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Autore: voiangel    11/05/2014    1 recensioni
«Avevo sempre paragonato i ricordi a delle lame che continuando a rigirarsi nelle ferite, impedendone la cicatrizzazione, impedendo che si possano rimarginare o anche solo far smettere di sanguinare. Ma quel coltello era lì, sempre pronto a sprofondare un po' più giù nella mia carne, lasciandomi agonizzante e in cerca d'aria.
E ora non mi era rimasto più ossigeno nei polmoni, le lame erano troppo profonde nella mia carne, io troppo stanco per potervi resistere e Christina un fardello sulla coscienza.»
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christina, Four/Quattro (Tobias), Tris
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Quando mi sveglio sui sedili posteriori del furgone -tranne che per la mia presenza-, lo trovo vuoto. 
La testa è schiacciata contro il petto, tenuta su dalla portiera e le ginocchia sono piegate, ma i piedi sbattono comunque contro il finestrino della portiera sinistra.
Quando mi siedo sento un senso di nausea diramarsi dal petto alla gola.
Ho le guance fredde e bagnate e sopra i respiri affannati sento il battito del mio cuore, sempre più veloce, pulsarmi nel petto, nelle orecchie, dietro agli occhi, ovunque. 
Per un momento ho l'impressione che qualcuno mi abbia sottoposto ad una simulazione, perché la sensazione è la stessa che provai due anni fa, quando per la prima volta mi spinsero lo stantuffo della siringa nel collo facendo apparire davanti ai miei occhi le mie paure. 
Solo quando mi rendo conto che non c'è nessuna siringa in giro, capisco che mi sono appena svegliato. 
L'ultima cosa che ricordo è la zip-line e un'urna. 
Un'urna che conteneva le ceneri di Tris... Ora ricordo. 
Lei era morta, era andata a diffondere il siero della memoria al posto di Caleb. 
Ed era sopravvissuta al siero della morte ma David le aveva sparato. 
Ma era solo un sogno. Tris è viva, deve essere così.
E se non lo fosse, se si fosse davvero offerta di andare a morire al posto di suo fratello? 
Mi sporgo in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia e premendo la testa tra le mani.
Mi schiaffeggio per scacciare questo pensiero. 
Rimango seduto sui sedili posteriori del veicolo per non so quanto tempo prima che una piccola mano pallida bussi al finestrino, facendomi sobbalzare. 
Alzo lo sguardo aspettandomi di vedere il sorriso luminoso di Tris, ma effettivamente non vedo nessun volto. Ho la vista appannata dalle lacrime.
Riesco a distinguere una ragazza pallida da corti capelli biondi, della stessa lunghezza di quella di Tris. Sbuffo sollevato, è lei. O almeno ci assomiglia. 
Solo che è... troppo alta. No, non è lei. 
Mi strofino le mani sugli occhi per vedere meglio, e quando vedo che la ragazza fuori dal furgone ha degli occhi piccoli e freddi, sento che un macigno potrebbe schiacciarmi. 
E tutt'un tratto è come riessere nel mio scenario della paura.
Sento che lo spazio intorno a me si sta restringendo, esattamente come facevano le pareti di legno nel mio scenario. 
Sento le mani formicolare, il chiaro segno che sto per andare in panico. 
Stai calmo, dice una voce tremante nella mia testa, non è reale, ripete la stessa voce, senti, lo senti il mio cuore?, e allora mi rendo conto che è la sua voce. 
Me la sento addosso, sento il profumo dei suoi capelli sotto il mio naso, quasi percepisco la pressione della mia mano sul suo torace, e mi sembra di sentire i battiti del suo cuore. 
Cerco di aggrapparmi a quel ricordo con tutto me stesso, respirando al ritmo della Tris del mio ricordo, e il formicolio alle mani passa. 
Dovrei scendere ed andare a vedere come sta, ma ho paura. 
Ho paura di scoprire che il mio sogno non era solo un sogno. 
Ho paura che un medico mi conduca nell'obitorio a vedere il suo corpo esanime, freddo, svuotato del coraggio, dell'altruismo, della bontà… vuoto.
Però mi rendo conto che non posso restare qua dentro ancora tanto, la claustrofobia sta prendendo di nuovo il sopravvento sulla mia mente, per ora parzialmente lucida. 
Faccio un respiro profondo, il labbro inferiore mi trema, ma non cerco di nasconderlo alla ragazza che sta ancora aspettando fuori dal furgone. Mostrarmi codardo ad un'estranea, per ora, è la mia ultima preoccupazione. 
Cerco di assumere un'aria più calma possibile e con un balzo scendo dal veicolo, sbattendo noncurante lo sportello alle mie spalle. 
Non preoccuparti, mi rassicuro, lei sta bene. 
Ma non riesco a tenere per molto l'andatura lenta e composta che mi ero imposto di assumere. 
Inizio a correre verso il Dipartimento, l'aria gelida sulla mia pelle sembra piccole dita che mi pizzicano le guance. Gli occhi mi bruciano, e in basso, nella mia visuale, le figure iniziano a galleggiare scomposte nel niente. 
Concentrati sul qualcos'altro mi suggerisce la voce calma di Cara, nella mia testa. 
La ascolto, inizio a concentrarmi sullo scricchiolio delle mie scarpe sul terreno ghiacciato e scivoloso. La cosa pare funzionare fino al check-point, ma quando lo attraverso la vista di figure disperate mi fa perdere la testa. 
Christina, che piange ininterrottamente, è tenuta su per la vita da Will altrettanto agonizzante, Peter è accasciato su sé stesso, piccoli diamanti paiono rigargli le guance, si passa le dita tra i capelli neri che, come sempre, rimangono perfettamente impiedi, lucidi come le sue guance. Sa piangere? mi chiedo Lui prova altre emozioni oltre alla rabbia? 
Cara ha gli occhi rossi, inniattetati di sangue, così gonfi, così diversi da quelli seri e diligenti che sono abituato ad associarle. Albert sta prendendo a testate un vetro, anche lui piange e sussurra qualcosa in modo troppo strascicato per capire le sue parole.
Uriah, Marlene e Lynn sono insieme, sembra quasi che non si vedano l'un l'altro. Uriah ha le mani che gli coprono il volto, le spalle scosse da singhiozzi. Lynn continua a gemere, a dire che non va bene, che non va affatto bene, che qualcosa doveva andare diversamente e Marlene le accarezza la schiena. Matthew piange in silenzio. 
Zeke e Shauna premono l'uno la fronte contro l'altra, scambiandosi parole di conforto, mentre le lacrime scendono impetuose dai loro occhi. 
In un angolo, vicino alla statua di marmo, ci sono Caleb, Natalie e Andrew. 
Il primo piange, come tutti gli altri, e si prende a pugni le teste, piegandosi su se stesso, raggomitolandosi a terra nasconde il viso tra le gambe mentre continua a urlare. Ma i genitori di Beatrice no. 
Il loro dolore sembra un dolore più intenso, più vero, quello che nemmeno tutte le lacrime del mondo o gli urli più strazianti potrebbero spiegare. Quel genere di dolore ch ti fa venir voglia di star zitto e aspettare la tua morta come un ombra che cammina leggere, capace di attraversare i corpi delle persone senza che se ne accorgano. Se ne stanno insieme, mano nella mano, inespressivi e silenziosi. Talmente apparentemente impassibili da farmi venire i brividi. Sento che le mie labbra si stanno muovendo, ma io non sento il suono della mia voce, e non ricordo di aver deciso di parlare o di saper cosa dire. 
Mi chiedo solo che cosa sia successo per ridurre così queste persone. 
Allora parlo davvero, la mia voce arriva chiara e limpida alle mie orecchie. 
Ma quando chiedo cosa sta succedendo nessuno mi risponde, sembra addirittura che io non ci sia. In effetti nemmeno quando ho fatto irruzione al Dipartimento mi hanno notato. 
Che io sia morto? Che questo la mia anima? Dove si trova allora il mio corpo? 
No, non può essere. Se fosse successo qualcosa a me, ci sarebbero mia madre e Amar a piangermi. Ma nessuno dei due è qua. 
Questi sono mie amici. E ci sono i genitori di Tris. 
E... questi sono gli amici di Tris
Sento l'aria mancarmi e gli occhi pizzicarmi più intensamente di prima.
Le gambe all'improvviso si fanno di gelatina e non sono più in grado si sostenere il mio corpo, così cado pesantemente sulle ginocchia. 
Qualcosa di freddo sta scorrendo sulle mie guance, e quando arriva alle labbra ne sento il sapore salato. 
«Dove...» la mia voce arriva ovattata e strozzata alle mie orecchie «Dov’è Tris?» chiedo di nuovo, cercando di apparire più calmo di prima, ma senza risultati. 
Tutti si zittiscono all'istante. 
Il brusio delle parole di conforto e i singhiozzi, i gemiti e le preghiere cessano, come quando Evelyn alzava la mano e gli Esclusi si zittivano. 
Mi guardano tutti come si guarda un cucciolo ferito, un bambino che ha perso il suo gioco preferito, ma nessuno accenna a parlare. 
«Dove posso trovarla?» ripeto, sorprendendomi della freddezza nella mia voce. 
Attendo qualche secondo in un silenzio teso, angosciante. 
Sto per ripetere la domanda quando Matthew fa un passo avanti. 
«Lei... la puoi... Tris...» cerca di dire qualcosa, ma inizia a singhiozzare e a scacciare le lacrime dal suo viso come se più che altro si volesse dare sberle. 
Di nuovo cade il silenzio tra noi. Un silenzio insopportabile, lo devo rompere, devo sapere cos'ha o dove si trova.
«Peter, Peter come può importarti di una semplice Rigida?» la mia voce si spezza sulle ultime parole, ma riprendo subito «Peter, smetti di comportarti da Finocchietta e dimmi dove è»
Peter alza lo sguardo, ha gli occhi rossi e gli brillano le guance. Quasi faccio fatica a riconoscerlo. Mi aspetto che si asciughi il viso, che si ricomponga e si metta apposto i capelli e mi risponda con voce tagliente, ma non lo fa. Si copre la faccia con le mani e ricomincia a singhiozzare. 
«Mi dispiace, Quattro» comincia Cara «lei ha... lei ha preso il posto di Caleb. E' sopravvissuta al siero della morte ma» ha cominciato a singhiozzare e a premersi violentemente i palmi delle mani sugli zigomi, come per deviare le lacrime, poi riprende e annuncia: «dopo che ha portato a termine la missione, David le ha sparato». 
«Ha perso l'uso delle gambe? O delle braccia? O le hanno amputato una mano, o...» 
mi fermo prima di finire la frase. Hanno ripreso a guardarmi compassionevoli, ma non mi da fastidio, non mi importa. Sto aspettando che qualcuno mi risponda, ma mi guardano come se la risposta fosse scontata. 
Le devono aver sparato alle gambe, penso, è per questo che Shauna è qui, per insegnarle ad utilizzare una sedia a rotelle. 
«Allora?» insisto, questa volta con tono supplichevole. 
«Quattro...» Christina deglutisce «lei è... Tris è morta»
Mi aspetto di sentirmi debole come qualche istante prima, come quando sono crollato a terra, ma una scarica di adrenalina si libra nel mio corpo, nei polmoni, nello stomaco, negli arti.
Non credo di aver più il controllo delle mie azioni. 
Inizio a gridare e a correre per i corridoi del Dipartimento, in cerca di qualcosa, o di qualcuno, su cui sfogare la mia rabbia, da prendere a calci e pugni. Chi l’ha uccisa sarebbe l’ideale, ma anche un normalissimo geneticamente puro mi andrebbe bene, dato che è colpa loro, colpa di tutti loro se lei è morta.
Non so cosa o chi sto cercando. 
L'obitorio o David? 
All'inizio opto per David, ma poi, il sadico desiderio di vederla per l'ultima volta anche se inerte, esanime, vuota, si insinua in ogni parte di me, nel sangue che ribolle nelle vene, nei puntini neri che contornano il mio campo visivo, nel mio cervello e nelle lacrime calde che scivolano con facilità inaudita sui miei zigomi, carezzano le mie guance e dopo aver raggiunto il mento si infrangono sul pavimento lindo. 
Sto correndo senza meta, lo so, ma non voglio fermarmi. 
In un modo o nell'altro l'obitorio, il suo corpo, lo troverò. 
Delle braccia mi bloccano da dietro. 
«Quattro! Quattro fermati, lei non è di qua.» urla Zeke facendomi cambiare traiettoria. 
«Senti, so che è difficile» riprende prima che io lo interrompa 
«No! Non è difficile! E' una bugia! Uno stupido scherzo che non è divertente!» sbraito tutto d'un fiato. 
L'espressione sul volto di Zeke si addolcisce, quasi sorride, ma non dice niente. 
Da un angolo spuntano tutti: Natalie, Andrew, Christina, Will, Uriah, Lynn, Marlene, Cara, Matthew, Shauna e Peter. 
Non stanno più piangendo, hanno un espressione quasi sollevata, quasi gioiosa. 
«Si, Tobias, ti stiamo prendendo in giro», dice qualcuno. 
Mi hanno chiamato Tobias, lei mi ha chiamato Tobias. 
Una ragazza esile e pallida fa capolino da un corridoio più a destra da dove ci troviamo noi. 
E' bionda e i suoi capelli sono corti. 
Esito un secondo sul suo collo, con la paura che alzando lo sguardo sul suo viso, possa scorgere nuovamente occhi piccoli e freddi. 
Percorro piano la linea del suo mento, fino alle labbra e al naso, per soffermarmi alla radice di questo. 
Vedo sfuocati degli occhi. 

Ha gli occhi così seri, così risoluti.
Bellissimi.


Non sto muovendo le gambe, ne sono sicuro, e nemmeno lei. 
Eppure si fa sempre più vicina, talmente vicina che sento il suo profumo invadermi le narici, il suo corpo esile e piccolo più che mai tra le mie braccia. 
Sento i suoi capelli sotto il naso e la sua pelle tatuata sotto le mie dita. 
La sto baciando, e un attimo dopo le sto mordendo la clavicola facendo attenzione a non tralasciare i tre uccelli. 
Intorno a noi si fa tutto nero, se ne sono andati tutti.

«Mi piacerebbe che fossimo soli» sussurro 
«È quello che desidero sempre anche io» risponde.

La guardo negli occhi per qualche secondo. 
È la cosa più bella che mi sia capitata. 
No, non mi poteva capitare cosa migliore. Ecco, così va meglio.
Mi sono perso? Sono ancora al Dipartimento? 
Sono ancora negli Stati Uniti d'America? 
Sono ancora sulla Terra? 
O su quella cosa che Peter ha chiamato Universo? Ci sono ancora o sto fluttuando nel niente?
Non importa, lei è qui, non m'importa dove mi trovo. 

L'abbraccio forte, l'abbraccio come se potesse diventare un piccola nuvola bianca e scivolarmi via dalle mani da un momento all'altro. 
L'abbraccio con la stessa esigenza per la quale si respira. 
L'abbraccio come se fossi stato troppo sott'acqua e lei fosse ossigeno. 
L'abbraccio come fosse di mia proprietà. 
L'abbraccio come un bambino abbraccia il proprio orsetto durante un incubo. 
L'abbraccio come se fossi sul punto di volare via e lei fosse la mia ancora. 
L'abbraccio perché voglio farlo, perché ne sento l'esigenza, perché mi manca.
L'abbraccio perché è mia. L'abbraccio perché ho paura di perderla.
L'abbraccio. Sto abbracciando Tris.
La ragazza più coraggiosa, altruista, intelligente, testarda e meno affabile del mondo. 
La ragazza con più imperfezioni che conosca. 
La ragazza che io, nonostante tutto, amo e amerò sempre.
Chiudo gli occhi per assaporare meglio quel momento che ora sembra il più prezioso di tutti i momenti che qualsiasi persona abbia mai vissuto. 
E quando li riapro la realtà mi schiaccia. Mi sopprime, mi mozza il fiato e mi fa piangere. 

Non sono al Dipartimento, sono in un letto matrimoniale, e quella che sto abbracciando non è Beatrice, è Christina, che dorme sussurrando il suo nome. 
Non riesco a trattenere un’altra lacrima, che scivola sul mento e s’infrange sulla spalla di Christina, facendo apparire la sua pelle scintillante nella luce soffusa che le finestre fanno penetrare nella stanza.
Riusciremo mai ad amarci come io amavo Tris e come lei amava Will? 
No, probabilmente no, e la loro perdita brucerà nei nostri petti, più strepitante di qualsiasi altro fuoco.
Per quanto possiamo convincerci che non dipendiamo più da loro, che la loro perdita non fa più così male, per quanto possiamo ripeterci all'infinito di non aver mai amato nessuno così tanto quanto ci amiamo l’un l’altra, sappiamo entrambi quanto profonde siano le ferite, e quanto poco tempo ci dia la vita per ripararle. 
Mi alzo senza svegliare Christina e mi avvicino silenziosamente alla porta, fermandomi per qualche istante ad osservarla: è bella, molto, ma non è lei, e questo non potrà mai cambiare. 
Scendendo le scale sono talmente instabile che mi devo sostenere al corrimano, e il buio non aiuta di certo. 
Percorro a memoria la sala, inciampando qua e là tra i vari mobili, fino ad arrivare in cucina. 
Trovo a tentoni il frigo, e appena lo apro il ronzio della luce mi riempie le orecchie. 
Mi ricorda vagamente lo Strapiombo e la cascata. 
Là la salvai da Al, Drew e Peter. Là le dissi per la prima volta che mi piaceva…
Scuoto la testa pensando stupidamente che così possa reprimere i ricordi. 
Avevo sempre paragonato i ricordi a delle lame che continuando a rigirarsi nelle ferite, impedendone la cicatrizzazione, impedendo che si possano rimarginare o anche solo far smettere di sanguinare. Ma quel coltello era lì, sempre pronto a sprofondare un po' più giù nella mia carne, lasciandomi agonizzante e in cerca d'aria.
E ora non mi era rimasto più ossigeno nei polmoni, le lame erano troppo profonde nella mia carne, io troppo stanco per potervi resistere e Christina un fardello sulla coscienza.
Rimango a fissare il frigorifero per quale minuto, poi ne estraggo delle pillole, molte pillole piccole e bianche. 
Me le ha procurate Matthew, e gli ho promesso che le avrei usate solo in caso di emergenza, qualora gli incubi fossero stati talmente persistenti da impedirmi di dormire.
Prima avrei preferito il siero della memoria, ma Christina ha ragione: 
Tobias Johnson non sarebbe chi è senza quella parte di Beatrice Prior. 
E non la voglio cancellare quella parte, non la voglio cancellare quanto non voglio cancellare il ricordo di Tris, quanto non voglio tornare ad essere Tobias Eaton. Il fatto è che non esiste nessun Tobias senza Tris. 
Né Eaton, né Johnson, né nessun Quattro. 
È così che mi sento ultimamente: nessuno.
Vivo come un parassita, aggrappandomi alla vita dei miei amici e della mia ragazza, che dovrei amare con tutto me stesso. Ed io la mia ragazza la amo con tutto me stesso, ma la ragazza che intendo io è quella "sbagliata". 
Ed anche i miei sorrisi o le mie risate sono sbagliate, non dovrebbero più esistere. 
Non è giusto mentire ai miei amici, non è nemmeno giusto mentire a me stesso. 
Ed è brutto non aver paura di niente, è orribile non provare quella brezza che ti infonde adrenalina ovunque. 
L'altezza non mi spaventa più. Sarà che non m'importa minimamente della mia vita, ora come ora. 
Proprio come non importava a Tris quando è andata dagli Eruditi, o come quando si buttava a capofitto in situazioni di pericolo disarmata. 
Lei mi ha fatto superare la paura della claustrofobia. 
Non ho più paura di perderla, io l'ho già persa.
Per quanto riguarda Marcus, è morto. Ed anche se fosse vivo, per me sarebbe bello che sepolto.
La mia vita è vuota, inutile e non merita di essere vissuta una vita che non contribuisce al bene di nessuno. 
Guardo la bottiglia di pasticche davanti a me. 
È una scelta egoista e da codardo o altruista e coraggiosa? 
Non lo so, lei sceglierebbe la prima opzione, ma se poi vogliamo vedere non ha proprio ragione. 
Smetterei di fingere ai miei amici, smetterei di essere un peso sulle loro vite, e per farlo ho coraggio di rinunciare alla mia stessa vita. In molti non ne sarebbero capaci. 
Ma so lei cosa direbbe: "Altruista? Oh Tobias, non cercare scuse! È una scelta da egoista, anteporre il tuo bene a quello degli altri. Ed inoltre non è nella tua natura la codardia. Sai bene che nessun vero Intrepido fuggirebbe così dal dolore!"
O forse no, forse non direbbe questo. Non ne sono sicuro.
È troppo tempo che non è qua. Sono circa sei anni e mezzo.  
Sono ventiquattrenne, non più il diciottenne che lei conosceva, e probabilmente quelle non erano le parole che mi avrebbe rivolto lei: era la mia coscienza. 
Ma sinceramente non importa. Non m’importa.
Sta passando talmente tanto tempo che non riesco nemmeno a immaginare una sua potenziale reazione ai miei comportamenti, quando prima ero persino in grado di anticiparla.
Devo farlo. Devo farlo per far si che riesca a ancora a ricordarmela in tutta la sua incertezza, la sua semplicità, la sua bellezza. Devo farlo per non arrivare al giorno in cui di lei ricorderò che era una ragazza bionda e minuta con bei occhi e testarda. E so che arriverà il giorno che la ricorderò solo in questo modo, nel modo superficiale in cui tutti la vedevano prima del salto. Ma non voglio che quel giorno arrivi, non voglio che i giorni passati a baciarla, a parlarle, e le notti in cui abbiamo dormito assieme, siano cancellate. Per questo devo farlo.
Svito il tappo della bottiglia e rovescio tre pillole sulla mia mano sinistra. Le guardo un po' prima di ingoiarle tutte d'un colpo. Le sento scivolare in gola accompagnate dalla saliva. Non so se mi si siano bloccate in gola o se quello che sento è un nodo. Credo che sia un nodo. Mi ricorda tanto quando sentivo bussare la porta di casa mia nel quartiere Abnegante e sentivo la stessa sensazione: la gola si chiudeva e le mani s’intorpidivano. 
Voglio scacciare il ricordo quindi mi metto ad osservare il resto delle pillole nella bottiglia. Il suo colore mi ricorda quello di un sole che tramonta, questo sembra calmarmi. Ma le pasticche bianche mi ricordano lo stesso bianco della neve che si posa immacolata sui tetti d’inverno, puntuale e inevitabile.
Odio la neve, l'ho sempre odiata, e poco più di sei anni fa non sono più voluto uscire di casa ogni qualvolta nevicava. 
Inizio ad avere freddo, così decido di allontanarmi dal frigorifero, anche se so che non è l’aria che esce da questo a farmi rabbrividire. 
Mi dirigo verso il salone, lasciando aperto il frigorifero per farmi luce, e mi butto sul divano, incapace di stare in piedi. Inizio a sentire le gambe leggere, come se si stessero staccando dal corpo. Gelatinose, molleggianti. 
Passo qualche minuto a congiungere i punti sul soffitto creando strane forme. Lettere, nomi, frammenti di visi di persone che conosco. 
Lo sguardo si sposta sulla bottiglia arancione e decido che tre pillole non bastano. Mi rovescio tutto il contenuto in bocca. Questa volta ci vuole un po’ per mandarle tutte giù, e nemmeno la saliva mi è d’aiuto. 
Non so precisamente quanto medicinale c'era là dentro, ma so che ne ho preso abbastanza da farmela raggiungere il prima possibile. Spero solo che Matthew non si aspettasse di riaverle indietro.
Forse dovrei lasciare un biglietto per Christina, penso, lei ha fatto tanto per me... 
Mi alzo in piedi, più instabile di quanto fossi scendendo le scale, ancora non del tutto vigile. 
La sensazione di leggerezza di qualche secondo prima è svanita: mi sento le gambe pesanti e intorpidite, sembra si stiano opponendo alla mia volontà.
Arrivo con difficoltà al cassetto dove ci sono penne e fogli e lo apro a fatica.
Le vertigini non sono cosa nuova per me, ma queste sono più fastidiose di quelle provocate dall'altezza. 
Prendo carta e penna, e con altrettanta difficoltà torno a sedermi sul divano. 
Appoggio il foglio sul tavolino davanti a me e inizio a scrivere. 
L'inchiostro nero macchia il foglio, zigzagando nella mia mano, incapace di mantenere la mia solita grafia ordinata. 
"Scusa tanto, ti voglio bene.

P.s.
Porterò i tuoi saluti a Will e gli dirò che lo ami come se non se ne fosse mai andato."
scrivo. 
Lascio scivolare la penna a terra mentre la guardo, come fosse la cosa più strana al mondo, e in quel momento lo sembra. 
Osservo come rotola giù dal tavolino di vetro, senza che niente la ostacoli. Poi cade e si ferma sul tappetto, nel quale sembra sprofondare, immergersi nelle setole soffici che quasi la nascondono.
Forse è un po' così morire. 
Rotoli via dal tuo corpo e sprofondi in qualcosa, qualsiasi cosa quel »qualcosa» indichi. 
Ciò che sto pensando non hanno alcun senso. Rido. 
La mia è una risata fredda, priva di gioia o qualsiasi emozione. Non molto diverse dalle altre, infondo.
Sento il bisogno di sdraiarmi ancora, pensando stupidamente che così le vertigini si attenueranno, ma il poco buon senso che mi è rimasto in corpo mi dice di non farlo. 
In bocca ho il sapore del sangue. Sto collassando? 
D'un tratto l'adrenalina lascia spazio alla paura. La riconosco dalle mani formicolanti e dalla gola asciutta. 
Paura di cosa? 
Non certo di morire, penso. Paura di lasciare questo mondo collassando? Non ho motivo di essere spaventato.
Senza che abbia fatto niente per attenuare la sensazione di panico, mi calmo. 
Forse dovrei lasciare un messaggio anche per Zeke, in fondo è il mio migliore amico. 
Ma non ho voglia di alzarmi, non ho le forze.
Mi lascio cadere sullo schienale abbandonando la testa sulla spalla e lasciando giacere le mani lungo i fianchi.
Sono rilassato. Lo capisco dal respiro regolare che mi vibra nel petto.  
Dei pallini verdi, blu e neri mi appannano la visuale, fino a quando non vedo più niente. 
Ma sto respirando, sento il fiato corto e pesante infrangersi nel silenzio dell'appartamento. 
Qualcosa di caldo mi sta colando lungo al guancia, esce dalla bocca e gocciola sulla mano inerte. 
Se non fosse così denso potrei scambiarlo per bava, ma no, si tratta di sangue. Lo riconosco.
Cerco di aprire gli occhi un ultima volta prima per accertarmi che sto veramente morendo e che non sto sbavando in preda ad un attacco di sonno, ma le palpebre sono troppo pesanti e non riesco ad aprire gli occhi. 
Sto morendo. Ne sono certo. Sento la vita abbandonarmi lentamente, il corpo sempre più insensibile e i pensieri sempre più intrecciati tra loro, confusi.  
E di nuovo la paura mi assale, ma questa volta capisco di cosa ho paura. 
Ho paura del niente. Ho paura del probabile niente che ci sarà dopo che le pillole mi avranno ucciso completamente. Forse non vedrò Tris, forse non vedrò proprio niente. 
Ma allora avrò smesso di soffrire, ed anche questo è un bene. 
Così mi calmo e non sento più niente se non un filo, sembra caldo. 
Apro gli occhi -lo faccio con estrema facilità, ora- e mi ritrovo in salotto.
È esattamente come era pochi secondi prima che mi addormentassi... o che morissi, tranne che per la flebile luce che trapelava dalla cucina. Ora la sala è completamente illuminata.
Mi tocco la guancia aspettandomi di sentire sotto le dita il liquido denso, ma non sento altro che la mia pelle. 
Allora ispeziono l'addome, dove sento il filo caldo attrarmi verso la porta d’ingresso.
Quando abbasso lo sguardo vedo una mano pallida e piccola che mi tira per la maglia con due dita.
Alzo lo sguardo e mi ritrovo a fronteggiare dei bellissimi e grandi occhi. 
I suoi bellissimi e grandi occhi.
Sta sorridendo dolcemente, e delle rughette le si formano appena sopra gli zigomi.
«Sono morto?» chiedo calmo «O sto sognando?»
Tris non dice niente, continua a trascinarmi verso la porta d'ingresso senza battere ciglio.
Non riesco a parlare, sono troppo concentrato ad esaminarla, sorpreso dal fatto che non sia cambiata.
È sempre la stessa. La stessa sedicenne che ho aiutato a scendere dalla rete il primo giorno che la vidi nel quartier generale degli Intrepidi. 
No, è la stessa sedicenne che amavo, la stessa che ho baciato prima di lasciarla e ritornare a Chicago. Prima che morisse. 
«Non sei cambiato per niente, tu» sussurra fermandosi davanti alla porta, allargando il suo sorriso.
Le sue parole mi colgono di sorpresa e mi chiedo se non possa leggere nella mia mente. 
«Mi sono rasato di nuovo i capelli. Lo sto facendo spesso ultimamente» rispondo.
«Già, i capelli. Sei sempre bello.» dichiara, quasi divertita. 
«Dovremmo provarlo più spesso, sai? Questa cosa dell'affabilità» sussurro chinandomi in avanti per raggiungere l'altezza del suo viso. 
Lei ride, come l'ho sentita ridere poche volte. Allegra e spensierata. 
E rido anche io, come non ridevo da tempo, come non ridevo da circa sei anni. 
Poi, senza dire niente, mi trascina fuori dalla porta, senza aprirla, semplicemente ci passiamo attraverso come fossimo corpi gassosi. Fatti d’aria. Chissà quante volte ha varcato questa soglia senza che me ne accorgessi.
Non so cosa mi aspettassi appena fuori dal salone, probabilmente una distesa di luce bianca e calda, come descrivevano il paradiso all’ex Dipartimento, invece mi ritrovo tra le strade che percorrevo da bambino, dove vidi per la prima volta Beatrice, dove mi plasmai con la cattiveria di mio padre e dove i ricordi di mia madre mi spinsero a riconciliarmi con lei. 
Qui è dove ho passato giornate all'insegna della pace e del divertimento con Uriah, Marlene, Zeke, Shauna, Lynn, Tori e tutti gli altri. 
E non mi sorprendo nel vedere alcuni di loro alle spalle di Tris.
Intravedo Uriah, Lynn e Marlene che si lanciano piccoli cupcake colorati, tenendo il conto di chi colpisce chi.
I genitori di Tris che parlano pacatamente e ai loro piedi c’è Tori che se ne sta con gli occhi chiusi e i lineamenti del suo viso sono più dolci di quanto li abbia mai visti, facendole assumere un’espressione rilassata e facendola sembrare più giovane. Starà vegliando su suo fratello George? 
Will e Edward gesticolano e ridono tra una battuta e un’altra. 
Ma tutto questo appare sfuocato alla vista di Tris, che dopo anni è davanti a me, pallida, piccola e bella come quando eravamo entrambi vivi. 
Incastra le dita tra i passanti dei miei jeans e mi avvicina a lei.
«Vorrei che fossimo soli» sussurra sorridendo. 
Sento il cuore in gola, ho quasi paura che parlando possa sputarlo. Stessa frase, stessa espressione, stessa ragazza, stessa voglia, stesso desiderio. Sembra ritornato tutto come prima. 
«È quello che desidero sempre anche io» rispondo tutto d'un fiato, prima di baciarla.
La bacio a lungo e dolcemente, con la paura di potermi risvegliare e accorgermi che anche questo è solo un sogno, ma quando ci stacchiamo, dopo tanto tempo, lei è ancora qui, che mi stringe le braccia intorno alla vita. 
Il cuore non dovrebbe più pompare, eppure io sento il mio, e sento il suo, che battono all’unisono, più forti e sincronizzati che mai. Sembra che vogliano esprimere la loro felicità di ritrovarsi vicini, molto vicini. 
E io non posso far altro che inalare il suo profumo, chiedendomi come abbia fatto a non accorgermi che qualche minuto prima stavo solo sognando, perché questo è il suo profumo, questo è il suo tocco e questi sono i suoi occhi, più belli, luminosi e veri che mai. 
«Profumi di salvezza» sussurra alzandosi in punta di piedi e nascondendo il viso nella mia clavicola. 
«Associo il tuo profumo alla salvezza da quando mi hai salvata allo Strapiombo» spiega. 
E allora sono sicuro che non è un sogno, che lei c'è. Che mi sta tenendo stretto, che io la sto tenendo più stretta di quanto non abbia fatto quando eravamo insieme sul treno o per le strade della vecchia Chicago.
Non mi hai mai detto una cosa del genere, e di certo non sono abbastanza fantasioso da potermela inventare. 
Penso meglio a quello che ha appena detto. 
Profumi di salvezza. Associo il tuo profumo alla salvezza da quando mi hai salvata allo Strapiombo. 
Vorrei poterle dire che lei è la mia salvezza, lo è diventata quando le ho teso la mano per aiutarla a scendere dalla rete, dopo aver saltato per prima, ma l'unica cosa che l’emozione mi permette di dire è: 
«Ti amo, Rigida.»

  
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