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Autore: lamialadradilibri    05/05/2014    2 recensioni
«Ciao, Emma. Sono io, Cara. È da un po’ che non ci sentiamo, perché... Be’, ti potrà sembrare strano, ma ora ti sto scrivendo da un altro mondo. Il Mondo Al Di Là, più precisamente. È ancora tutto un po’ confuso, e... Non ho idea di come tornare indietro. Non c’è nessuno che può aiutarmi, qui. Ricordi Alec Mitchell, l’agente di polizia, il dio greco? Be’, è qui anche lui. Questo è il suo mondo, in realtà.
È iniziato tutto in modo così normale (per quanto sia normale finire in commissariato alla mia età a causa d’una sparatoria...!), ma ora nulla è come prima. Abbiamo litigato, lo so. Ma ti chiedo un’unica, piccola, cosa: Aiutami. Fammi uscire di qui. Qui c'è qualcosa di sbagliato, malsano. L'unica cosa che mi tiene in vita è ciò che provo per Alec Mitchell, che credo sia... Amore, sì. Lo è, anzi. Nonostante ciò... Vivere qui è terribile, mi costringono a combattere ogni giorno. Ad uccidere, Emma. E non so nemmeno il perché. Ho paura! Salvami. Tu puoi farlo.»
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo Quattro.



Ho smesso di vedere gli altri come treni che devo prendere, e che se perderò starò male.
D’ora in poi sono io il treno che non va perso.
Chi vuole salirci avrà anche il mio cuore, gli altri s’arrangiano.
Cit.
 

NdA. Salve! Questo non è uno dei capitoli più felici, ma c’è una buona dose d’Alec Mitchell,anche se d’ora in avanti aumenterà sempre più. Parola di scout! :)

 
Era sera. In commissariato il tempo sembrava non scorrere mai ed anzi, le lancette dell’orologio sembravano muoversi a rallentatore – proprio come succedeva ogni volta durante l’ora di storia dell’arte oppure di greco, quando mi sembrava che anche solo un minuto ne durasse mille.
Io me ne stavo lì seduta nel mezzo di un corridoio a caso, fissando il pacchetto di patatine intatto da prima. Aspettavo.
Aspettavo d’essere salvata.
Un messaggio di Emma, con una dedica sentimentale, magari.
Mia madre che veniva ad abbracciarmi, piangendo. «Qualsiasi cosa sia successa, ti salverò: non m’importa nulla di Alec Mitchell!».
Alec Mitchell che s’avvicinava a me, pentito per la scenata di un po’ prima.
Mio padre che veniva qua dopo un lungo viaggio a chiedermi come stavo. Se volevo le sue deliziose minitorte.
Ma non accadde nulla.
Restai là nel corridoio sola per un’ora e  mezza. Non passò nessuno per tutto il tempo, nemmeno per controllarmi, anche se avevo il sospetto d’essere osservata ventiquattr’ore su ventiquattro da qualche telecamera. E chissà, magari davanti allo schermo d’un PC, a fissare la mia figura buttata a terra, c’erano proprio Alec Mitchell e mia madre.
Rimasi lì  nel silenzio più totale, intervallato solo da qualche mio sospiro, a capire quant’ero sola e patetica. E che non c’era scampo a tutta quest’assurdità. E che la mia vita, ormai, aveva preso una piega terribile verso il basso. E che non sarebbe risalita più.
 
Alla fine qualcuno arrivò.
Erano le ventidue in punto, e l’agente Rossi uscì da una stanzetta alla fine del corridoio, di fronte a me. Mi si avvicinò a passo malfermo, insicuro; poi si chinò alla mia altezza – io ero seduta sul pavimento – e mormorò, quasi a disagio: «E’ ora d’andare a dormire, Cara...».
Poi mi guardò come si guarda la cosa più fragile ed instabile al mondo. E la si deve sfiorare, toccare, per aiutarla. Ma non si vuole, perché chi lo sa, si potrebbe rompere. L’agente Rossi mi guardo così e mi afferrò delicatamente una mano, aiutandomi a tirarmi su. Quasi non percepii la sua presa.
«Sei stata tutto il pomeriggio qui?» mi domandò, a voce bassissima, mentre percorrevamo il corridoio allontanandoci dalla stanza da dov’era giunto. Mi sembrava d’essere in una biblioteca, dove si deve parlare piano per non disturbare. Ma qui non c’era anima viva che si sarebbe potuta seccare al suono d’una voce, il commissariato sembrava uno di quei castelli deserti che mostrano nei film o nelle serie TV horror.
Gettai il sacchetto di patatine in un cestino mezzo vuoto. «» mormorai, alzando le spalle e passandomi successivamente una mano sugli occhi. La mia voce, relativamente alta, sembrò stonare con quella leggera dell’agente accanto a me, che però non commentò.
Dio, mi sentivo di merda.
La testa mi pulsava più che mai e mi sembrava che anche l’agente Rossi, che stava sussurrando ogni frase a voce molto bassa, stesse urlando a più non posso in un megafono. Mi allontanai un po’ da lui per non sentirlo più – tanto non aveva niente d’interessante da dirmi e no, dannazione, non la volevo una minestrina o qualcos’altro.
Aprì una porta bianca. C’erano solo porte bianche, corridoi bianchi, tavoli bianchi. L’unica porta grigia che avevo visto era quella della sala dell’interrogatorio.
Si fece indietro ed entrai. «Qui potrai riposare un po’.» M’informò, senza guardarmi negli occhi. Mi temeva perché ero figlia d’un giudice? Perché il suo comportamento era cambiato così tanto?
Poi capii perché era così imbarazzato. Mi aveva condotta in una... Cella. Sì, era proprio una cella, con tanto di sbarre alle finestre. La porta si poteva aprire solo dall’esterno e là dentro c’era soltanto un lettino con un materasso fino che dava l’idea d’essere molto duro e scomodo. Niente cuscino.
«Ah» mi sfuggì.
«Già. È perché l’agente Mitchell ha insisto tanto, sai, io t’avrei lasciata andare a casa... Insomma, con tua madre, che potresti combinare eh?» Abbozzò una risata, girandomi attorno. Si sedette sul letto e il suo corpo non sprofondò nemmeno d’un centimetro nella gommapiuma del letto. Doveva essere durissimo. «E comunque, temo tu sia più al sicuro qui che con lei, no?» continuò. Probabilmente non capiva che stava solo facendo peggio, chi lo sa.
«Immagino di sì...» sussurrai. Mi stava guardando sempre con un’espressione di riverenza mista a timore, ma io non ne capivo il perché. Stavo per chiederglielo – perché mi guardi così? – ma riuscii a trattenermi all’ ultimo.
«Quindi, mia madre se n’è già andata?»
La mia voce uscì piatta dalle labbra, come se non stessi provando nulla. In realtà stavo soffrendo come un cane, non ne potevo già più di quella situazione così scomoda che stava durando fin troppo. E poi l’idea che mia madre mi avesse abbandonato era inaccettabile.
L’agente Rossi sembrò rendersi conto del mio tumulto interno. Accennò un sorriso paterno e s’alzò dal letto, avvicinandosi a me d’un passo. «Oh, sì... E’ dovuta scappare. Sai com’è, il lavoro». Decisamente, l’agente Rossi s’era preso una cotta per il lavoro di mia madre. Ogni volta che pronunciava quella dannata parola, i suoi occhi brillavano d’una luce nuova. Chissà, magari anche lui sarebbe voluto diventare giudice, quand’era giovane.
Sorrisi anch’io, ma in modo totalmente differente. «D’ora in poi sarò io il suo lavoro» precisai, piccata.
«Già».
«Senta, agente Rossi, potrebbe dirmi una cosa? Non c’entra assolutamente con ciò che sta succedendo... Cioè, in parte, ma non con il lavoro della polizia e così via... Può?»
«Vediamo. Dimmi» mi esortò, con voce dolce. Non si avvicinò di più  a me, restò nei suoi spazi ed  io gliene fui infinitamente grata. L’agente Rossi si stava rivelando il mio punto fermo in quel caos là in commissariato e nel mio cuore, al contrario di Alec Mitchell, quell’uomo così dannatamente bello. Sentivo già la mancanza dei suoi occhi e, per di più, una parte di me s’aspettava davvero di vederlo avvicinarmisi per scusarsi e baciarmi.
Mi schiarii la gola. No! Non dovevo perdere il coraggio, altrimenti l’agente Rossi sarebbe stato costretto a tirarmi fuori le parole di bocca con le pinze. Senza guardarlo negli occhi, sussurrai: «LeisacosacètralagenteMitchellemiamadre
«Ehm, cosa?...» domandò l’agente Rossi, confuso. I suoi occhi sembravano due punti interrogativi, proprio come nei fumetti.
Avevo parlato così veloce che non si era capita un’acca. Il mio cuore batteva fortissimo e nella mia mente c’era una parola: tradita! Ero stata tradita! da mia madre. Lei mi aveva tradita! e così io ero costretta a chiedere ad un agente di polizia di fare lo spione per me. Tradita!
Guardai la punta delle mie scarpe da ginnastica. Erano logore. «Lei... Lei sa cosa c’è tra l’agente Mitchell e mia madre?»
Ci fu un secondo di silenzio, nel quale lo sguardo dell’agente Rossi si oscurò. Osservò il soffitto della stanza e cominciò ad arretrare, finché non cadde nuovamente sul letto. E nuovamente non affondò di un centimetro. «Non sai davvero niente?...» domandò sorpreso. Nel suo sguardo, per un secondo, lessi compassione. Scossi il capo. Dannazione, io non ne sapevo niente! Non conoscevo davvero mia madre a quanto pareva, lei era stata sempre e solo un giudice con me, niente di più! E me ne rendevo conto solo ora, in una cella d’un commissariato.
«Io... Non posso parlare, scusa, Cara. Chiedi all’agente Mitchell, semmai. Davvero, scusa.» Ed era dispiaciuto. Potevo leggerlo nei suoi occhi così sinceri e così puri, a modo loro. « Devo andare...» m’informò dopo un secondo d’esitazione, avanzando verso la porta.
L’idea di rimanere ancora sola mi terrorizzò. No, non di nuovo... Per favore!...
Ma non potevo certo dirlo all’agente Rossi. Ad un agente in generale.
Non potevo dire nulla. Perché in realtà non c’era nulla da dire.
E così, per trattenerlo un po’ di più là dentro con me, domandai: «Gabriele? Quando verrà qua?»
Perché ero certa che sarebbe venuto. Doveva pagarla cara, questa volta.
L’agente Rossi aveva una mano poggiata sulla maniglia. Tossicchiò. «L’abbiamo già chiamato, Cara. Verrà domani».
Ah, bene, pensai, piccata, guardando la testa un po’ pelata dell’agente. Lui, il drogato!, può passare la notte a casa ed io no!
Una vocina, una vocina così veritiera da risultare bastarda, proclamò: Lui, il drogato, è solo un drogato. E non un assassino come te, piccoletta.
Aveva ragione. Ovviamente.
L’agente Rossi mi augurò ’’buona notte’’. Probabilmente stava scherzando.
Si voltò, mi diede le spalle ed in un secondo sparì.
 
Quella notte non dormii sul letto; mi sedetti a terra appoggiandomi alla branda e rimasi là a guardarmi i piedi, le mani e lo schermo del cellulare che, pian piano, si scaricò, finché il sonno non mi accolse tra le sue braccia. In realtà anche lì non riuscii a stare tranquilla: l’immagine dell’agente Mitchell tormentò anche i suoi sogni, solo che là faceva ciò che volevo io. «Scusami», diceva nei miei sogni, abbracciandomi e portandomi via dal commissariato.
E fu l’ immagine dell’agente Mitchell a turbare anche la mia mattina. La sua voce mi svegliò, e poi l’agente aprì la porta, entrando nella mia cella.
«Benvenuto nella mia dimora!» lo accolsi, tirandomi su dal pavimento. Non lo guardai nemmeno una volta, sapevo ciò che avrei letto nel suo sguardo duro – odio, certo, ma anche compassione. Dopo tutto ero solo una sciocca bambina che aveva voluto giocare un po’ con le armi ed ora era pentita e triste. Per di più, mi aveva vista dormire per terra. Come una bestia. Ottimo.
Uscii dalla stanza senza aggiungere una parola. Dal canto suo, nemmeno l’agente Mitchell fu così sgarbato da farlo. Mi seguì fino alla porta del bagno e mi aspettò là fuori, in silenzio. Soltanto quando uscii, ancora ostinata a non degnarlo d’un’occhiata, sbottò: «Dormito bene?»
Guardai il soffitto sopra di me. C’erano sei lunghe lampade in tutto il corridoio, di cui tre non andavano. «Sì, molto. Lei?» chiesi cortesemente, cominciando a camminare un po’ a caso per il commissariato. Sentivo la presenza dell’agente poco dietro di me, ma non volevo dargli la soddisfazione di vedermi turbata, così continuai a girovagare senza meta.
«Non molto.» Mi rivelò. Drizzai le orecchie, curiosa. E così, mentre io lottavo per dormire, anche lui si rigirava nel letto senza poter riposare? D’un tratto, irrazionalmente, mi sentii molto meno sola. Quasi mi voltai per abbracciare l’uomo che mi aveva costretta a dormire in una cella. «Sai, i letti sono fatti per starci sopra» Aggiunse dopo una breve pausa. La sua voce sogghignava.
Guardai il bidone più vicino a me. Esterno di plastica nera, interno di nylon verde scuro. Là dentro avevo buttato le mie patatine, il giorno prima. Quando il mio stomaco brontolò rumorosamente, quasi mi ci avvicinai per recuperarne un po’. «Quello non è un letto, agente. È una panchina» obbiettai rigidamente, voltandomi verso una finestra. Camminai fin lì, con Alec Mitchell dietro.
«Come vuoi.» replicò, con voce calma. Fuori pioveva e tutto aveva un aspetto grigio e mogio, che mi intristì ancor più. Ma poi eccolo là, il riflesso dell’uomo accanto a me. Bellissimo. Aveva i capelli spettinati ed i suoi occhi parevano ancora più celesti. Non indossava la divisa ma una tuta grigia con pantaloni blu scuro ed il suo fisico risaltava più che mai. Mi costrinsi a non fissarlo – anche se, tecnicamente, non lo fissavo. Non direttamente, almeno. «Oggi verrà qui Gabriele... Gli faremo alcuni test» Rivelò, con voce piatta.
Sapevo che cosa stava facendo. Mi stava mettendo alla prova per controllare le mie reazioni. Sarei scattata allarmata, terrorizzata all’idea dei test? Questo avrebbe confermato che ero una bugiarda e che Gabriele era invece a posto.
Io però me ne rimasi lì. Un sorriso sadico si dipinse sulle mie labbra. «Ottimo.» sussurrai passando un dito sul vetro gelido della finestra. Il mio intero corpo fu  trapassato da un brivido e il mio stomaco brontolò ancor più forte. Questa volta l’agente doveva averlo sentito, ma non disse nulla.
E poi feci una cosa che aveva dell’incredibile. Stringendo le braccia sotto il petto, mi voltai verso il poliziotto. Lui mi guardò passandosi una mano tra i capelli biondi. Aveva un’espressione perplessa e quegli occhi dannazione che occhi stupendi si ritrovava ed erano un po’ sprecati su di lui. Mi avvicinai d’un passo all’agente. Avevo il cuore in gola e lui era lì, così bello ed etereo.
«Ora io ho una domanda, Alec Mitchell».
Lui non mostrò segnali d’essere contrariato. Anzi, rispose interessato. «Dimmi.» mormorò, con la curiosità che gli accendeva la voce. Mi costrinsi a non abbassare lo sguardo e lui lo ricambiò con fervore; nei suoi occhi non c’era traccia né di risentimento né di odio, sembrava soltanto interessato. Probabilmente era una giornata buona, per lui.
Ma non per me.
«Tra te e mia madre, cosa c’è?»
Questa volta domandare mi riuscì molto più facile. Non saprei spiegarne il perché, ma le parole uscirono con facilità dalla bocca ed un sorriso – bastardo – illuminò il mio viso. Volevo mettere al muro quest’uomo, fargli capire che là dentro non ero solo io l’unica malvagia. E soprattutto farlo sentire male. Male, perché lui era stato uno stronzo con me, non s’era comportato correttamente e mi aveva minacciata. Ed ora l’avrebbe pagata.
In più il rimorso nei confronti della donna che mi partorì accresceva la mia smania di vendetta. E non potevo prendermela con lei – sarebbe stato come dire «Datemi l’ergastolo», d'altronde – anche se lo desideravo così tanto. E poi eccolo là, l’agente Alec Mitchell. La preda perfetta.
Ma non andò come doveva andare. L’agente non mi guardò con orrore e non mi rivelò d’essere l’amante o chissà cos’altro di mia madre, non perse il controllo.
«Cara. Cara, per favore. Sii più intelligente.» mormorò, prendendomi per un polso. Il mio cuore accelerò. La sua stretta era così forte da far male e le sue mani erano gelide. Un’ombra oscurò il suo sguardo e, per la prima volta, ebbi davvero paura di lui. Ero solo un’ impertinente. Come mi era saltato in mente d’andare a dar fastidio al lupo che dorme nella tana, eh? D’altra parte, la curiosità, la smania di conoscenza, mi tratteneva dallo scappare con la coda tra le gambe.
«Rispondimi» sbottai. Il mio tono sembrò autoritario e deciso, quando in realtà volevo soltanto andarmene via e piangere per lo stress. Non ero che una bambina brava a fare l’attrice.
Alec Mitchell scosse il capo. Si avvicinò ancor più – quanto ancora? – e il suo odore mi arrivò addosso come un pugno. Il suo sguardo, ora, era sì incazzato, odioso, ma anche... Ferito. Evidentemente, avevo trovato il tasto dolente. Avrei dovuto esserne felice, ed invece... Eccomi lì, a sentirmi una merda per essere stata troppo curiosa. Quando l’agente Mitchell era nei paraggi io non ero più io, non ragionavo più come prima. Anzi, non ragionavo e basta. E la cosa non mi piaceva.
«Non c’è nulla da dire» sussurrò a pochi centimetri da me, sconsolato. Poi mi lasciò il polso e s’allontanò velocemente, come per paura di fare qualcosa di sbagliato – picchiarmi?
«A me sembra di sì...»
«C’è una persona che vuole vederti. Ed in più, dopo avrai un colloquio con Gabriele. Muoviti, Cara, non c’è tempo da perdere» ringhiò sbrigativo, dandomi le spalle e incamminandosi. Il mio nome, sulle sue labbra, sembrò un insulto più che mai.
 
La ’persona’ era Emma. Non appena la scorsi lì in commissariato, seduta rigidamente su una seggiola di plastica con l’aria di chi si sente estremamente fuori luogo e se ne andrebbe subito, se potesse, mi venne l’impulso istintivo di nascondermi dietro la schiena dell’agente Mitchell e poi scappare via.
Emma.
Era venuta lì, per me. Una prova d’amicizia e lealtà incredibile, tuttavia ... Cos’avrebbe detto? Infondo, ero pur sempre trattenuta in commissariato. Ed anche da abbastanza tempo. Avrei letto ansia, paura, incredulità nel suo sguardo? Tanto più che ero colpevole. Totalmente ed innegabilmente!
Quando mi fermai davanti alla porta socchiusa che dava alla sala d’attesa con sguardo indeciso, Alec Mitchell si voltò e mi guardò sospettoso.
«Starò con voi tutto il tempo» precisò.
Per un secondo pensai fosse per proteggermi, nel qual caso che Emma avesse provato a insultarmi o peggio – cosa che non mi sembrava così impossibile, visto che la mia amica era molto impulsiva. A quell’idea il mio cuore cominciò a scalpitare ed una sensazione che mi mancava scaldò il mio cuore: l’idea di non essere sola.
Poi l’agente aggiunse, quasi con malignità: «Non vorrei mai che provasse a farti scappare!»
Bum! Colpita ed affondata.
Ma non gliel’avrei data vinta così.
Oh, no!
«Che cazzata! E sta fuori dalla stanza, chiaro? Non ti voglio tra i piedi, pretendo d’avere privacy!»
Detto ciò aprii del tutto la porta ed entrai nella stanza d’attesa in gran stile, lasciando dietro me un agente biondo, bellissimo e molto scioccato.
 
«Cara!»
Emma mi saltò al collo. Anch’io la abbracciai, dimenticando i miei pensieri di poco prima. d'altronde, perché mai avrebbe dovuto essere incazzata con me? Lei non era mai stata molto amica di Gabriele ed anzi, quando aveva scoperto che si drogava l’aveva ancor più allontanato da sé. Non si sarebbe mai potuta incazzare per il fatto che l’avevo tradito, no.
Ed io?
Io come mi sentivo ad aver tradito un amico che m’era stato vicino nei momenti difficili?
Che quando voleva sapeva essere così dolce da farti sciogliere?
Che aveva il più bel sorriso del mondo?
Io, come stavo vivendo tutto ciò?
Scacciai quelle domande. Ma che cazzate. Io avevo fatto ciò ch’era giusto, punto. Nient’altro.
Vero?
«Emma... Sei qui...» sussurrai, con un nodo in gola che quasi m’impediva di parlare.
Lei annuì, passando una mano sulle mie guance. Il suo tocco fu leggero e delicato, così chiusi gli occhi per assaporare la sensazione d’avere un’amica così leale. Quando li riaprii, la trovai che mi stava fissando con una dolcezza infinita. «Piangi» mormorò, con gli occhi arrossati.
Ed allora avvenne. Sì, l’ammetto, potrebbe essere considerata una scena un po’ patetica. Molto patetica. Ma fu più forte di noi: scoppiammo in singhiozzi e c’abbracciammo per un tempo che mi sembrò infinito.
 
«Allora, dimmi perché sei qua.»
«Uh.» Domanda di riserva?
Io ed Emma stavamo passeggiando nel parcheggio davanti al commissariato. Ero riuscita a convincere Alec Mitchell a lasciarci uscire, avevo davvero bisogno d’aria. Lui aveva accettato, anche se sapevo che, proprio in quel momento, i suoi occhi azzurri dovevano starci guardando da qualche finestra.
«Non ti giudicherò.» continuò, con sguardo sincero.
Mi fidai. D'altronde sia mia madre che gli agenti sapevano già tutto ciò che avevo fatto e pure il perché.
«Ho... Ho sparato ad un agente.»
Silenzio.
Emma mi guardò con occhi sgranati. «Ed è... è... Insomma, è...»
«No, no! È vivo!» squittii, preoccupata di ciò che stava pensando di me. «Hai visto l’agente con cui ho parlato, prima? Quello che è venuto in classe, lo ricordi?»
Lei annuì solennemente. «Sì, il dio greco» confermò, con voce timorosa.
«Be’, ecco... A lui. Ho sparato a lui» bisbigliai.
«Oh. Ma sta bene.» balbettò, insicura se aver paura di me o no.
«Assolutamente!» E’ solo uno stronzo assurdo, ma non credo che per questo ci sarà cura, pensai malvolentieri.
«E... Beh, potrei sapere perché?... Insomma, se vuoi...»
«Volevo difendere Gabriele» risposi, ansiosa. Sapevo che si sarebbe irritata al suono di quel nome, e così fu.
«Va avanti.» mi esortò.
«Lui... Beh, mi ha costretto a tenergli un po’ di roba. Sul momento non ho capito che era una cazzata, e stava arrivando la polizia, così... Sono scappata. Con la roba, intendo». Più andavo avanti a raccontare, più mi sentivo un’imbecille. Non sarei mai dovuta fuggire! «Poi è arrivato Alec Mitchell... Il dio greco. Ho corso, ma poi s’è messa male  e così... Cristo, Emma! Avevo paura, non guardarmi così
Lei non cambiò espressione. Nei suoi occhi chiari leggevo dubbio, orrore, sorpresa, ira... E non potevo sopportarlo.
Così andai avanti, stremata: «Per una settimana ho vissuto col terrore d’averlo ammazzato. Era là, nel bosco... Ed io avevo paura... Volevo morire, è stato un periodo orribile. So che non è una giustificazione l’aver avuto paura, ma sono umana! Sbaglio!» finii così, con la voce più alta di qualche ottava.
Ed Emma non cambiò espressione. «Mi chiedo se tu usi o no il cervello. Per Gabriele hai quasi ammazzato una persona. Un agente, per di più! So che tutte le persone sono uguali e non ci sono distinzioni, ma... Cazzo, Cara, un agente! Gli hai sparato. Non è giustificabile. Non so davvero come andrà a finire questa storia, ma non credo andrà bene.» Si tappò la bocca proprio dopo l’ultima parola, forse anche lei scioccata da ciò che aveva detto.
Aspettai che mi chiedesse scusa – scuse che non avrei accettato in ogni caso, almeno non subito – e, quando non accadde, iniziai ad allontanarmi lentamente da lei. Mi sembrava d’essere in una sorta di limbo dove niente è reale.
Non provai più niente.
Dolore? Tristezza? Senso d’abbandono?
No, niente.
Anche Emma mi aveva tradita. Anziché aiutarmi, mi aveva massacrato.
Non riuscii più a sopportare la situazione. Corsi dentro al commissariato, superando un Alec Mitchell pressoché infastidito, che sbottò «Era ora! Quanto c’avete messo!». Lo ignorai, mandandolo mentalmente a ‘fanculo. ‘Fanculo tutto, lui e la sua dannata bellezza ed anche il suo strano rapporto con mia madre! Quando finalmente raggiunsi la mia cella, l’unico luogo dove meritavo di vivere,  a quanto pareva,  e mi ci chiusi dentro, fregandomene del fatto che sarei potuta rimanere lì ore ed ore, riuscii a scoppiare in lacrime. E fu liberatorio.
 
«Cara, devi uscire.» m’informò ad un tratto una voce dall’altra parte della porta. Quando questa si aprì, l’agente Mitchell mi osservò senza nessuna espressione in particolare, né mi giudicò. Osservò le lacrime, i capelli spettinati, il volto sciupato ed i vestiti spiegazzati e non sembrò averne alcuna opinione – né buona, né cattiva.
Anche lui era in un limbo? Anche lui, come me, non provava più niente? Dal canto mio, dopo aver pianto per un tempo indeterminato, ma abbastanza lungo da schiarirmi le idee, avevo capito che non mi importava più di nessuno. Né di mia madre, né di Emma, né di Gabriele, né di Alec Mitchell o tantomeno del fatto che gli avevo sparato.
«Devi incontrare Gabriele, Cara. Alzati.»
Mi ero distesa sul letto. E sì, era dannatamente duro, ma tanto non ero andata lì per dormire. Quando Alec Mitchell nominò il mio ex amico, il mio corpo ebbe un guizzo involontario. Stavo forse uscendo dal limbo? Tentai di calmarmi e, grazie al cielo, ci riuscii. Il limbo era la mia droga, non potevo farne a meno. Quest’inaspettato menefreghismo mi piaceva fin troppo.
«Non ci verrò a parlare, scusa, bellezza» dichiarai, voltando le spalle all’agente. Il mio tono era piuttosto fastidioso, ma a chi importava? A me, sicuramente, no.
Alec Mitchell sbuffò, entrando nella cella. Per qualche secondo valutai l’ipotesi d’alzarmi e, rapidamente, chiuderlo qua dentro. Subito la scartai: lui era comunque giovane, sebbene fosse più anziano di me, e doveva essere molto forte e veloce. In un secondo mi avrebbe presa e portata da Gabriele.
«Da quando sei così indifferente?» mi domandò. La sua voce era così bella... Oddio, avrei voluto rubargli le corde vocali!
«Da più o meno un’ora» buttai là una cifra a caso, stropicciandomi gli occhi.
«Ed è bello?» continuò Alec Mitchell.
«Molto...» borbottai, confusa. Doveva esserci qualche inganno o tranello sotto. L’agente Mitchell non mi aveva mai posto così tante domande al di fuori della sala per l’interrogatorio.
Mi voltai, sentendo puzza d’inganno, ma era già troppo tardi.
Alec Mitchell si tuffò su di me e mi afferrò come un sacco di patate, portandomi fuori dalla stanza. Le provai tutte: tirare i capelli, pugni, calci, ma lui non si fermò. Quando riuscì a trascinarmi fuori mi mise giù, con aria soddisfatta.
«Bene. Allora non sarà un problema andare a fare due chiacchiere con Gabriele» esclamò, sogghignante. Sembrava avere dieci anni in meno, un ragazzino scapestrato e divertito. Ma durò un secondo – e tanto bastò a lasciarmi ammaliata – e poi l’agente tornò ciò che era: uno stronzo.

 
 
NdA. Piccola parentesi.
 
#Grazie
So che è appena  finito un capitolo, sarete già stufe marce di me, però devo dirvi una cosa.
Pensiero generale: “Cazzo, una dedica chilometrica! Chi la sopporta più?”. Ma tranquille, è breve, sul serio. Giuro!
Allora, probabilmente è una pazzia pubblicarla perché. .. non vi conosco, nemmeno so il vostro vero nome, ho a disposizione dei nickname e, talvolta, delle storie.
Tuttavia ringrazio tutte voi  per aver aperto la mia pagina e scelto qualche mia storia ... Che vi sia piaciuta o no, per me è importantissimo. Grazie.
Spero di non essermi dilungata troppo. In ogni caso, sono poco meno di 150 parole, non ci avete messo molto a leggere, no?
Meme1.
 
  
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