Alle
ragazze a cui voglio bene.
Sì,
proprio voi.
Leiden.
Dachau,
numero 99135
PARAGRAFO 175
▪
175 Affettuosità tra uomini
I. Un uomo che ricopre un ruolo attivo o
passivo in affettuosità con altri uomini è punito con la reclusione.
II. Se nell'attività è coinvolta una persona che, all'epoca del fatto, non aveva
ancora raggiunto il venticinquesimo anno d'età, la Corte non può non emettere
una sentenza di condanna, anche nei casi lievi.
▪ 175a Gravi affettuosità (Schwere Unzucht)
La reclusione fino a dieci anni, ridotta di tre mesi
laddove ricorrano circostanze attenuanti, è comminata:
1. all'uomo che, attraverso l'uso della forza ovvero la minaccia
dell'altrui incolumità, costringe un altro uomo ad avviare un rapporto nel
quale riveste il ruolo di compagno attivo o passivo;
2. all'uomo che, abusando di una posizione di superiorità legata a servizi,
lavoro o impiego, costringe un altro uomo ad avviare un rapporto nel quale
riveste il ruolo di compagno attivo o passivo;
3. all'uomo che, compiuti i ventun anni, persuade un uomo di età inferiore
ai ventun anni ad avviare un rapporto nel quale riveste il ruolo di compagno
attivo o passivo;
4. all'uomo che offre a pagamento sé stesso per un rapporto nel quale
riveste il ruolo di compagno attivo o passivo.
▪ 175b Bestialità
La fornicazione innaturale tra un uomo e un animale è
punita con la reclusione. Può essere emessa anche una sentenza di interdizione
dai diritti civili.
Settembre,
1935
Un ragazzo, dai capelli scuri e le
occhiaie marcate di un viola opaco, fece il suo ingresso nella sala
dell’udienza, le mani legate da manette in acciaio inossidabile – che gli avevano
rovinato i polsi magri – e spinto malamente da due guardie naziste vestite con
abiti militari ed, in un certo senso, particolarmente eleganti e ufficiali, in
perfetto contrasto con i suoi stracci incrostati di sangue e maleodoranti.
Perché
sono qui?, era la domanda che Harry si era posto quando un
gruppo di uomini con un passamontagna calato sul volto lo aveva preso e
dichiarato colpevole di alto tradimento. Non aveva fatto nulla per meritare
quel trattamento meschino e crudele, se non amare incondizionatamente una
persona importante in quella vita che gli aveva dato e tolto tanto. Eppure Harry
era lì, davanti a un vecchio di oltre settant’anni con la cataratta a velargli
le iridi chiarissime – tipiche degli ariani – e i radi capelli bianchi come la
neve invernale che solitamente ricopriva la vetta del monte Nebelhorn. Questo
sedeva su un trono immenso, troppo per il suo corpicino secco e rattrappito,
davanti a una cattedra regale in legno scuro, probabilmente mogano pregiato;
teneva un blocco spesso di fogli stampati in una calligrafia sterile e pulita
stretto tra le dita rugose, chiazzate di un bianco più chiaro del normale,
segnate dall’età, mentre lo sguardo apparentemente vacuo era fisso sulla
targhetta dorata con su scritto “Giudice R. T. Scholz” , probabilmente sporca di
sangue incrostato, come il pavimento che portava ancora qualche goccia
rossastra confusa tra le crepe del marmo.
Forse era dell’uomo che era stato
lì prima di lui.
Quando il signor Scholz parlò,
Harry era stato obbligato a inginocchiarsi, nonostante le ossa rigide fossero
doloranti, e le articolazioni urlanti per quei giorni passati chiuso in una
cella puzzolente e sozza, steso a terra e obbligato al silenzio più assoluto.
La voce gracchiante e anziana che uscì dalle labbra rugose e avvizzite del
vecchio lo avrebbe fatto ridere se fosse stato ancora un comune abitante di
Oberstdorf – città quasi al confine con l’amata sorella Austria. Harry poteva
ancora sentire la risata di Louis risuonargli nelle orecchie, lontana, ma
ancora cristallina e dolce, quasi rassicurante in tutta quella disperazione,
solitudine, desolazione. In tutta quella sofferenza gratuita.
«Harold Edward Styles» enunciò
Scholz, con aria ufficiale, il labbro inferiore leggermente tremulo che però
non modificò la fierezza delle parole. «è giudicato colpevole di alto
tradimento. Lei è stato aggiunto alla lista del comandante delle Squadre di
Protezione, Heinrich Himmler, capo dell’Ufficio
Centrale del Reich per la Lotta all’Omosessualità e all’Aborto. Le accuse
sono relative alla violazione del Paragrafo 175 del nostro Codice, il quale
vieta l’affettuosità tra uomini in ogni forma, soprattutto però quella relativa ai rapporti omosessuali.»
Harry si morse il labbro con
prepotenza, sentendo il sangue scorrere piano nella sua gengiva. Serrò le
palpebre, il sapore ferruginoso lo disgustò, insieme al ricordo del sangue vivo
e rosso che aveva visto uscire dalla sua carne stanca a forza di bastonate il
giorno prima, rinchiuso nella sua cella buia e fredda. Essere stato condannato
per omosessualità non lo aveva sconvolto perché prima o poi sapeva sarebbe
successo, sapeva che lo avrebbero stanato; lo aveva sconvolto la violenza delle
SS, il divertimento dipinto nei loro occhi, l’odio, l’intolleranza.
«Pertanto, se lei non negherà la
sua omosessualità davanti a questa Corte, verrà punito con la pena massima. Ha
qualcosa da dire in sua discolpa, signor Styles?»
Finalmente, gli occhi verdi e
pungenti di Harry si aprirono e guardarono l’uomo vecchio e nerboruto che lo fissava
con disgusto e disprezzo. Era la rappresentazione standard degli sciovinisti
altolocati, che amano giudicare e puntare il dito, e godono nell’altrui
sofferenza senza provare emozioni. Preso dalla totale indifferenza – nata dalla
consapevolezza che per lui ormai era finita – sputò a terra, il riccio, proprio
ai piedi di uno dei comandanti delle SS che aveva davanti e infine sorrise,
amaro e compiaciuto, nonostante dentro avesse paura.
Nonostante il suo cuore tremasse e
sussultasse a ogni rumore.
Il calcio di un fucile colpì forte
la sua nuca, e fu costretto ad abbassare il capo per il dolore acuto che
pervase e inibì la sua mente.
«Bene.» sentenziò Scholz, un tono
di voce apparentemente compiaciuto all’idea di poterlo condannarlo. Per lui,
Harry non era altro che un detenuto, lì soltanto per grazia e che occupava una
cella in più. «Il signor Harold Edward Styles verrà trasferito con effetto
immediato a Dachau, nel campo di lavoro, e lì resterà fino alla morte. Verrà
marchiato con un numero, la sua mancanza di rispetto verrà punita severamente e
il suo operato verrà valutato costantemente, e se egli sarà inconcludente,
verrà terminato immediatamente. L’udienza è conclusa. Heil Hitler!»
____________
Mio amato Louis, cuore mio,
per quanto la mia fede sia in bilico ora che mi trovo all’inferno dei
sospiri e delle speranze, ogni giorno ringrazio questo Dio crudele per aver
salvato te dall’ingiustizia. Le mie gambe tremano al ricordo di quella notte,
la fortuna ha assistito te, proteggendoti dalle mani sporche di sangue dei
nazisti, che un tempo erano i fratelli più cari che avevamo, prima della morte
del nostro compagno Röhm* – che egli riposi in piace.
In questa stanza, con almeno cinquanta persone stese nei letti sopra,
sotto e affianco al mio, la solitudine mi attanaglia lo stomaco. Non riusciamo
a dormire, i letti sono fatti solo di legno decomposto e questo posto puzza
fino a sfinire il nostro olfatto, ormai debole e insensibile.
Mi manchi Lou, e mi sento completamente solo in questo mare di
disperazione. Sono abbandonato a me stesso; siamo cinquanta uomini nella stessa
stanza che camminano come morti senza linfa vitale, troppo sofferenti per
davvero renderci conto che giorno dopo giorno un pezzo di noi si stacca,
distruggendoci pian piano.
Siamo in cinquanta, ma ciascuno fa per se stesso.
Da un paio di giorni mi chiamo 99135, hanno tatuato questi numeri sulla
mia pelle e non ho altro che questo a ricordarmi chi sono ora. Una volta, la
tua voce pronunciava “Harry” con una tale fluidità da lasciarmi il fiato corto.
Amavo tutto quello che dicevi, in realtà, ma il mio nome era qualcosa di
meraviglioso quando erano le tue labbra a muoversi per dirlo e tutt’ora tiene
vivo il ricordo della mia identità, che sembra volersi dissipare ogni giorno
che passa; che sembra volersi annullare per non sopperire a tutta questa
nostalgia.
Ricordo così bene il nostro ultimo viaggio in macchina che se chiudo gli
occhi posso ancora immaginarmi nell’abitacolo, al posto del passeggero, vicino
a te che profumavi di gelsomino. Mi urlavi sempre che ero il tuo fiore più
bello, quello autunnale che cresce nell’arida sabbia, o nel cemento, come uno
scherzo della natura che si batte per la sopravvivenza; vorrei essere il tuo
fiore anche qui, Louis, tra le macerie delle persone che muoiono ora dopo ora e
tra i frammenti di passato che gli zombie sotterrano, ma inevitabilmente anche
io sto appassendo, nonostante il mio amore per te in qualche modo rinvigorisca
parte dei miei sensi. Ringrazio che non sia tu qui ad appassire per me, perché
non lo meriti, non meriti il dolore della pelle strappata, delle ossa a pezzi,
del cuore ferito e a brandelli. Ringrazio ogni giorno perché tu vivi e sarai i
miei occhi, le mie orecchie, le mie mani e toccherai, guarderai e sentirai per
me d’ora in poi, perché io sono con te in ogni momento di ogni giorno, con il
pensiero.
Ti amo come i raggi del sole amano i più belli, quelli come te, dagli
occhi azzurrissimi, screziati e impreziositi da striature di un colore più
chiaro dell’oro fuso. Amo la tua pelle come la luna ama le sue stelle che la
accerchiano per farla sentire meno sola nonostante la sua immensità. Amo il tuo
collo lungo e magro, le vene leggere che formano un percorso infinito sotto il
velo roseo e fino come la seta. Amo le tue mani grandi, le tue dita affusolate
che ricordo ancora sui miei fianchi quando ci baciavamo; posso ancora sentire
il tuo tocco leggero e amorevole, per nulla pretenzioso o troppo bramoso.
Vorrei averti qui, egoisticamente, ma sono felice che tu non ci sia.
Spero tu abbia avuto il coraggio di partire per sempre; questo posto non
fa per te, come non fa’ per me, non fa per noi. Spero tu sia scappato lontano
da tutti, dai nazisti, dai ribelli, da chiunque insegua ideologie carnefici e
un odio irrazionale per tutto ciò che è amore e che cresce con spine – deboli,
ma pur sempre spine in grado di difendersi.
Il ricordo di te mi aiuta ad andare avanti ogni giorno, nonostante sia
difficile, nonostante sia straziante.
Una voce alta e seccante,
maleducata, urlò che era ora di alzarsi dal “letto” e andare a lavorare. A
malincuore, Harry nascose i fogli di carta che era riuscito a rubare in quei pochi,
ma lunghi giorni di reclusione e il carboncino ridotto a un mozzicone dentro a
una trave rotta del muro. Scrivere era l’unica cosa che poteva fare per non
perdere se stesso, e scrivere a Louis era l’unica cosa che poteva fare per non
perdere i suoi ricordi più belli e cadere nella disperazione più totale.
Con una spinta, Harry scese dal suo
giaciglio, i soliti vestiti sporchi e nauseanti addosso che ormai puzzavano di
sudore, sangue secco e fumo.
Il giorno in cui era arrivato era
stato pestato con venticinque bastonate di benvenuto, alle quali era sicuro non
sarebbe sopravvissuto visto il dolore che si irradiava lungo la schiena, le
braccia e le gambe, esili dopo la malnutrizione della sua prigionia.
Venticinque bastonate, dolorose come nemmeno suo padre – prima di morire –
aveva osato dargli, ma il male più grande fu la sensazione di impotenza,
l’incapacità di reagire a tutto quello, la debolezza e la sottomissione
involontaria. Era stato rasato, subito dopo, e i suoi ricci scomparvero insieme
a parte dei suoi ricordi – quelli in cui Louis lo accarezzava per ore,
innamorato della sua testa castana e morbida.
Seduti
nella radura più bella e fiorita di tutta Oberstdorf, Louis e Harry parlavano
con complicità, immersi nei loro pensieri più semplici, puri e incontaminati
dalla guerra e dall’odio puritano che si stava diffondendo in quel periodo. Non
c’erano nazisti attorno a loro, le cose scivolavano addosso all’amore
semplicemente meraviglioso e incondizionato che stavano coltivando con
dedizione, ma soprattutto non c’era aridità e tristezza nei loro cuori che
traboccavano di sentimento.
Louis
era una di quelle bellezze che non si dimenticano. Lui e Harry si conobbero in
un bar dove spesso gli omosessuali segretamente – ma non troppo –
s’incontravano per passare una serata in compagnia, per sentirsi meno soli.
Harry stava bevendo un bicchiere di vino rosso, mentre parlava animatamente con
un uomo sulla quarantina, direttore del giornale locale e fidato sostenitore
dell’ideologia nazista contro gli ebrei – prima della caduta di Röhm. Proprio
di quello stavano discutendo, quando Louis entrò con grazia dalla porta in
compagnia di una ballerina di Charleston, vestita con un abitino nero, una piuma
che svettava dalla fascia che le stringeva il capo coperto di capelli biondi
accuratamente acconciati. A Harry però non importava nulla della ragazza,
probabilmente sulla ventina, che si atteggiava sul bancone del bar flirtando
con la cameriera; a Harry, l’unico che gli importava, era l’uomo dai capelli
castani accuratamente laccati, con la riga a destra, il viso magro dalla pelle
chiara rilassato e sorridente, bellissimo.
Harry,
disteso con la testa sopra le gambe del suo amato in quella radura, non poteva
evitare di pensare che Louis era bello proprio come mesi prima, in quel pub
così frequentato. Aveva amato subito le rughe d’espressione che gli contornavano
il volto magro e spigoloso, i capelli solitamente curati erano di un castano
che gli ricordava il tronco degli alberi, mentre la pelle liscia era chiara,
splendente sotto il sole di cui raccoglieva i raggi. Era meraviglioso, ma tutta
quella bellezza facevano da cornice a una bellezza ancora più grande: i suoi
occhi grandi e aperti erano di un azzurro seducente, intrigante, e Harry ne era
attratto con ogni sua cellula, con ogni suo senso. Quel colore chiaro gli
ricordava il lago della baita in cui passava tutte le estati con sua sorella
Gemma e sua madre Anne, nella casa di sua nonna che, malata da tempo immemore –
che lo pregava di lottare per ciò che riteneva più giusto. Quel pozzo
cristallino era così nitido da ricordargli l’emissario che passava per
Oberstdorf, e giurava di poterne vedere i fondali da quanto quelle iridi erano
limpide e liquide.
In
quel pub, Harry si era innamorato di Louis per quegli occhi, striati da
pagliuzze più chiare, belle da farlo impazzire.
Con
spensieratezza, in quella radura verdeggiante, meravigliosa e fiorente, Harry
era steso sulle gambe di Louis che distratto gli accarezzava i capelli stretti
in una corona di margherite, primule e genziane. Glieli accarezzava dolcemente,
passando le dita tra i ricci morbidi che profumavano di primavera e sapone
fatto in casa, belli come non ne aveva mai visti. Occhi negli occhi, parlavano
in silenzio del loro amore, se lo raccontavano senza bisogno di dire nulla, a Harry
e Louis bastava guardarsi per capire che quel legame non aveva nessun’altro
nome che il loro.
Erano
uomini che nutrivano sentimenti leciti che non erano riconosciuti. Le dita
delle loro mani libere si intrecciarono calorosamente sotto quel cielo limpido
e senza nuvole, che prometteva nient’altro che il sole più caldo.
Dopo l’ingresso, la rasatura, la
violenza psicologica e la procedura standard, era stato marchiato. Il suo nome
era scomparso insieme alla sua identità. Harry Styles non era più Harry Styles,
era scomparso insieme a quel poco in cui sapeva di potersi riconoscere; da quel
momento, Harold Edward Styles era stato rimpiazzato con il numero 99135,
scritto sul braccio in una calligrafia secca, sotto la pelle chiara e una volta
meravigliosamente morbida e pulita.
Erano passati solo sei giorni e già
si sentiva stremato dalle continue punizioni che riceveva. Nonostante ci fosse
di molto peggio, Harry era stato picchiato e malmenato con bastoni e frustini
per la sua lentezza, per i cedimenti continui delle sue gambe stanche, per i
suoi secondi di riposo, per le sue flebili richieste di acqua e sostentamento.
Mangiava un pezzo di pane e un bicchier d’acqua due volte al giorno e non gli
bastava. Viveva di ricordi e cercava di nutrirsi di quello, perché Louis era
tutto ciò ci cui aveva bisogno nei suoi momenti di tristezza, nella solitudine,
nella disperazione.
Quando Harry uscì dalla baracca
numero 16, la puzza di carne bruciata che usciva dalla fornace a pochi
chilometri da lui infettava il suo ossigeno impedendogli di respirare. Quella
situazione era invivibile e Harry non era a suo agio lì. Ricordava a malapena i
prati verdi di casa sua e provava nostalgia per l’aria di montagna, pura e semplice,
meravigliosamente fresca.
Il calcio di un fucile colpì il suo
polpaccio e un dolore sordo si irradiò lungo il muscolo.
«Al lavoro, frocio!» gli urlò un
soldato delle SS, guardandolo e deridendolo con il suo compagno che lo
affiancava qualche centimetro da lui. La loro bellezza stava solo nei vestiti
che indossavano, i loro visi deturpati dalla guerra erano lindi e puliti, ma
inguardabili. Nonostante la rabbia, Harry abbassò lo sguardo, orripilato, e
fece ciò che gli era stato ordinato.
Camminò verso il resto del gruppo
in direzione della fabbrica, e iniziò a trasportare i blocchi di metallo da
fondere pesanti mezzo quintale. Era un lavoro estenuante, la struttura era
calda oltre l’inimmaginabile e lui indossava i soliti abiti, con le maniche
lunghe e i pantaloni lunghi di una stoffa ruvida come il velcro. La sua mente
vagò, come faceva sempre; il suo corpo agiva come un automa mentre prendeva
spostava, camminava e appoggiava.
La
mano di Harry si intrecciò a quella morbida di Louis, aperta e rilassata lungo
il fianco. Era una bellissima mattina di marzo e stavano camminando lungo un
sentiero ripido, in direzione di una steppa rigogliosa dove poter fare un
picnic in tranquillità, lontano dagli sguardi indiscreti e indagatori. Louis
teneva saldamente il cesto stretto nella mano destra, mentre la sinistra era
legata a quella del ricciolino che non sembrava per nulla a suo agio in quella
stradina rocciosa e – forse – piuttosto pericolosa visto il suo poco equilibrio.
«Se
cado io, cadi anche tu.» gli ricordò stizzito Harry, quando questo lo vide
ridere. Come sempre quando metteva in mostra i suoi bellissimi denti bianchi
come perle e con i canini aguzzi, perfettamente dritti, il cuore del più
piccolo rimbalzava nel petto. Harry era terribilmente innamorato e tutto quello
gli sembrava nuovo, bello da morire, ma surreale; quella complicità apparente,
la sensazione di completezza era appagante. Non sapeva cosa fosse l’amore,
prima di Louis. Harry aveva conosciuto uomini senza mai provare nient’altro che
un leggero interesse. Louis era stato un fulmine a ciel sereno, che coglie di
sorpresa, ma illumina il buio più totale.
Il
maggiore si fermò e si girò verso Harry, slegando l’intreccio delle loro dita e
risalendo lungo il suo braccio con l’indice. Il riccio rabbrividì a quel
contatto, ma forse furono le iridi fredde come l’acqua del mare, ma calde e
sensuali come poche, a scuoterlo. Il palmo della mano di Louis accarezzò il
collo longilineo di Harry, memorizzandone la bellezza, il colore della
carnagione, la morbidezza. «Allora cadremo insieme e faremo l’amore fino al
crepuscolo.» sussurrò, avvicinandosi alle labbra di Harry e posandovi con
leggerezza le sue, pallide e leggermente screpolate. I loro cuori batterono
all’unisono in un tumulto di emozioni in tempesta, creando un ritmo che urlava
i loro nomi a squarciagola.
Era
stato un bacio semplice, uno sfioramento minimo e lieve, ma era bastato a
entrambi per sentirsi meglio, sereni come mai prima di allora e forti
abbastanza poter superare ogni cosa, ogni brutto momento, ogni difficoltà.
Insieme avrebbero potuto fare tutto e Harry, solitamente debole e remissivo, si
sentiva un miliardo di volte più forte, in grado di dominare ciò che lo
sottometteva, e sottomettere ciò che lo faceva sentire inetto.
Un colpo di frusta e Harry cadde a
terra. Sbattè violentemente l’osso del fianco sul cemento ed ebbe la sensazione
che qualcosa dentro di lui si spezzasse, ma forse fu soltanto un altro
frammento dei suoi ricordi che gli veniva strappato via da quel posto orribile
e senza Dio.
«Più veloce!» gli urlò uno dei supervisori,
la frusta adagiata lungo il pavimento e sporca di sangue. La schiena gli
bruciava terribilmente, era certo che quell’arma gli avesse tranciato i vestiti
e la pelle diafana.
Harry si alzò, nonostante la
sofferenza, le lacrime che ormai non riusciva a versare più e il dolore più
acuto. Si fece coraggio, ricordandosi di quell’amore fortificatore che lo aveva
fatto sentire più forte, rinvigorito, e ricominciò a lavorare, la mente
nuovamente persa nei suoi ricordi.
____________
Quando ritornò alla baracca, Harry
si sentiva troppo stanco perfino per dormire. Le articolazioni gli dolevano
incredibilmente, mentre sentiva la pelle strapparsi dalla carne, gli occhi
asciutti e la pancia in subbuglio per la fame e la nausea.
Nuovamente, Harry prese da sotto la
trave di legno la lettera a Louis e il carboncino. L’unica cosa di cui aveva
bisogno era scrivere ancora un po’ del suo amore eterno, nella speranza che gli
tornasse un po’ di forza per il giorno successivo, nella speranza che le sue
preghiere si esaudissero e la vita dell’uomo che amava fosse migliore della sua
in quel momento buio che era il capolinea.
Ricordo ancora quando mi baciasti la prima volta. Eravamo al mare, avevi
guidato per ore intere pur di andarci, con me. Zayn e Liam sedevano nei posti
dietro, si baciavano come amavano fare e noi li guardavamo con la coda
dell’occhio, un po’ imbarazzati, ma invidiosi di tutta quella naturalezza.
Ricordo che giocammo tutto il giorno a volano sulla sabbia, mentre Liam
faceva l’amore con Zayn sul bagnasciuga lontano da noi e dai nostri sguardi.
Erano belli come il tramonto che in quel momento colorava le loro pelli
variegate, le riempiva di sfumature chiare e scure, di ombre e luci
spettacolari che giocavano con nostri occhi. Fu lì, nel crepuscolo, quando il
giorno si incontra con la notte, che mi baciasti, sopra a uno scoglio nelle
rive del Mar Baltico. Mi guardasti con gli occhi azzurri pieni di un amore sciocco
e sconsiderato, ma giusto per noi, perfetto, e posasti le tue labbra sulle mie,
con sicurezza, senza tentennamenti, perché sapevi che era la cosa giusta da
fare.
Fu il momento più bello della mia vita, Louis. Questo ricordo non
riusciranno a portarmelo via perché tutto quell’amore non si dimentica, e io –
che nella mia infanzia di amore ne ho avuto poco – mi crogiolo in esso anche
ora.
Soprattutto ora.
Ringrazio Dio ogni giorno, nonostante io sia certo che Dio non mi veda
qui; lo ringrazio comunque perché sei salvo, lontano dall’orrore. Ringrazio
Dio, Josh e Niall ogni giorno perché ti hanno salvato senza pensarci due volte.
Ringrazio Zayn e Liam che si sono sacrificati per noi quella notte, prima della
cattura; ringrazio che tu sia a casa, o in qualunque altro posto, ma non qui.
Gli occhi di Harry bruciarono al
ricordo dei suoi amici e di quella notte, la notte della loro cattura.
Era stata una serata bella come molte
altre, passata tra risate e baci dati di sfuggita, lontani da occhi indiscreti.
Louis e Harry, insieme a Liam, Zayn, Niall e Josh avevano giocato insieme a
calcetto nel parco vicino alla chiesa per poi uscire a bere una birra e
festeggiare la vittoria incontrastata di Louis, Harry e Josh, i soliti
esaltati, amanti del calcio e tifosi assidui. Niall e Josh quella sera avevano
litigato; non si parlavano nonostante quest’ultimo cercasse in ogni modo di
baciare le labbra del biondino, più piccolo di età, ma più alto di statura.
Erano belli insieme, anche se
teneramente sbadati. Niall, timido con il suo viso angelico, ariano proprio
come i canoni standard tedeschi stabilivano, dalla pelle diafana e le guance
tonde, belle da morire, rosse come le labbra piene, era perfetto per Josh, un
uomo ormai vissuto – ma allo stesso tempo bambino – nonostante i sui ventidue
anni, estroverso e altrettanto meraviglioso con i capelli castani, gli occhi
chiari e la bocca fina, pallida. Portava con sé le sue medaglie di guerra, che
sfoggiava spesso quando cercava di flirtare con Niall, il quale cedette senza
troppi ripensamenti. Il loro amore nacque per caso in febbraio; si conoscevano
da amici di famiglia quando ancora Niall aveva otto anni e Josh undici, ma si
persero di vista quando scoppiò una faida tra le madri dei due ragazzi. Si
rincontrarono nella biblioteca di Oberstdorf undici anni dopo e passarono
l’intero pomeriggio a discutere del sciovinismo tedesco e di Röhm, capo delle
SA e comandante in seconda di Hitler, capo del plotone di Josh. Cominciarono a
conoscersi così, dopo un incontro dettato dal destino, amandosi con solo gli
occhi – all’inizio – e poi con il corpo.
Non era dato sapere per quale
motivo stessero litigando. Louis era buono, Harry lo pensava da sempre quando
lo guardava, e cercava in ogni modo di farli riappacificare, scatenando nel
riccio gelosia mista a divertimento. Mentre loro quattro giocavano a fare
Cupido – tra battute di scherno e risate –, Liam e Zayn erano nel loro mondo,
come sempre.
Per Zayn non esisteva altri che
Liam. Il loro amore era qualcosa d’indecifrabile, molto più silenzioso e
discreto, molto più intimo di quanto non fosse quello di Louis e Harry. Se
l’amore tra Josh e Niall era chiassoso, fatto di uno scherzare continuo, giocoso
– proprio come era Josh, un bambino cresciuto – e sereno, quello tra Zayn e
Liam non contava parole, né giochi. I loro sguardi erano qualcosa che nessuno
era in grado di capire; chiunque li osservasse attentamente per dei minuti
interi, provava imbarazzo, disagio, perché il loro legame era indissolubile e
inesplicabile, qualcosa che non poteva essere spezzato o rotto. Ogni volta che
Harry vedeva Liam accarezzare la pelle leggermente ambrata di Zayn, anche solo
uno sfioramento leggero, il cuore gli doleva sofferente, colpito dall’affetto
disperato che sembrava avvolgerli stretti, con catene troppo forti. Vivevano la
loro passione con la consapevolezza che tutto quello non sarebbe durato per
sempre, che i momenti belli andavano vissuti fino infondo, con l’unica persona
che si ama veramente, per questo erano in sei, ma in realtà vivevano come se
fossero stati in due; anche in mezzo ad una folla esistevano solo Liam e Zayn,
che amavano senza limiti o vincoli.
Quella sera uscirono dal bar tutti
insieme alle due di notte, i muscoli a pezzi, ma soddisfatti, le labbra
lievemente tumefatte per i baci dati di nascosto negli angoli bui del locale.
Camminarono per un paio di minuti lungo il viale buio dove spesso le prostitute
dormivano quando pioveva, diretti alla Volkswagen di Louis e alla Fiat di Josh.
Successe tutto così velocemente che
Harry non ebbe il tempo di assimilare. Meno di dieci uomini uscirono da un
furgone scuro e presero Zayn per le spalle e lo gettarono a terra, bastonandolo.
Liam urlò e cercò di colpirli e difendere il suo uomo, mentre Harry, preso dal
panico, si raggelò sul posto; anche lui venne buttato a terra, mentre Louis si
dimenava tra le braccia di Niall e Josh che lo trascinavano via da quel vicolo,
inseguiti anche loro da altre guardie che fortunatamente riuscirono a seminare.
Steso in quel letto della baracca,
Harry si rigirò ricordando il dolore dei copi, le urla strazianti di Zayn, i
gemiti di Liam nel sentire il suo uomo soffrire così tanto. Erano stati portati
via dopo un’ora di pestaggio in quel viottolo buio, stretto e maleodorante.
Zayn non era mai arrivato al campo
di Dachau; era stato ucciso il giorno prima, dichiarato inutile per il suo
cuore debole e la malformazione ai muscoli che sembrava progredire velocemente.
Liam invece era arrivato con Harry, ma era uno zombie e il secondo giorno si
era lasciato morire in uno dei vicolo del lager, dopo una fustigazione troppo
dura per aver disubbidito agli ordini del comandante. Harry non aveva lacrime
per piangere, non aveva altra forza se non quella che usava per prendere i cubi
di metallo da mezzo quintale e trasportarli; non provava pena per lui, solo
rispetto e felicità: Liam aveva smesso di soffrire, e avrebbe rivisto il suo
Zayn in un posto migliore di quello.
Quel destino non spettava ancora a
Harry, che in quei pochi giorni era stato punito e frustato. Non era ancora
pronto a morire, nonostante dentro di lui fosse già morto; nonostante il suo
cuore battesse solo per i ricordi di Louis che amava perdutamente, senza
riserve.
____________
Seduti
nella coperta di lana grezza, Harry e Louis mangiavano una mela, rossa come le
loro guance sotto il sole del meriggio. Occhi verdi su occhi azzurri, una
prateria immensa che si scontra con il cielo in una linea orizzontale perfetta,
compatibile come un puzzle. Era stato il loro giorno più bello forse, passato
in totale tranquillità per conoscersi e approfondirsi – come se non l’avessero
mai fatto prima di allora.
«Ti
piacerebbe andartene da qui, Harry?» gli chiese Louis con tono carezzevole,
mentre disegnava un cerchio sul palmo liscio del riccio seduto al suo fianco.
Harry
morse la mela e sorrise, annuendo emozionato. Aveva gli occhi di un bambino,
glielo dicevano sempre; brillavano di una loro luce, di un’ingenuità pura e
vera, e forse a Louis piacevano perché ogni volta si avvicinava a baciargli le
palpebre, come se quel gesto potesse andare oltre la pelle sottile e raggiungere
quel verde spensierato che gli trasmetteva speranza.
E
lo fece anche quella volta: Louis si sedette sopra Harry, le gambe a
circondargli le cosce magre, e gli prese il viso tra le mani morbide. La
bellezza di quell’uomo dagli occhi azzurrissimi come il Lech era disarmante e
il cuore di Harry prese a palpitare forte e prepotente, come pugni mirati a
fargli perdere il respiro. Le labbra morbide di Louis si posarono sulla
palpebra destra di Harry, che in un gesto involontario prese ad accarezzare i
suoi fianchi torniti, coperti da un paio di pantaloni di tela; poi Louis gli
baciò la palpebra sinistra, senza esitare, ma indugiando più del previsto su
quella piccola porzione di pelle che a quel contatto aveva cominciato a
scottare.
La
bocca di Louis scese piano lungo le guance calde di Harry che il sole aveva
colorito, e poi baciò quella bocca fresca che sapeva di mela e di lui. Fu un
bacio semplice, leggero, che bloccò definitivamente il respiro irregolare del
riccio. Le dita di Louis gli strinsero i capelli dietro la nuca e lo
avvicinarono a sé, bramose di qualcosa di molto più intimo, vero, sincero. I
boccioli di Louis si schiusero e con essi anche le labbra di Harry e quel bacio
si fece più intenso, trasformandosi in uno strusciarsi lascivo di lingue,
creando un sapore che inebriò i sensi di entrambi; ogni volta era come la prima
per loro che vivevano quell’amore come qualcosa di sacro. Si erano trovati, per
il caso o per il destino, e tutto quello che stavano passando si imprimeva
indelebile sui loro corpi che ancora erano territorio inesplorato.
Quando
si allontanarono dopo uno schiocco sordo, si sorrisero, sinceri.
«Amami
come se fosse l’ultima occasione che abbiamo per sentirci vivi.» sussurrò Harry
sulla bocca del maggiore che lo guardò, con gli occhi di non aspettava
nient’altro che quelle parole da quelle labbra.
Fecero
l’amore con una passione che non avevano mai provato. Harry fu travolto dalle
sensazioni, dal dolore misto al piacere più grande, immenso, che minacciava di
implodergli nel petto con tutta la forza che possedeva. Le mani di Louis si
prendevano cura di lui con delicatezza e dedizione, lo guardavano come se fosse
l’oggetto più prezioso, la cosa che gli era più cara; lo accarezzava senza mai
trascurare i dettagli del suo corpo, lo baciava dove sapeva voleva essere
baciato, e Harry impazziva, gemeva… Piangeva per la gioia più sincera,
sentendosi troppo piccolo per contenere tutto quell’amore.
Raggiungere
insieme il nirvana fu meraviglioso: i loro visi contratti dal piacere, gli
occhi liquidi per le emozioni più intense, le loro pelli nude, calde, appagate.
Si
accoccolarono, dopo aver fatto l’amore in quella steppa rigogliosa, all’ombra
di un cipresso e nel caldo del meriggio.
Quando Harry si svegliò, come al
solito molto prima dell’alba, sentì il cuore straziato dal dolore. Il ricordo
di Louis in quel prato, su quella coperta, era forse l’unico che non aveva
intenzione di riportare in superficie, ma contro la sua volontà esso si era
fatto largo tra le altre memorie, cercando la luce nel suo sogno.
Nonostante l’ora, Harry non provò
nemmeno a tornare a dormire. Si sedette, la schiena appoggiata al muro in legno
da cui aveva estratto i fogli di carta e il carboncino.
«I fantasmi tolgono tutto.»
sussurrò una voce greve, rompendo il silenzio. Harry alzò il capo, spaventato e
sorpreso. L’uomo che parlò aveva un accento italiano e ostentava un tedesco
grezzo e poco curato, ma comunque comprensibile. Nella penombra poteva vederlo,
era nella colonna di letti davanti a lui, un piano più sotto; era steso a
pancia in giù, il braccio che penzolava nel vuoto e la testa rasata – ma da cui
era visibile il nero dei capelli che stavano crescendo – rivolta verso di lui.
«Il passato ti toglie tutto quando sei qui dentro. Devi dimenticarti chi eri.
Ricordati che sei una macchina, per loro.»
Dette quelle parole, l’uomo si
girò, dandogli le spalle. Harry non volle replicare, perciò prese i fogli e
iniziò nuovamente a scrivere.
Ricordarmi di te è l’unica cosa che mi rende ancora un po’ vivo, è
l’unica cosa che mi aiuta a rimanere attaccato alla realtà, a non lasciarmi
andare completamente. Liam ha ceduto a tutto questo perché ha perso Zayn,
l’unico uomo che credeva di poter amare, ed è stato meglio così. Il loro amore
era cieco, molto più del nostro forse, lo ricordi? Ricordi quanto si amavano?
Tu sei l’unica cosa che ancora mi tiene attaccato alla realtà.
Ti ho sognato mentre facevamo l’amore stanotte e il mio cuore si è
incendiato di passione. Non sono un poeta, non sono come te, Lou, che con le
parole sai scuotere chiunque, perfino la stessa pietra fredda, ma questa notte
mi sentivo di poter poetare per te e solo per te, perché quel giorno era
perfetto per noi e riviverlo – per quanto orribile – mi ha fatto capire ogni
cosa.
Io ti amo, Louis. Con ogni
parte di me, ti amo profondamente e senza limiti. Ti ho amato quando entrando
in quel bar mi offristi da bere prima che potessi farlo io; ti ho amato quando scavalcasti
il recinto di casa mia per potermi chiedere di uscire; ti ho amato quando mi rincorresti
sotto la pioggia, dopo aver litigato quella sera, alla radura più bella di
Oberstdorf; ti ho amato quando mi regalasti una rosa rossa un mese dopo il
nostro primo bacio, nella stessa spiaggia, al crepuscolo.
Ti ho amato sempre, Louis, anche quando io stesso non lo sapevo. E se
mai leggerai tutto questo, sappi che ti amerò fino al giorno in cui il mio
cuore smetterà di battere, o la mia mente si rifiuterà di ricordare. Se cederò
davanti alla morte, ricordati che non sarà per la mancanza di amore per te, ma
perché la distanza sarà troppo straziante per me che, qui dentro, non vedo
altro che morte.
Di nuovo la voce di un soldato a
interrompere i pensieri di Harry, di nuovo l’odio cieco per quella routine
estenuante e invivibile.
Di nuovo la nostalgia e il ricordo.
Harry si alzò dal letto, come al
solito il corpo indolenzito, pronto per farsi picchiare di nuovo senza versare
nessuna lacrima.
____________
Ottobre,
1935
Le foglie secche arrivavano da chissà
dove dentro il campo di concentramento di Dachau, dove la vegetazione nei
dintorni era rasa al suolo. Le foglie morte arrivavano, si depositavano nel
suolo e venivano calpestate maldestramente da un altro tipo di foglie morte,
prive di radici già da giorni, mesi, anni.
Gli uomini e le donne sterminati
erano aumentati, come il numero dei deportati. Il fumo che Harry aveva sempre
guardato a distanza era diventato più scuro, frequente e maleodorante, ma ormai
non ci faceva nemmeno più caso.
Era passato un mese ed era morto
dentro.
Harry aveva spento la mente a metà
del mese di settembre, quando il lavoro gli aveva offuscato i ricordi fino a seppellirli,
quando le ferite e i tagli delle frustate gli avevano portato via gli ultimi
frammenti di lui.
Ormai, Harry aveva dimenticato chi
era. Camminava tra le baracche aride e desolate barcollando, rispondeva solo al
numero 99135 e ormai le offese non lo toccavano più, come anche le bastonate
non lo facevano più gemere dal dolore. Era una desolazione quel luogo, ma anche
dentro di lui c’era la desolazione più totale. Era vuoto, come il suo stomaco;
non mangiava se non quello che gli veniva concesso, nonostante non gli bastasse
mai. Il suo corpo aveva perso le curve che amava, e che qualcun altro amava al
posto suo.
Ma chi è che lo aveva amato?
Harry non ricordava più il suo
passato. Viveva nella nebbia più totale, la lucidità era scomparsa dalla sua
vita in poco tempo.
Eppure qualcuno lo aveva amato.
Qualcuno lo aveva apprezzato e aveva cantato per lui, un tempo. Qualcuno aveva
intrecciato per lui i fiori più belli e glieli aveva adagiati tra i capelli.
Ma di che colore erano i suoi
capelli, un tempo?
Come ogni giorno, Harry camminava
trasportando i soliti blocchi di metallo da mezzo quintale. Il tempo era fresco
e autunnale, non più troppo caldo e arido; era il 27 settembre ed era soltanto
mattina quando la sua schiena cedette. Era normale cadere, almeno una volta al
giorno qualcuno cadeva, e veniva frustato per questo, ma quella volta Harry
cadde definitivamente. Si accasciò a terra, incapace di rialzarsi, impotente
davanti all’evidenza: il suo corpo stremato non
poteva sopportare oltre.
Un frusciare sordo e poi uno
schiocco. La schiena di Harry si imbrattò di sangue e i vestiti si strapparono
quasi completamente. «Alzati, idiota!» urlò un soldato con il suo tedesco
impeccabile, la frusta che vibrava nella mano per il desiderio di essere usata.
«Forza, datti una mossa se non ne vuoi un’altra!»
Harry provò a fare leva sulle
braccia magre e tutt’ossa, ma la schiena non collaborò, e anche i polsi
cedettero; il mento sbattè contro il pavimento sporco di polvere e detriti, ma
niente gli fece male quanto la seconda frustata che passò sopra il taglio
fresco che la prima gli aveva lasciato.
Un terzo colpo e un quarto. Harry
rimase a terra, sconvolto dal dolore, ma nessuna lacrima percorse le sue
guance.
«Abbiamo una checca permalosa qui.»
lo canzonò l’uomo, passando una mano coperta dal guanto nero sulla frusta,
pulendola dal sangue di Harry, che finì a terra e schizzò sul volto smunto del
ragazzo. Il soldato si avvicinò a lui e si abbassò quasi al suo livello, così
che Harry potesse vederlo: era sulla quarantina, gli occhi chiarissimi
stridevano con il un viso deturpato, orribile e rivoltante. Quando parlò, il
suo fiato caldo sfiorò la pelle dell’orecchio di Harry, che rimase disgustato.
Poche parole, di un’eloquenza cristallina: «Ormai non ci servi più, tesoro.»
Un paio di braccia lo sollevarono
di peso. Le punte dei piedi strisciarono sul pavimento mentre veniva
trasportato nel vicolo dove di solito gli uomini venivano fucilati a sangue
freddo. In un certo senso, era stato graziato: niente frustate o bastonate, un
proiettile era più veloce.
I soldati lo misero in ginocchio,
la testa rivolta verso il muro. Harry appoggiò la fronte contro i mattoni duri
e freddi e riaprì gli occhi, che durante il tragitto aveva tenuto serrati per
il dolore che sentiva in tutto il corpo.
Rigogliosa e bella, una genziana di
un viola scuro era cresciuta tra le crepe del cemento. Un meraviglioso
spettacolo da vedere in punto di morte.
Due
splendidi occhi azzurri lo guardarono trasognato. Due mani avvolsero il suo
collo, leggere e amorevoli. «Tu sei il mio fiore più bello, Harry. Quello che
cresce nei posti più disparati. Tu sei abbastanza forte per me e per te. Ricordalo.»
Una parte della sua mente tornò
lucida e il respiro di Harry si fece più forte e prepotente, mozzato di tanto
in tanto per il dolore. Nuovamente serrò gli occhi, per poi riaprirli
nuovamente. Un volto spigoloso, bello come il sole e fresco come la primavera
invase il suo campo visivo.
Due
labbra fine, amorevoli, si posarono su quelle di Harry che sorridevano ancora
dalla felicità. Il cipresso muoveva i suoi rami sopra di loro, quasi felice di
essere stato testimone di un amore così puro e vivo, semplice. Sincero.
«Ti
amo, Harry.» sussurrò quell’angelo, la bocca davanti alla sua. «Ti amerò
sempre.»
Le dita di Harry si chiusero in un
pugno stretto. Raddrizzò un po’ la schiena ferita, rinvigorito da una nuova
forza, quella che il ragazzo di cui ancora non ricordava bene il nome gli stava
infondendo. Si strusciò per tutto il muro in cerca di un appiglio, che trovò in
un’altra crepa.
Stesi
tra i papaveri rossi e gialli, le mani abili di quel ragazzo castano, dai
capelli lunghi accuratamente acconciati in una riga a destra, intrecciavano
gambi lunghi e fini creando una coroncina di margherite.
«Amo
i tuoi capelli.» disse il suo amato, un sorriso aperto e bianco come perle, e
dopo aver appoggiato la coroncina sull’erba, passò le dita nei morbidi capelli
castani. «Amo te.»
Con gli occhi chiusi per le fitte,
Harry finalmente riuscì ad arrampicarsi fino a reggersi sulle gambe deboli.
Delle risate sguaiate giunsero
dalle sue spalle, delle battute di scherno sulla sua morte, altre sul suo amore
cieco per l’uomo che era morto un mese prima e amico suo. Liam lo avevano
chiamato.
Ma Harry era certo che l’uomo che
amava non si chiamasse Liam.
Era
sera, ormai si erano fatte le undici e seduto in quel bar, Harry si sentiva
solo. Un uomo dai capelli castani, le labbra sottili e la pelle chiara entrò
dalla porta con una bellissima ballerina di Charleston. Gli occhi azzurri
studiarono i muri variopinti del locale, i quadri di cattivo gusto e i tavoli,
in parte occupati.
Poi
si guardarono, Harry e il giovane. I loro occhi si incrociarono e si
incatenarono. Con movenze aggraziate, il nuovo arrivato si avvicinò al riccio,
il cui cuore batteva all’impazzata. «Sono Louis. Spero ti lascerai offrire un
drink, pumpkin.»
Con un gesto involontario, Harry si
portò una mano al cuore, colto di sorpresa.
Il volto spigoloso, le labbra color
cremisi che aveva baciato, i splendidi capelli castani, il collo allungato e
magro, la pelle chiara baciata da un sole meraviglioso.
Era Louis.
Ricordava finalmente le sue mani
sul suo corpo quando fecero l’amore in quella steppa infinita, sotto
quell’albero, sopra alla coperta di lana grezza. Finalmente ricordava le sue
labbra, il dolore, il piacere intenso, le lacrime di felicità e gioia, la
sensazione di pienezza e completezza.
Louis. Era Louis.
Le labbra di Harry si distesero in
un sorriso stanco, ma sincero. Alzò il volto verso il cielo e sussurrò «Louis,
amor mio.» con voce roca, di chi non parla da anni.
Non prestò attenzione a nient’altro
se non ai suoi ricordi.
Il generale smise di ridere e
ordinò al comandante in seconda di mettersi in posizione con un «Pronto a
sparare!» che però il ragazzo dagli occhi verdi non sentì, concentrato ancora
sul volto di Louis che non faceva altro che infondergli coraggio.
La testa vorticò, mentre il sorriso
si fece più largo e sincero.
«Mirare!»
Ancora una volta Harry sussurrò
«Louis.» con un trasporto che avrebbe fatto male al cuore di chiunque. Chiuse
gli occhi e rivide la spiaggia, le rive del Mar Baltico, lo scoglio in cui le
labbra di Louis incontrarono le sue. Rivide la prateria di Oberstdorf, dove le
dita di Louis lo accarezzavano amorevoli, e poi la steppa e il cipresso sotto
al quale fecero l’amore.
Il generale urlò «Fuoco!», che
Harry però non sentì. Questo aprì gli occhi per vedere il cielo un’ultima
volta, poi li richiuse immediatamente.
Vide due occhi del color della
primavera.
Un lampo di luce, prima del buio.
*Ernest Röhm era a capo delle SA, un
omosessuale. Hitler non aveva nulla contro gli omosessuali all’inizio, ma
iniziò a perseguitarli perché Röhm lo ostacolava ed era una minaccia. Perciò a
Hitler serviva un motivo per poterlo attaccare, ecco perché iniziarono le
persecuzioni durante la Notte dei
coltelli.
Note
dell’autrice.
Questa OS è storica, ma potrebbero
esserci delle inesattezze, e vi prego di passarci sopra.
Ammetto di aver quasi pianto
leggendola, e non mi ritengo del tutto soddisfatta perché volevo piangere, ma
non ho pianto. Maledizione a me.
Spero comunque vi sia piaciuta. L’argomento
mi ha ispirata molto perché la mia tesina tratta appunto di questo. Non è molto
lunga come OS, sono solita scrivere più di 15000 parole, ma questa è di poco
più di 7000, ma credo sia mille volte più emotiva di tutte le altre.
Sta a voi ora dirmi che ne pensate.
Gradirei leggere dei commenti al riguardo, sia positivi che negativi!
Colgo l’occasione per spammare le altre mie storie.
·
Close to each
other (seguito dell’OS “Seven
minutes in heaven”)
·
Skinny jeans
and tight underwear
Detto questo, grazie mille per aver
letto tutto! ♥
Vi adoro, giuro!
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Buona serata :*