto gli occhi e lo stava osservando divertito.
 
“Hai intenzione di ritrarmi sempre a mia insaputa?”.
 
“Scusa, non riesco a resistere.”.
 
 
 
 

 
Passavano i mesi e Jonghyun non aveva ancora smesso di disegnarlo. Ma c’era una differenza rispetto ai primi tempi. Ora Kibum posava per lui, rimaneva immobile fino a quando l’altro non aveva finito di aggiungere ogni ombra e ogni particolare. Gli piaceva posare senza indossare alcun vestito. A volte parzialmente coperto da un lenzuolo mentre era sdraiato a letto, altre volte senza nessuna protezione. Non aveva nessun problema a rimanere così, sotto gli occhi attenti di Jonghyun che, concentrato, riproduceva su un foglio ogni linea del suo corpo.
 
Aveva scoperto che Kibum era una sorta di esibizionista. Mettere in mostra il suo corpo non gli poneva alcun tipo di problema, non lo metteva in imbarazzo. Pensava fosse un semplice strumento che potesse essere usato per fare dell’arte.
 
Si faceva scattare anche delle foto mentre, completamente spogliato, si dilettava a sperimentare nuove pose, anche con l’intento di stuzzicare Jonghyun.
 
Fin troppe volte le loro sessioni di foto si erano trasformate in altro, con la macchina fotografica che rimaneva dimenticata per ore su un tavolo.
 
“Dovresti usare queste foto per quel tuo nuovo progetto” gli aveva suggerito Kibum, quasi eccitandosi all’idea che dei perfetti sconosciuti potessero vederlo in quel modo. E per quanto Jonghyun fosse sicuro che sì, quelle foto avrebbero sicuramente riscosso un grande successo, non aveva alcuna intenzione di dividere quelle immagini con nessuno. Certo, aveva l’indole del fotografo, amava che i suoi lavori fossero pubblicati e ottenessero il riconoscimento che meritavano, ma non aveva nessuna intenzione di dividere Kibum con nessun altro.
 
Erano sue. Erano di entrambi. Erano il ricordo quotidiano di un viaggio che avevano iniziato a compiere insieme.
 
E mentre osservava il suo volto sereno e gli occhi chiusi in un’espressione rilassata, Jonghyun gli passò una mano tra i capelli. Erano così morbidi, così setosi che si trovò a pensare ancora una volta che quel ragazzo non fosse umano. Non era possibile.
 
Allungò meglio le gambe su cui l’altro aveva appoggiato la testa e prese ad accarezzargli distrattamente lo stomaco da sopra la maglietta.
 
Guardava le sue labbra piegate in un leggero sorriso e non poté fare altro se non sorridere a sua volta.
 
E Kibum non disse nulla quando sentì il suono delicato e tranquillizzante della matita che scorreva su un foglio. Ci aveva fatto l’abitudine. E sapere che l’altro aveva interi blocchi da disegno pieni del suo volto in un qualche modo gli gonfiava il petto di orgoglio.
 
Jonghyun sorrise ancora una volta tra sé e sé, ricordandosi come i primi tempi l’altro si lamentasse per questa sua — forse fastidiosa — abitudine. Ma era più forte di lui. Era un richiamo a cui non poteva resistere.
 
Per Jonghyun, Kibum era la più grande ispirazione.
 
 
 
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A/N: avevo detto che sarei sparita per mesi e invece sono già tornata XP approfittando di una strana ispirazione che ho avuto i giorni scorsi, ho pensato di scrivere questa cosa. jonghyun versione fotografo era sulla mia lista di cose da scrivere da parecchio tempo, e ora finalmente mi sono decisa. sarà poi che su tumblr mi è capitato di vedere un quadro che sono rimasta a guardare per non so quanto tempo, quindi mi sembrava la cosa più logica iniziare subito a scrivere.
 
se qualcuno si è chiesto quale fosse il quadro che guardava jonghyun all’inizio della storia, è questo (eh sì, facciamo finta che non sta a firenze ma dall’altra parte del mondo XP)
 
per questa volta non ho altro da aggiungere, ma spero che a qualcuno di voi sia piaciuta^^
 
grazie per aver letto :)
  
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