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Autore: Weeping Angel    23/05/2014    0 recensioni
Come avrebbe descritto, lei stessa, la precaria e caotica situazione nella quale il Paradiso tutto era sprofondato, da quando il Salvatore era ritornato a vivere la vita di un comune essere umano, nell'Assiah? Nessun controllo. Nessuna direzione. Sguardi accesi di rivalità, risse, assassinii, attacchi sconsiderati di Demoni...e la povertà di sempre, la miseria assoluta che caratterizzava i livelli più bassi del Paradiso. I nemici erano quelli che premevano saltuariamente al di là delle linee di confine, o quelli che si muovevano all'interno di esse, come comuni Angeli, cittadini, persino amici? Djibril non lo sapeva, e il pensiero la fece rabbrividire. Dopotutto, il Salvatore li aveva liberati da un Dio fittizio e fraudolento, ma cos'altro aveva lasciato in eredità alla stirpe alata? Null'altro che fragilità ed incertezza. Caos...
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cry, Djibril, Michael, nuovo personaggio, un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 10

I’ve been left out alone like a damn criminal
I’ve been praying for help 'cause I can’t take it all
I’m not done,
It’s not over.
Now I’m fighting this war since the day of the fall
And I’m desperately holding on to it all
But I’m lost
I’m so damn lost
Oh I wish it was over,
And I wish you were here
Still I’m hoping that somehow...


Buio. Palpabile, freddo, assoluto. Buio e vuoto. Tutto ciò che l'Arcangelo riusciva a percepire, era il proprio respiro pesante; neppure il tonfo dei suoi passi riuscivano a raggiungerlo -in realtà, non era neppure sicuro di star camminando, di star procedendo in una qualche direzione. Incertezza. Stranamente inquieto, Mikael portò una mano davanti al viso, sventolandola con insistenza, ma neppure aguzzando la vista riuscì a scorgere alcunchè. Tutto veniva apparentemente risucchiato dal quell'oscurità pesante ed irreale. Era meglio andare avanti, muoversi. Questo si ripeteva l'Arcangelo, mentre metteva un affrettato passo davanti all'altro, guardandosi attorno nervosamente, alla ricerca di una qualsiasi, flebile, luminescenza. Improvvisamente, il suono del suo respiro sembrò intensificarsi: Mikael si accorse che diveniva più presente, più molesto, sempre più doloroso, man mano che procedeva. “Devo uscire da qui”. Questo il pensiero che, angoscioso, gli invase la mente. Prepotente. E altrettanto prepotente si mostrò l'Arcangelo nel cominciare a correre – non poteva volare, o non lo sapeva fare? -. Ben peggiore fu la consapevolezza improvvisa di non essere solo; consapevolezza che lo braccò come un lupo affamato, prima di raggiungerlo e sbranare qualsiasi rimasuglio di sicurezza rimastogli. Perchè lui sapeva di chi si trattava. Lucifero. Mikael smise di correre, dovette farlo; sbattè le palpebre una o due volte prima di rendersi conto di vederlo, in piedi davanti a sè, unica sagoma visibile in quel mare oscuro. Sempre uguale a sè stesso, identico a come lo ricordava, a come l'aveva visto l'ultima volta, ma anche a quando ancora viveva in Paradiso, con lui. La prima domanda ad accarezzargli la mente fu tanto scontata quanto bruciante. “Perchè?” si levò dalle labbra dell'Arcangelo, un rantolo simile a quello di una bestia ferita. L'espressione sul volto di Lucifero rimase dolorosamente neutra. “Pensi che non ce l'avrei fatta?! Mi ritieni forse un debole?!” sbotto, quasi ringhiando. “...non sei stato in grado di uccidermi, nonostante ne avessi la possibilità...e mai lo sarai...” soffiò la voce dell'astro del mattino, facendolo rabbrividire. “....quel giorno lo capii, lo capisti anche tu...non sei come me.” Mikael smise di respirare. Le labbra di Lucifero si stirarono in un accenno di sorriso beffardo, prima di formulare: “Mi avresti seguito?” Nella mente dell'Arcangelo del fuoco, il diniego si animò prepotente, bruciante come le fiamme che da sempre minacciavano di devastare la sua anima, non risparmiandone neppure le ceneri. Ma dire la verità non è mai semplice. Mikael si ammantò quindi della sua baldanza caratteristica, prima di sputare fuori un perentorio e definitivo: “Avrei risolto tutto da solo!”, che suonò così sicuro – fin troppo sicuro – e così falso alle orecchie di suo fratello, da costringere tutto il suo essere a prodursi in una vacua occhiata di cinica commiserazione: “non sei mai stato capace di mentire, Mikael.” Mikael si sentiva in dovere di ribattere qualcosa a quel punto, ma il suo cervello non volle collaborare, spegnendosi come una lampadina fulminata, lasciandolo indifeso davanti alla verità delle cose. Lui non era come Lucifero. Lucifero lo sapeva, e l'aveva lasciato fuori, l'aveva relegato in un luogo di luce, un luogo lontano da quello da lui occupato, gli aveva precluso la possibilità di seguirlo nelle tenebre. Miseria, degrado, esilio, sofferenza. Lucifero gli aveva negato tutto questo. ...Ma l'aveva fatto davvero? Lucifero l'aveva da sempre accecato, apparendogli perfetto, algido, distante. Forse, anche a causa di questo, Mikael non era riuscito a manifestare il suo potenziale fino a quando l'altro non gli aveva dato la possibilità di farlo, abbandonandolo. Certo. Ma avrebbe davvero dovuto ringraziarlo? Non avrebbe dovuto, piuttosto, urlargli addosso il proprio disappunto, il dolore di infiti anni di incertezze, paure, denigrazioni? “Pensi di avermi fatto un favore...?” Il fil di voce con cui Mikael pronunciò quelle poche parole, non poté che colpire lui, e lui soltanto. L'enigmatica espressione non abbandonò il viso di Lucifero; quella sofferta confessione non parve scuoterlo o sorprenderlo in alcun modo. Come se già sapesse tutto. L'astro del mattino fece un singolo passo avanti, quasi ricercando un simbolico contatto con il fratello. Poi, parlò. “Per far si che una luce risplenda, deve esserci l'oscurità...” sussurrò, e non v'era nulla nella sua voce. O forse, tutto. Mikael si ritrovò ad annaspare tra ricordi che pensava perduti ormai da tempo; ricordi di sè stesso, ricordi di sè stesso con Djibril – Djibril, che cercava da sempre di renderlo un tipo “rispettabile”, che assurdità! -; ricordi di sè stesso con Raphael, i loro discorsi sconclusionati, Raphael che aveva a tutti gli effetti preso il posto di Lucifero nella sua vita – sebbene fosse un maniaco - . Ricordi di sè e Lucifero, in un paradiso lontano, in un tempo lontano. Quello stesso Lucifero che ora iniziava a perdersi nel buio, a ritornare parte di quelle tenebre soffocanti. Mikael allungò una mano per afferrarlo, per tenerlo vicino a sè, almeno questa volta. Tutto ciò che riuscì ad incontrare, fu l'aria polverosa di una camera da letto sconosciuta. Aveva lo sguardo appannato, stravolto, strano. Solo quando portò le mani al viso, si accorse delle lacrime.

Non riusciva a capire dove si trovasse. La stanza era ingombra di mobili antichi, pezzi che un tempo dovevano apparire di straordinaria bellezza, ma ora servivano soltanto a sostenere vasi imbruttiti ed altre quisquiglie polverose. Soltanto il grande specchio appeso alla parete alla sua destra conservava un aspetto regale -probabilmente veniva regolarmente pulito- e in quello specchio Mikael vide l'ombra di sè stesso, una creatura dall'aspetto miserabile. Finalmente si rese conto di trovarsi disteso su un letto a baldacchino di notevoli dimensioni; dei cuscini sgualciti gli sostenevano il busto. Qualcuno gli aveva bendato strettamente il capo e il costato, e aveva fasciato e steccato l'ala destra, risparmiando la sinistra, che tuttavia appariva piuttosto sciupata. Mikael si ritrovò a domandarsi per quale motivo non si fossero ancora smaterializzate, ma quel pensiero venne subito sostituito da un'angoscia sottile quando l'Arcangelo s'avvide delle condizioni del proprio braccio sinistro, appeso con una fasciatura robusta al collo -possibile che non si fosse accorto subito di quel peso fastidioso?-, steccato, immobile....inutile. Il braccio destro era invece un mosaico di tumefazioni violacee e verdognole che avrebbe fatto letteralmente rabbrividire Djibril. All'altezza dell'avambraccio, il tubicino di una flebo faceva bella mostra di sè. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: con un gesto di stizza, Mikael provò a strapparsela tirandosi bruscamente a sedere. Il mondo lo tradì, iniziando a girare vorticosamente su stesso; una serie di fitte diffuse gli offuscarono la vista per qualche secondo. Proprio mentre quella stanza trascurata tornava a riempirgli lo sguardo, la porta alla sua sinistra si aprì di scatto: qualcuno l'aveva spalancata con una spinta di sedere, un qualcuno che, assorto nel non troppo difficile compito di sostenere un vassoio con entrambe le mani, non si accorse neppure del risveglio dell'Arcangelo. Quel qualcuno era Kurai, che, assorta, si accomodò come se niente fosse sulla poltrona imbottita posta proprio accanto al letto, poggiando poi il vassoio sul tavolino da tè lì accanto. E proprio tè sembrava quello che prese a sorseggiare da una delle due tazze precedentemente poste una accanto all'altra sul vassoio di metallo. Mikael non distolse mai lo sguardo da lei: rimase impassibile anche quando, finalmente, il piccolo Demone si accorse che, dall'ultima volta in cui era stata in quella stanza, qualcosa era evidentemente cambiato. Questo accadde quando ne incrociò finalmente lo sguardo, e quasi non si strozzò con il té: tragicamente, ed inesorabilmente, la tazza le sfuggì di mano e andò a disperdere il suo bollente contenuto sulle gambe di Mikael, che pure non battè ciglio. “Ahhh...oops...eeer” biascicò, tanto che Mikael, per qualche secondo, si chiese se quella cosa sapesse effettivamente parlare la sua lingua, e non si stesse piuttosto esprimendo in qualche idioma arcaico e sgraziato proprio della sua razza. Le successive parole pronunciate da Kurai, tuttavia, gli parvero di senso compiuto. “Ti sei svegliato allora...” disse, prima di scoppiare in una risatina nervosa, lanciando occhiate desolate là dove il tè aveva ormai iniziato a disegnare una macchia bagnata sulle coperte. Mikael, dal canto suo, non pensava minimamente alla sensazione del tè bollente sulla pelle. “Che posto è questo?” le domandò bruscamente “e tu chi saresti?!” Quegli interrogativi lasciarono Kurai interdetta per qualche momento, durante il quale rimase perfettamente in silenzio, così che, quasi subito, le sopracciglia del suo interlocutore si incurvarono di disappunto. “allora?” insistette, visibilmente innervosito. Riscossasi dalla sorpresa iniziale, Kurai prese a parlare a macchinetta, presentandosi -senza dimenticare di appellarsi in qualsiasi modo altisonante...dopotutto, era o non era una persona importante?-, e presentando il posto dove si trovavano, il palazzo reale del Gehenna, e precisamente nella camera della principessa. “La mia camera” sottolineò Kurai, con una punta di baldanza. Per tutta risposta, Mikael le regalò un'occhiata scettica, che la Demone accolse arricciando il naso. “Comunque, io e te abbiamo combattuto insieme, dalla stessa parte intendo. Mi fa piacere che non te ne ricordi” lo apostrofò stizzita, incrociando strettamente le braccia sul petto minuto. “...eppure ho fatto anche io la mia parte aiutandovi a sigillare Adam Kadamon.” Mikael riuscì a mettere insieme quelle informazioni solo dopo qualche secondo, ma, alla fine, ricordò. “Ah, già. Tu sei quella Demone che andava dietro al Salvatore come un cagnolino...” la provocò immediatamente, concedendosi un ghigno leggero, il primo, da quando quella conversazione aveva avuto inizio. Il viso di Kurai divenne rosso come quello di un pomodoro maturo, preda di una vergogna difficilmente esprimibile a parole. “Tecnicamente non sono un Demone comune....” si difese, sbottando “e comunque, ti sembra questo il modo di rivolgerti a chi ti ha salvato la vita!?” Kurai distolse lo sguardo da Mikael, il viso corrucciato in una smorfia visceralmente indispettita. Sembrava una bambina alla quale fosse appena stato fatto un dispetto irreparabile. Mikael, da parte sua, non sapeva neppure di cosa lei stesse parlando. “E quando sarebbe avvenuta una cosa del genere?” la interrogò scetticamente. E avrebbe voluto sottolineare il suo cipiglio perplesso incrociando le braccia al petto a sua volta, come faceva sempre, ma gli era del tutto impossibile in quel momento. Kurai lo fulminò con lo sguardo. “Stai scherzando!?” quasi sbraitò “eri privo di sensi, in mezzo ad un deserto di polvere e rocce, e io, io ti ho portato qui, medicato, dato un posto dove riposare....un minimo di rispetto me lo dovresti proprio!!” Neppure questa rivelazione suscitò alcunchè in Mikael; sicuramente, niente di neppure lontanamente descrivibile come senso di riconoscenza. No, tutto quello che l'Arcangelo riusciva a provare nei confronti di Kurai era mera indifferenza. Sbuffò. “Nessuno te l'ha chiesto, sarei potuto benissimo sopravvivere anche da solo.” ribatte, arrogante ed irragionevole come al solito. “Ma se proprio vuoi metterla così, sappi che ogni tuo respiro è una mia concessione. Potrei ucciderti in qualunque istante. Sei dunqe tu, ad essere in debito con me.” sciorinò, lapidario e sprezzante e, nonostante quell'argomentazione potesse apparire stupida, debole ed infondata agli occhi di chiunque, riuscì comunque a scatenare in Kurai un incredibile terrore, paralizzandola. La limpidezza del pensiero di Mikael la incatenò a quella poltrona, mentre una serie di brividi le percorrevano implacabilmente la spina dorsale. Quell'Angelo non la odiava né la disprezzava. No. La considerava alla stregua di una mosca, di un insetto insignificante che si può calpestare in qualsiasi momento, senza il minimo accenno di rimorso, senza la minima scintilla di soddisfazione...senza la minima motivazione. Un forza schiacciante e totalente imprevedibile capace di incenerire qualunque cosa, un'angoscia straziante si diffuse nella mente della principessa come un cancro: aveva forse commesso l'ennesima stupidaggine?

  
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