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Autore: Ivola    14/05/2014    6 recensioni
Ar-dè-sia [ar'dɛzja]
s.f. {mineralogia}
Roccia argillosa grigio-nerastra che si sfalda in lastre sottilissime.
[...] Sangue. Sangue ovunque. Sul pavimento, sulle pareti, sui vetri delle finestre, su di lei. La penombra le permise di guardarsi le mani e le braccia, luride di sangue non suo. Un altro urlo le attanagliò la gola, graffiandole le corde vocali.
Non aveva trovato la luce, la via d’uscita, la via di salvezza.
Aveva trovato la morte.

[...] In un primo istante qualcosa le fece pensare – sperare – che quello fosse soltanto l’ennesimo, orribile incubo, ma col passare dei minuti quella convinzione si sgretolò.
Per quelle che sembrarono ore e ore non accadde assolutamente nulla. Il dolore ai polsi e alle caviglie aumentava con il trascorrere del tempo. Per qualche assurdo motivo, Tekla riusciva a sentire il ticchettio di un orologio lontano, la cui velocità diminuiva sempre di più, quasi come se stesse condensando il tempo, o come se questo l’avrebbe presto soffocata dopo un’angosciosa agonia.

Terza classificata al contest Watercolor indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio ⌠EFPfanfic⌡ con il prompt: le Maschere.
Genere: Angst, Dark, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Storia partecipante al Contest di Scrittura indetto dal gruppo facebook
A Panda piace fare le bolle di assenzio ⌠EFPfanfic⌡

 
 



 
Colore scelto: Ardesia {Horror, Surreale, Suspance}.
Personaggi: Tekla Kramann; Genesis Treble; Isaac R. Andersen;  vari ed eventuali.
Generi: Horror, Dark, Suspance, Surreale, Introspettivo, Angst.
Avvertimenti: Fem!Slash accennato, Violenza e altri contenuti più o meno forti, Tematiche delicate.
NdA: Il titolo si riferisce alla protagonista, Tekla. E’ un po’ una metafora/allegoria legata al personaggio e al suo essere composta da “schegge” nere, sporche, schegge che sono parte di sé e che sono i suoi incubi. Spero anche che l’utilizzo del prompt venga interpretato bene. Le “maschere” a cui faccio riferimento riguardano la presenza di Genesis Treble e della doppelgänger (per chiarimenti, qui: doppelgänger) di Tekla, e del loro continuo intromettersi nella sua vita come se volessero prendere il suo posto. 
Ultima cosa ma non per importanza: il finale è aperto ed esistono diverse interpretazioni (più o meno) di questa storia, che sta a voi elaborare. ♥  
Buona lettura!
 


 
 




 
 
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Ar-dè-sia [ar'dɛzja]
s.f.
{mineralogia}
Roccia argillosa grigio-nerastra che si sfalda in lastre sottilissime.
 
 


Un rumore simile allo sferragliare di un treno sui binari, sempre più vicino, sempre più disturbante. Nella sua testa. Qualcosa si stava avvicinando. Qualcosa che presto l’avrebbe risucchiata nel suo mondo di fantasmi e scheletri.
Arrancò nel buio, fino a sbattere contro una parete.
Dove mi trovo?, si chiese, annaspando in cerca di una via d’uscita, una via di salvezza. Non era certa che ce ne fossero, ma un po’ di speranza – quale vana e distruttrice virtù – la aiutava a non farsi prendere dal panico.
Un passo. Tenne ferma una mano sulla parete. Un altro passo. Da qualche parte la parete doveva pur finire. Un altro passo ancora. Da qualche parte doveva esserci una porta. Doveva.
Trascinò i piedi per qualche metro, che a lei parve più di un chilometro, con le spalle tremanti per il freddo e i capelli appiccicati sul collo, sulla fronte, sulla schiena nuda. Dopo altri interminabili passi, trovò la porta tanto ardentemente desiderata.
Una voce esultò nella sua testa, coprendo per un breve quanto infinito istante quel frastuono orribilmente familiare. Strinse la maniglia così forte che questa si sarebbe potuta frantumare sotto le sue dita con una pressione leggermente maggiore, la girò e spalancò la porta con un urlo di liberazione. Sì!
La delusione, tuttavia, giunse come un’onda che travolge uno scoglio in mezzo alla tempesta. Con violenza.
Un conato di vomito le ottenebrò i sensi.
Sangue. Sangue ovunque. Sul pavimento, sulle pareti, sui vetri delle finestre, su di lei. La penombra le permise di guardarsi le mani e le braccia, luride di sangue non suo. Un altro urlo le attanagliò la gola, graffiandole le corde vocali.
Non aveva trovato la luce, la via d’uscita, la via di salvezza.
Aveva trovato la morte.
 
Si alzò a sedere ancora prima di svegliarsi completamente, non smettendo di urlare per quella terribile visione. Spalancò gli occhi nel vuoto e spostò lo sguardo vitreo per tutta la stanza.
Quella era camera sua. Distinse chiaramente l’armadio bianco, la moquette sui toni del rosa, il vecchio cavalluccio di legno, la cassettiera e lo specchio sopra di essa. Da lì potè finalmente rendersi conto che si era trattato soltanto di un incubo. L’ennesimo, in poche settimane, eppure pur sempre uno stupido incubo. Si guardò di nuovo le mani, ma questa volta non c’erano tracce di sangue. Erano candide e lisce come sempre, come quando si era addormentata. Nessuno era entrato in casa sua per ucciderla nel sonno. Nessuno.
Tekla si scostò le coperte di dosso e constatò di essere incredibilmente sudata. Scese dal letto e a piedi nudi raggiunse il bagno per darsi almeno una sciacquata al viso.
L’acqua fresca arrivò come una manna dal cielo a ripulirla della sua paura. Si bagnò il viso un centinaio di volte, lasciando che l’acqua scorrese nel lavandino, andando sprecata in gran parte. Non le importava. Voleva soltanto dimenticare quelle orribili immagini di morte. Voleva soltanto che tutto le scivolasse addosso.
Quando chiuse il rubinetto, le sembrò che fosse passato un secolo. Si sentiva meglio. Di lì in poi la giornata sarebbe andata bene.
Passò nuovamente in camera sua per prendere le ciabatte, ma tutto d’un tratto, non appena varcò la soglia della porta, le sembrò di precipitare nuovamente nell’incubo. La colse un capogiro violento che minacciò di farla cedere.
C’era qualcuno, in quella stanza, qualcuno che prima c’era e non c’era al tempo stesso.
Lì, con le mani sporche di sangue non suo, un’altra Tekla Kramann le rivolse un sorriso obliquo. E una scritta, in rosso, sulla parete: “La paranoia è soltanto uno stupido stato mentale”.
 
Non ricordava di preciso quando si fosse chiusa a chiave nel ripostiglio. Sapeva solo che i suoi piedi si erano mossi da soli, rapidi, portandola nella stanza più buia di casa sua. Respirava ancora irregolarmente, non del tutto certa di quello che aveva visto nella sua camera. Aveva visto un’altra se stessa, una se stessa completamente identica a lei e al contempo completamente diversa, con un ghigno malevolo a deformarle il viso dai tratti morbidi.
Tekla era rannicchiata contro il muro del ripostiglio, con le ginocchia strette al petto, e fissava il nulla dinanzi a sé. I suoi occhi spalancati cercavano disperatamente di distinguere qualcosa di reale, qualcosa che fosse diverso dal buio. Era buio quello stava respirando, era buio quello che stava ascoltando, era buio quello che stava toccando. Era diventata una presenza costante nella sua vita e forse aveva preso forma proprio qualche istante prima, trasformandosi in una Tekla Kramann cattiva, una brutta fotocopia che desiderava soltanto farle del male.
Era così abituata al buio, ormai, che non credeva esistesse altro, che il buio fosse la cosa più reale che si potesse anche solo immaginare. Ma non poteva credere a quello a cui aveva assistito prima di rinchiudersi in quell’anfratto della casa.
Era stata un’allucinazione, non c’erano dubbi. Tekla non aveva gemelle, sorelle o parenti che potessero assomigliarle in modo così inquietante. E, soprattutto, non faceva visita al Dottor Andersen da tempo immemorabile.
Per un impulso repentino, decise di alzarsi in piedi di scatto. Quante ore era rimasta chiusa lì dentro? Quando uscì, Tekla si accorse che era l’alba.
Un giorno intero. Un giorno intero nascosta dal mondo, un giorno intero senza cibo e senza luce. I raggi che filtravano dalla porta-finestra del salone quasi la accecarono.
Che misera vita, la sua. Passata ad essere l’amante del buio e la nemica della luce.
Si coprì lievemente gli occhi con una mano, perché il sole le stava abbagliando. Soltanto dopo qualche secondo si rese conto che la stessa frase scritta dalla Tekla cattiva in camera sua adesso era scritta sui muri di tutta la casa.
 
« Appena ho varcato la soglia della porta sono rimasta terrorizzata, più di quanto lo fossi nel mio incubo » disse Tekla, stringendo i braccioli della poltrona per controllare il tremito convulso delle sue mani. « Ho trovato un’altra me! »
Il Dottor Isaac R. Andersen la guardò negli occhi, con le mani intrecciate vicino alla bocca. « Un’altra… lei, signorina Kramann? »
« Esatto » pigolò la ragazza. « Stava scrivendo sul muro con il sangue, poi si è voltata e mi ha guardato con un sorriso… inquietante. Voleva farmi del male. Me ne avrebbe fatto, se non fossi corsa a chiudermi nel ripostiglio. »
« Cosa aveva scritto sul muro, signorina Kramann? » domandò l’uomo, continuando ad osservarla.
Tekla tentennò. « La paranoia è soltanto uno stupido stato mentale. »
« E lei non crede che fosse solo un’allucinazione? »
« Lo credevo. Ho provato a crederlo, davvero » spiegò la più giovane, « ma quando sono uscita dal ripostiglio ho trovato la stessa scritta sui muri di tutto il salone… e del corridoio… ma l’altra Tekla era sparita. »
Il Dottor Andersen si appuntò qualcosa su una cartellina. « L’ultima visita risale a più di tre mesi fa, se non sbaglio. Come mai non è più venuta, signorina Kramann? Lei ha bisogno di parlare, oltre che delle pillole. »
« Io… in realtà… » balbettò Tekla, incapace di guardarlo negli occhi come stava facendo lui. « Non avevo gli incubi da un bel po’ di tempo e pensavo che fosse tutto finito… »
Quanto mi ero sbagliata, aggiunse, nella sua testa.
« Purtroppo deve combattere ancora un altro po’ » fece il dottore, con tono costernato. « Vedrà, però, che migliorerà molto presto. Deve solo scacciarli. Come si fa con un ospite indesiderato. »
Ecco il segreto.
Scacciarli.
Come un ospite indesiderato.
 
Tekla stava molto meglio. Aveva ricominciato a prendere le pillole da circa una settimana e in quel momento sembrava andare tutto a gonfie vele. Le scritte sui muri di casa sua si erano come dissolte nel nulla, non lasciando nemmeno una traccia dell’accaduto. Gli incubi c’erano sempre, ma non erano spaventosi come i vecchi. Con un po’ di pazienza, si potevano sopportare.
Aveva seguito il consiglio del Dottor Andersen, aveva imparato a scacciarli, a domarli, a farli diventare la sua corazza. A renderli meno reali.
Eppure, nonostante Tekla si stesse facendo forza per tentare di sconfiggerli del tutto, ne aveva ancora paura. C’era ancora quella vocina che si insinuava nella testa per dirle che lei non era mai al sicuro, che era in costante pericolo di morte, che tutti erano dei potenziali nemici.
Era in quei momenti che l’incubo si confondeva con la realtà, facendola impazzire. Perché Tekla sapeva perfettamente di essere una pazza paranoica, ma aveva sempre creduto che il problema non fosse lei, bensì quella costante voce nel suo cervello, come una sorta di parte oscura che voleva prendere il sopravvento su di lei. Era la più difficle da contrastare e vincere, perché era l’unica cosa che aveva pieno potere su di lei.
Tekla credeva che l’allucinazione della settimana precedente al suo miglioramento fosse la personificazione di quella vocina tediosa, una gemella cattiva, una doppelgänger. Ne aveva sentito parlare, una volta. In alcune mitologie, vedere il proprio doppelgänger era presagio di morte. Ed era per questo motivo che Tekla aveva deciso di cambiare vita, per lasciarsi l’altra se stessa alle spalle, per cercare di sembrare il meno possibile simile a lei.
Per prima cosa, si era tinta i capelli. Prima aveva una lunga e folta chioma di ricci scuri, adesso i suoi capelli erano stati leggermente accorciati e colorati in un modo che la gente comune avrebbe definito alquanto strambo, con le sfumature del lilla alla radice e del verde acqua sulle punte. Tekla, in fondo, si piaceva. Forse era un po’ troppo magra e nemmeno molto alta, ma nel complesso si riteneva migliore di altre ragazze della sua età – in fondo la modestia non era mai stata un suo pregio.
Aveva cambiato persino modo di vestire e, ciliegina sulla torta, aveva deciso di cercare un coinquilino. La sua casa era troppo grande e vuota, lei aveva bisogno di soldi e di un po’ di compagnia. Il Dottor Andersen aveva detto che le avrebbe fatto bene. 
 
Era al supermercato per fare scorta di cibo. Al telegiornale avevano detto che avrebbe piovuto tutto il fine settimana e Tekla non aveva decisamente voglia di uscire con la pioggia. Detestava i temporali, detestava tutto ciò che la facesse sentire inerme.
Al supermercato c’erano molte persone che avevano avuto la sua stessa idea e che si affrettavano in giro per gli scaffali a recuperare quanta più merce scontata era loro possibile.
Il paese in cui viveva non era molto grande, ma in compenso era abbastanza vicino alla campagna, motivo per cui non molti forestieri venivano a fare giri da quelle parti. Era meglio così, si diceva sempre Tekla, lei odiava anche i forestieri.
Quasi tutti gli abitanti si conoscevano gli uni con gli altri, i pettegolezzi viaggiavano molto in fretta ed era facile riconoscere il viso di uno straniero tra i concittadini.
Così accadde quel giorno.
Tekla l’aveva individuata da lontano: era alta, bionda, bella, ma si guardava intorno furtivamente, come se stesse tramando qualcosa di losco. Non l’aveva mai vista per le strade del paese, eppure sentiva di conoscerla già. Forse era apparsa di sfuggita in qualche suo incubo, o forse l’aveva solo immaginata.
Faccia d’angelo, si sentì di soprannominarla. La straniera si voltò di poco nella sua direzione e Tekla vide che tra i capelli aveva numerose ciocche azzurre e che le sue labbra erano colorate di quello che lei trovò un disturbante rossetto rosso sangue, così scuro da sembrare sangue vivo, sangue che le colava sulla bocca come se avesse mangiato carne umana. I suoi occhi grigi e guizzanti vagarono su di lei, facendola sentire merce esposta e in vendita, esattamente come gli hamburger surgelati che aveva comprato per cena.
Era uno sguardo triste quello che le rivolse, uno sguardo carico di sottintesi.
Forse quella ragazza indossava una maschera proprio come lei. Forse era soltanto un’altra povera pazza capitata nel posto sbagliato.
Eppure Tekla sentì di odiarla a morte dal primo istante in cui la vide.
 
Gli incubi, ormai, arrivavano a infestarle la mente con un andamento altalenante. C’erano notti in cui riposava beatamente e notti in cui avrebbe preferito uccidersi piuttosto che sopportare altre di quelle terribili visioni. A volte si svegliava singhiozzando, altre sorridendo.
Tekla non riusciva a capire cosa non andasse in lei. Le pillole la stavano aiutando, ma soltanto raramente le sembrava di stare bene. C’era qualcosa di oscuro e malvagio in lei che voleva farla precipitare nell’oblio, o in un luogo da cui non sarebbe più riemersa, nel più profondo e nero degli abissi. Le sembrava di affondare e affogare ogni volta che ci pensava. La via per liberarsi dal buio era ancora lunga e tortuosa.
Lo dimostrava l’incubo che fece quella notte: si trovava nella sua camera, come nella maggior parte delle volte, ed era legata al proprio letto con delle corde ruvide. I polsi e le caviglie le prudevano così tanto che era costretta a mordersi le labbra a sangue per sopportare; più si muoveva, più il prurito si trasformava in dolore, più le corde le graffiavano la pelle.
Si domandò per qualche istante quanto tempo sarebbe passato prima di svegliarsi, quando la Tekla cattiva apparve dall’ombra con un sorrisetto di superiorità.
« Ciao, carissima » le disse, stringendo tra le mani una sorta di barattolo di vetro.
La vera Tekla annaspò, sibilando le prime parole che le vennero in mente. « Cosa vuoi da me? Vattene! »
« Non vuoi che ti liberi? » chiese retoricamente l’altra, alzando gli occhi al cielo.
« P-prima liberami! » balbettò lei, più insicura di quanto avrebbe sperato.
« Dio, come sei ingenua » si lamentò la ragazza, avvicinandosi a lei pericolosamente. « Si nota troppo che siamo diverse. Troppo. »
A quel punto aprì il barattolo che aveva tra le mani e le fece cadere il suo contenuto sulle gambe. Di primo impatto, Tekla immaginò che fosse qualcosa di liquido o acido che le avrebbe irritato la pelle, ma quando capì di cosa si trattava sentì i sensi venirle meno.
Ragni.
Lanciò un grido terrorizzato e cominciò a dimenarsi, tentando di scrollarsi quegli esserini di dosso, che tuttavia sembravano incollati alle sue gambe e pian piano risalivano lungo le cosce, scivolando sulla pelle immacolata grazie alle loro zampette sottili.
« Toglimeli di dosso! » urlò, quando uno di quelli fu sul punto di infilarsi sotto i suoi shorts. « Toglimeli di dosso! » continuò a ripetere, quando si accorse che era tutto sparito e che si era finalmente svegliata. Non era più legata ed era già mattina. Un raggio di sole pallido che filtrò tra le tende le accarezzò le gambe scoperte e lei prese a toccarsele come per constatare che i ragni fossero effettivamente spariti, anche se aveva ancora una bruttissima sensazione addosso. Un brivido le scese prepotentemente lungo la schiena quando si rese conto che c’era davvero un ragno sulla parete di fronte, appollaiato vicino allo specchio.
Ma era uno solo. Doveva trattarsi di una coincidenza. Era piccolo, innocuo e lontano da lei. Bastava un colpo di pantofola per eliminarlo.
Scacciarli. Come un ospite indesiderato.
Si alzò dal letto, determinata ad ucciderlo, quando sentì il campanello di casa suonare con insistenza. Sbuffò e, lasciando perdere il ragno, si decise a scendere le scale, seppure con risentimento, e ad andare ad aprire.
« Chi diavolo è a quest’ora? » chiese biascicando, più a se stessa che al misterioso visitatore. Non controllò nemmeno chi fosse allo spioncino, quando aprì e si ritrovò l’ultima persona che avrebbe voluto vedere.
Faccia d’angelo. Se la ricordava benissimo, in ogni suo meraviglioso e sbagliato dettaglio.
« Ciao » disse quella freddamente, « sono venuta per l’annuncio. Ci siamo sentite l’altro giorno a telefono, io sono Genesis Treble. »
Lei è Genesis Treble, la mia nuova coinquilina?, pensò Tekla, esterrefatta. Non voleva quella ragazza in casa sua. A pensarci bene non voleva più nessuno come coinquilino, ma ormai aveva già pubblicato l’annuncio e accettato la proposta di quella straniera. Non poteva cacciarla, non dopo che il Dottor Andersen le aveva detto che un po’ di compagnia le avrebbe fatto bene. E in più le avrebbe dato cinquanta dollari a settimana, così da potersi pagare anche le medicine più costose.
Genesis indicò con un cenno della testa la valigia accanto a lei. « Ho solo questa, non ti darò alcun fastidio. »
« Certo, entra pure » borbottò, senza nascondere l’irritazione nella sua voce. « La tua camera è al primo piano, accanto al bagno. »
Genesis entrò in casa e prese a squadrare l’ambiente; senza dire una parola di più individuò le scale e le salì velocemente, sparendo nel giro di qualche secondo.
Tekla pensò che avrebbe dovuto stringere i denti per un bel po’ di tempo; forse ci avrebbe fatto l’abitudine, forse avrebbe imparato ad apprezzarla.
Ma per il momento tutto ciò che provava nei confronti di quella ragazza era un odio feroce ed estraneo, così illogicamente intenso da corroderle lo stomaco. Tutto ciò che desiderava, in quel momento, era ucciderla e profanare quel corpo tanto perfetto, per dimostrarle che lei era superiore in ogni caso. Era inutile indossare una maschera angelica per far cadere il mondo ai propri piedi.
Tekla gliel’avrebbe strappata, l’avrebbe distrutta in mille pezzi, e se Genesis avesse osato indossare altre maschere, allora avrebbe distrutto anche quelle.
 
Dannazione.
Era questa la prima cosa che aveva pensato. Da quando aveva accolto quell’amabile coinquilina in casa sua, i suoi incubi erano aumentati, come se Genesis avesse portato un demone con sé per vederla soccombere ai suoi comandi.
Sapeva perfettamente che l’ostilità nei suoi confronti era immotivata e sconclusionata, ma Dio, se la odiava. Le avrebbe volentieri strappato quei capelli platinati dal cranio, tagliato le labbra a metà per farla stare zitta e ascoltare i suoi gorgoglii mentre vomitava il suo stesso sangue. Non voleva altro che vederla morta, fatta a pezzi, mangiata dai corvi e abbandonata come la carcassa di un animale sconfitto dal predatore.
E lei – oh sì – sarebbe stata quel predatore. Avrebbe massacrato Faccia d’angelo solo per gioire della sua dipartita, avrebbe riso istericamente con le mani macchiate del suo sangue e avrebbe danzato sulla sua tomba, graffiandone il marmo come se fosse stata la sua pelle.
Solo così sarebbe stata felice. Tekla era certa che sarebbe stata lei stessa a ucciderla, non il contrario. Genesis non le avrebbe fatto alcun male, se lei avesse agito per prima.
Ma forse aveva sbagliato i calcoli. Aveva sbagliato tutto.
Lo capì svegliandosi in una stanza buia e sconosciuta, legata esattamente come nell’incubo dei ragni. Era nuda, stava congelando e non riusciva a vedere nulla.
In un primo istante qualcosa le fece pensare – sperare – che quello fosse soltanto l’ennesimo, orribile incubo, ma col passare dei minuti quella convinzione si sgretolò.
Per quelle che sembrarono ore e ore non accadde assolutamente nulla. Il dolore ai polsi e alle caviglie aumentava con il trascorrere del tempo. Per qualche assurdo motivo, Tekla riusciva a sentire il ticchettio di un orologio lontano, la cui velocità diminuiva sempre di più, quasi come se stesse condensando il tempo, o come se questo l’avrebbe presto soffocata dopo un’angosciosa agonia.
Non poteva essere la realtà. Chi l’aveva rinchiusa lì dentro? E perché?
Il Dottor Andersen le diceva sempre che non c’era alcun bisogno di essere così paranoica, ma in quel momento Tekla non vedeva vie d’uscita: qualcuno voleva torturarla e, dopo, ammazzarla.
Strinse i pugni e un gemito debole le vibrò nella gola. Avrebbe pianto tutte le sue lacrime, se non fosse riuscita a svegliarsi presto. Svegliarsi era sempre stata l’unica speranza della sua vita.
Non è reale, non è reale, non è reale. Quello era l’unica cosa che le viaggiava per la mente, il disco dei suoi pensieri si era bloccato. Non è reale. Non era reale, non poteva esserlo.
Tuttavia il dolore era fin troppo vivido per essere ignorato.
Le prime lacrime fecero capolino alla base delle ciglia e Tekla strinse i denti così forte da farsi male soltanto per trattenerle. Doveva essere forte. Non aveva mai pianto nei suoi incubi, perché era sempre riuscita a svegliarsi. Eppure quella volta qualcosa le diceva che l’incubo stava avendo la meglio su di lei.
E, ancora, quel tic, tic, tic lontano… Sembravano gocce d’acqua che cadevano a ripetizione, o le lancette di un orologio che forse rappresentava il conto alla rovescia prima della sua morte.
Prese un lungo respiro, tentando di placare la tensione che si faceva largo dentro il suo petto, divorandole il cuore. I battiti erano sempre più veloci. Tekla riusciva a percepire che qualcosa stava arrivando. Qualcosa o qualcuno – e non sapeva dire quale alternativa la terrorizzasse di più.
Fu così che, dopo pochi istanti, una luce si accese all’interno della stanza. Era molto fioca, ma Tekla cominciò finalmente a distinguere qualcosa; per prima, una ragazza volgarmente appollaiata su una poltrona poco lontana da lei, vestita completamente di nero. All’inizio non capì chi tra la propia doppelgänger e Genesis potesse essere, ma quando quella si alzò e le si avvicinò cominciò a rendersi conto di quale essere mostruoso si trattasse: era un ibrido tra le due ragazze, combinate insieme in modo orribile. La metà destra del volto apparteneva a Tekla Kramann, la sinistra a Genesis Treble. Una spaventosa e rivoltante cicatrice verticale divideva il viso a metà, ma non impediva a quell’essere di sorridere malignamente.
Tekla non ebbe nemmeno il tempo di mettere insieme i pezzi del puzzle che l’ibrido srotolò una frusta uscita da chissà dove e la colpì con violenza, togliendole persino ogni forza di urlare.
Si accartocciò su se stessa, ma le corde non le permettevano grandi movimenti, per cui soffocò dentro di sé ogni grido, imprecazione o lacrima.
« Chi sei? » mormorò flebilmente, così tanto che l’altra avrebbe potuto benissimo fingere di non averla sentita.
Ma l’ibrido continuò a ghignare e con un ampio gesto del braccio le indicò le pareti della stanza. « Guardati intorno, Tekla » disse. « Tu sei me, io sono te. »
Tekla non riuscì a dire dove trovò il coraggio per alzare la testa e osservare le pareti. Questa volta nulla la trattenne dall’urlare con tutto il fiato che aveva in corpo. Su tutte le pareti della stanza erano appese maschere con la sua faccia.
Le orbite di tutte quelle maschere erano cave, le labbra sfregiate e la pelle malaticcia.
Tekla svenne, lì, legata al muro.
 
Infine, Tekla si svegliò.
Ma quella non era camera sua, né casa sua. Si trovava in un letto freddo ma morbido, abbracciata da coperte che non ricordava di aver visto mai.
Non gridò, ma la sua paura non era diminuita neanche per un istante. Sapeva perfettamente che l’incubo non era ancora finito. Sapeva che la parte peggiore doveva ancora arrivare.
Cercò a tentoni qualcosa di simile a una lampada sul comodino, ma ovviamente trovò soltanto il vuoto. La sua mano si strinse intorno al nulla, il braccio si lasciò cadere lungo il suo fianco come se non avesse più forze.
Cos’altro doveva aspettarsi? Quali altri scherzi orribili le avrebbe giocato la propria mente? Non rimaneva altro che restare a guardare.
Successe tutto molto in fretta. Dal buio, stavolta, apparve la figura meravigliosa e slanciata di Genesis. Non sorrideva, non ghignava, non piangeva né mostrava qualche altro tipo di sentimento.
« Mi dispiace, Tekla » sussurrò soltanto. Si avvicinò al letto e dopo qualche istante salì a cavalcioni su di lei. Tekla non fece assolutamente nulla, del tutto in balia della ragazza, dei suoi occhi grigi come la più furiosa delle tempeste, del suo respiro lieve, del suo tocco leggero e delicato.
Genesis si abbassò sul suo volto e la baciò con una dolcezza che lei non sarebbe mai riuscita nemmeno ad immaginare. Le sue labbra si appoggiarono appena sulle proprie che Tekla sentì di volerne di più, di volerla distruggere in un’altra maniera.
Poi, improvvisamente, il sibilo di una lama fendette l’aria e Tekla si ritrovò pugnalata al cuore.
Risucchiò l’aria dalla bocca, con il viso angelico e al tempo stesso demoniaco della sua assassina come ultima visione per il suo ultimo respiro.
Nella stanza aleggiarono ancora una volta le parole di Genesis. « Mi dispiace, Tekla. »
Tekla che, come ardesia, aveva vissuto.
Come ardesia, si era sfaldata.
E come ardesia, sarebbe morta. In mille pezzi, in mille modi, con mille maschere diverse.
 
Fu il risveglio più traumatico che potesse aspettarsi. Per la prima volta nella sua vita le sembrò di essere risorta dall’incubo, come se dopo anni di buio e dolore avesse trovato la luce.
Si alzò a sedere tremando dalla testa ai piedi. Tekla teneva sempre un bicchiere d’acqua sul comodino durante la notte; lo prese tra le dita, ma la sua forza era talmente nulla e il tremito talmente violento che le cadde dalla mano, facendo versare l’acqua sulle coperte.
« Al diavolo! » gridò, prendendo a piangere come una stupida bambina. Si accorse delle lacrime che cadevano sul proprio viso troppo tardi e non tentò nemmeno di asciugarle. Si alzò dal letto, scostando le coperte con rabbia.
Aveva bisogno delle sue medicine, ma prima doveva cercare Genesis.
Aprì tutte le porte del primo piano, gridò il suo nome, scese al piano terra, ma… nulla. Faccia d’angelo era sparita. Nessuna traccia di lei. Né il letto sfatto, né la sua valigia, né qualcosa che potesse aver dimenticato. Se n’era andata, dissolta nel nulla, sgretolata nell’aria.
Frastornata, raggiunse il bagno per prendere le sue pillole. Le avrebbe ingerite tutte, se avesse potuto, fino a scoppiare. Di Genesis non gliene importava nulla, per lei poteva anche essere morta – le dispiaceva soltanto di non averla potuta uccidere con le proprie mani.
Tutto ciò che voleva in quel momento era cancellare ogni cosa avesse visto nell’incubo. O meglio, nell’incubo dell’incubo. Non le era mai capitato di farne due nella stessa notte, per di più uno dentro l’altro. La prossima volta quanti ne sarebbero stati, tre, a catena?
Guardò sulla piccola mensola accanto allo specchio, ma l’unica cosa che trovò fu il vuoto. Cominciò ad aprire tutti i cassetti, in panico, ma dei suoi farmaci non c’era traccia.
Spariti anche quelli.
Solo dopo qualche istante di panico si accorse che sul suo pigiama, proprio all’altezza del cuore, c’era una grossa macchia di sangue. Ma, di ferite, a stento il ricordo.
 
« Sto male » disse, prendendosi il viso tra le mani e trattenendosi a stento dal versare altre inutili lacrime. « Non ne posso più! »
Il Dottor Andersen era seduto di fronte a lei nella sua classica posizione assorta e sembrava contemplare il vuoto, in attesa che lei continuasse.
« Stavolta ho sognato un essere ibrido tra me e Genesis Treble… voleva torturarmi, ma prima mi ha fatto vedere le pareti della stanza, piene di maschere con la mia faccia… sembravano fatte di pelle vera, mi capisce? » cominciò, accavallando una parola all’altra per la tensione. « Poi mi è successo di essermi svegliata in una camera non mia, ma quello faceva ancora parte dell’incubo… un incubo nell’incubo, esatto. Non mi era mai capitato… »
Tekla prese un respiro profondo, constatando che il silenzio dello psicologo la stava esortando a proseguire.
« C’era soltanto Genesis, qui, che prima mi ha baciata » biascicò, abbassando il tono sull’ultima parola, forse per ribrezzo, « e dopo mi ha pugnalata. Quando mi sono svegliata per davvero… non lo so, è stata la sensazione più orribile del mondo… e avevo ancora la macchia di sangue sul pigiama, all’altezza del cuore, ma Genesis era sparita! Nemmeno un capello è rimasto nella sua stanza, non so che fine abbia fatto. »
Fece una breve pausa, dopodiché si affrettò a domandare: « Mi può dare altre medicine, Dottor Andersen? Anche quelle sono sparite, non so come e non so quando. Ma le giuro che non le ho prese tutte! Ho sempre seguito i suoi consigli, anche se- » si bloccò improvvisamente, notando che il Dottore aveva preso il proprio cellulare. Restò ammutolita per qualche istante: mandare messaggi alla moglie durante una seduta non faceva propriamente parte di un atteggiamento professionale.
« Dottor Andersen? » lo chiamò, ma quello non alzò nemmeno la testa. Un moto di rabbia si fece strada dentro il suo petto. Perché adesso nemmeno lui sembrava interessato ad ascoltarla?
« Dottor Andersen! »
In quel momento qualcuno bussò alla porta, con velata insistenza. Il Dottor Andersen emise un sospiro e, abbandonando il cellulare, si alzò per andare ad aprire. Sulla soglia della porta apparve una ragazza sui diciott’anni, alta, bionda, bella, con ciocche azzurre tra i capelli e un disturbante rossetto rosso sangue sulle labbra carnose – labbra che lei aveva assaggiato solo nei suoi incubi, forse anche più volte di quella che ricordava. Genesis Treble, lì, in piedi accanto al Dottore, che le strinse caldamente una mano.
« Benvenuta, signorina Kramann » disse lui. « Si accomodi pure qui. Come si sente oggi? »
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 


 
   
 
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