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Autore: Il Cavaliere Nero    29/05/2014    7 recensioni
Shinichi Kudo è famosissimo: il più giovane detective, un curriculm che vanta il maggior numero di casi- rapidamente!- risolti. Per la sua consapevole abilità, e talvolta saccente professionalità, parte della polizia lo applaude e lo stima; l’altra metà, per la stessa ragione, lo ostacola nascondendosi dietro una finta esaltazione di rigorismo, che è in realtà qualunquismo.

“Tu…sei, sei stato in centrale oggi?”
“Sì. Ma sai, non mi sono fermato lì con loro, non sono soliti parlare benissimo di me."
In quella dichiarazione di consapevolezza, in lui tornò a dominare il detective orgoglioso e sicuro di sé, distaccato e persino un po’ scontroso.
"Tu...sai che..."
"Mph, credi che io viva sulle nuvole? Dicono che io sia ancora più arrogante da quando sono amico suo. Un mese fa ero un eroe, ora improvvisamente uno sbruffone. Come si spiega quest'incoerenza? Io sono sempre io. Sono sempre stato un eroe, sarò sempre uno sbruffone. Purchè scelgano. Sono lo stesso di un mese fa, non c'è nulla di diverso in me."

Ran apprezza i suoi metodi, totalmente distanti da quelli di suo padre. Ma li apprezzerà anche quando ne verrà travolta?
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Piccola nota d'autrice: Ehm….ehm. Non ci si vede da un po’, è vero? La primissima obiezione, oltre al mio oramai consueto ritardo di aggiornamento qui su Efp, a cui voglio subito rispondere è: sì, ho ancora da terminare Fiuto da detective. Il problema è che mi sono bloccata xD Mi mancano due capitoli e l’epilogo, ed ho già scritto epilogo e ultimo capitolo; ma il penultimo…c’è un nodo, un passaggio che non riesco a farmi tornare! E così la storia rischiava di divenire meccanica, non spontanea, e quindi noiosa. Allora voi mi chiederete: perché torni a infastidirci con una nuova? Ed avrete ragione. Il fatto è che ho avuto una sorta di ispirazione, lasciatemi passare questo termine poetico, ed ho deciso di metterlo su carta. Ho mentito di nuovo! Non sono stata io a prendere questa decisione. Una persona mi ha convinta a tornare a scrivere. Per lungo tempo avevo perso in parte fiducia, in parte voglia, nella scrittura; e avevo dimenticato quanto fosse tangibile il piacere che scrivere mi procura. Da sola, senza il suo intervento, probabilmente avrei lasciato perdere e non avrei più scritto per ancora molto tempo.
Per questo, le sono grata.


Prologo – Private eye
 
«Ma perché arrivi un amore autentico, onesto e sano,
la cosa migliore è non pensarci troppo, e non invocarlo.
Altrimenti ci si inganna.
Si mette la maschera dell'amore sul primo e più rozzo dei volti.»
Irène Némirovsky

Conciliare serietà e leggerezza: declinare l’intelligenza nelle sue forme più complesse, per poi abbandonarsi all’ironia più dirompente. Od anche unirle: scherzosa vivacità e orgogliosa facezia.
Da lungo tempo Ran si chiedeva se questo possibile, e infine non era giunta una risposta: semplicemente aveva deciso di provare a diventare una persona, una donna capace di scherzare e poi lavorare.
Ridere e riflettere.
Voleva crescere e faticare, e nel contempo mirare al suo futuro non come una meta, ma come un percorso. La sua vita non sarebbe stata finalizzata ad un obiettivo, non avrebbe passato tutto il suo tempo ad anelare qualcosa che poi, forse, non avrebbe raggiunto. Certo non si sarebbe sottratta alla fatica, ma l’avrebbe vissuta – nei limiti del possibile- con il sorriso sulle labbra.
Così voleva vivere; la realtà circostante però non pareva offrirle appigli solidi.
La sua migliore amica, Sonoko, non faceva che ricordarle come fossero sole, senza fidanzati, e per lei pareva un vero cruccio.
Suo padre, Kogoro, era impegnato nella risoluzione di più o meno difficili indagini al fianco dell’ispettore Megure e dei suoi agenti, ma negli ultimi tempi si profilava uno scontro ideologico tra la centrale di polizia e la questura cui rispondevano.
Cercava di essere ottimista, sperava di essere tanto forte da riuscirci. Qualche volta però l’incertezza ed il timore per il futuro vincevano la sua fermezza e si ritrovava a pensare cosa sarebbe successo; si immaginava tre o quattro anni nel futuro, e paragonava cosa le sarebbe piaciuto vedere a cosa credeva avrebbe probabilmente visto. Il sovvenire del tempo l’assaliva, e nei giorni più pesanti era debole e perciò non ne contrastava l’attacco.
Era ciò che le stava accadendo quando rientrò in casa, dopo gli allenamenti di karate che frequentava assiduamente da quando era una bambina. Pioveva a dirotto, i vestiti zuppi d’acqua le gelavano il corpo ed i capelli bagnati e grondanti le davano fastidio appiccicandosi attorno il collo e sulla fronte umidiccia.
Non appena si fu richiusa la porta alle sue spalle, tirò un sospiro di sollievo. E mentre si cambiava pensò bene di mettere il pigiama, dal momento che l’appartamento di sotto, e cioè dell’agenzia investigativa di suo padre,  era avvolto dal buio, neppure un riflesso di luce che fuoriuscisse dalle finestre.
Sbuffò, accoccolandosi sul divano mentre ancora si frizionava i capelli con un asciugamano.
Era sera ed era a casa da sola; sua madre Eri aveva lasciato la casa da molto tempo, e sebbene non avesse ancora chiesto il divorzio, i due coniugi vivevano oramai come fossero realmente separati.
Nonostante tutto, Ran non biasimava sua madre: talvolta Kogoro irritava anche lei!
Sapeva che si volevano ancora bene, e perciò confidava nel loro buon senso: prima o poi l’orgoglio avrebbe ceduto il passo all’amore e sarebbero tornati insieme – e lei non perdeva occasione di accelerare le cose, quando possibile. Mai.
Reclinò la testa ma gli occhi le volarono sul tavolinetto in legno di fronte la poltrona, dove troneggiava il giornale di quel giorno. Lo afferrò per avere notizie della giornata: aveva corso da una parte all’altra –scuola, supermercato, casa, palestra- che non ne aveva avuta neppure una lontana eco.
 
Cadavere rinvenuto all’interno di un vecchio capannone abbandonato, due anni fa sede di una importante società informatica e programmatistica.
Il corpo senza vita, trovato dagli agenti di servizio la notte passata, appartiene ad una giovane donna di circa venticinque anni, capelli castani. La sua identità rimane ancora sconosciuta agli inquirenti, benchè si segua la pista di un delitto passionale poiché la causa della morte è un colpo di arma da fuoco che le ha trafitto il petto. Voci di corridoio affermano che la polizia abbia già coinvolto nelle indagini il detective privato Shinichi Kudo, fuoriclasse che…
 
Ma Ran interruppe la sua lettura . A leggere quel nome il cuore le balzò in gola: Shinichi Kudo!
Faceva lo stesso lavoro di suo padre: era un detective privato. Molto giovane eppure molto bravo, famoso nel Giappone per aver risolto ogni caso gli fosse capitato tra le mani. Ancor più noto, però, per i suoi metodi decisamente poco ortodossi, come Kogoro spesso li definiva. A Ran invece piaceva chiamarli anti-conformisti, meravigliosamente contrari eppure convergenti alla forma appannaggio del contenuto: ad esempio, per lungo tempo si era discusso di come avesse permesso a due criminali pluriricercati, evasi di prigione durante il trasferimento del carcere di una più modesta cittadina a quello di  massima sicurezza della capitale, per correre a salvare la donna che avevano preso in ostaggio nella fuga.
“Li ha fatti scappare! Un investigatore che voglia dirsi tale non può permettersi di farsi sfuggire due malviventi del genere, sono sconvolto!” aveva commentato suo padre leggendo il giornale, ma il pensiero della figlia era agli antipodi:
-Ha preferito salvare la vita di una donna piuttosto che arrestare due uomini.-
Certo, avrebbe fatto meglio a fare entrambe le cose: trarre lei in salvo ed arrestare i criminali. Ma la totale perfezione non è di questo mondo, e di fronte alla necessità di scegliere lei aveva molto ammirato come Shinichi Kudo non avesse esitato neppure un momento a rivolgere le sue attenzioni all’ostaggio.
Aveva gioito però quando, due giorni dopo, la prima pagina di ogni giornale era stata di nuovo occupata da una sua foto, affiancata dalla didascalia: Kudo Shinichi blocca e permette l’arresto dei due fuggitivi nasakiani! *
Oppure, il caso in cui aveva impedito ad un serial killer di suicidarsi *; mentre si gettava da un parapetto lo aveva afferrato per la manica della giacca, riportandolo coi piedi a terra, pur immobilizzato.
Gridi allo scandalo: “Ma dove si è mai visto? Un altro delinquente ad ingombrare le prigioni, avrebbe fatto meglio a lasciarlo cadere…con tutto quello che ha fatto, poi? Non si merita di vivere!”
La reazione di Ran era stata invece opposta.
Lo stimava molto: anche perché, non esperta ma comunque conscia dell’ambiente di lavoro di suo papà, sapeva bene cosa questi particolari metodi e modi di pensiero comportassero: i commenti come quelli di suo padre, in primo luogo. La polizia che lo ostacolava, per lo più, a meno che non avesse a che fare con agenti particolarmente illuminati, come d’altronde lo era lui. Continui polveroni attorno alle sue gesta, polemiche, talvolta insulti – “Un ragazzino che finge di interessarsi ai suoi clienti e si riempie la bocca di parole come giustizia, senso civico e dovere, quando il suo scopo è la famosa triade: soldi, fama, donne” ; “Esaltato che si crede chissà chi, pieno di sé ed arrogante”; “Sbarbatello senza rispetto per le regole, le tradizioni, il buon costume, la legge stessa che crede di rappresentare e invece demolisce”; “Sedicente investigatore d’elite, si occupa solo di casi della statura della sua presunta abilità non riuscendo così a celare, pur ci provi, il suo snobismo e la sua aria da uomo di mondo”.
Dall’altra parte non mancavano voci, specie di autorità e protagonisti del mondo della giustizia e della legge, pronti a lodarlo e parlarne bene; avvocati, altri investigatori suoi colleghi, alcuni poliziotti non esitavano ad elogiarne la professionalità ed il buon cuore, l’impegno a tutto tondo e le capacità, fisiche come mentali, di rari eguali.
La sua personalità era complessa, e molto discussa; lo sarebbe stata comunque, ma il gran successo che di giorno in giorno acquistava attraverso giornali, riviste, televisioni e pettegolezzi ne aumentava il riflesso e le opinioni discordanti.
Ran conosceva le sue imprese a mena dito; ricordava il suo esordio, avvenuto all’estero: su un aereo diretto a Los Angeles aveva risolto il suo primo caso, e poi nella città si era occupato brillantemente di una seconda indagine; conosceva i dettagli della sua vita privata, pronta a recepire ogni informazione di tipo professionale o personale che i mass media avessero diffuso. Sapeva, ad esempio, che amava giocare a calcio, che era tifoso dei Tokyo Spirits, che sua madre era una famosa attrice e suo padre un grande scrittore –la sua opera più famosa, la saga del Night Baron; che però quando lui era ancora piccolo entrambi i genitori si erano trasferiti negli Stati Uniti per lavoro mentre lui aveva preferito rimanere in Giappone per terminare i suoi studi; che era stonato come una campana pur avendo un perfetto orecchio musicale…e mille altre dettagli colti qua e là da articoli, servizi di gossip, e interviste.
Eppure il termine fan era riduttivo per designarla; Ran non era propriamente una sua ammiratrice. Lo ammirava perché ne condivideva in tutto e per tutto l’idea di vita, i pensieri –o almeno quelli che credeva fossero i suoi pensieri: l’ideale di vivere serenamente, quasi alla giornata, ma non come invito alla rassegnazione, al contrario, come esortazione a cogliere dai giorni ciò che di più bello il destino ha da offrirti; la generosità che non cede il passo al rancore, alla vendetta o peggio ancora alla cattiveria, ma si nutre di nobiltà d’animo ed è tanto forte da porre al centro del tuo obiettivo l’altro, e non te stesso; il coraggio disinteressato, la speranza, l’ardore. Questo era il mondo per lei, e questo era Shinichi. L’universo riflesso nel particolare, la forza vitale compressa in una persona e pronta a deflagrare da un momento all’altro in un’esplosione di vita vissuta in ogni suo prezioso momento. Ne amava le risposte argute, forse saccenti ma puntuali¸ ai giornalisti che lo incalzavano con domande a trabocchetto; ne amava le repliche sincere, animose ai giornalisti che gli chiedevano senza malizia un commento o un pensiero su una data indagine o su un malfattore.
Inoltre, di certo non negava il suo aspetto: Shinichi Kudo era un bellissimo ragazzo. Non lo aveva mai visto dal vivo, neppure una volta: ma di certo tanto fascino non poteva essere contraffatto da un gioco di luci in una foto o da espedienti tecnici in una ripresa.
Era alto e slanciato, gli abiti non potevano nascondere ai suoi occhi da karateka un fisico sicuramente ben allenato. Capelli corvini spesso un po’ spettinati sulla fronte, la frangia che gli ricadeva sugli occhi esaltandone l’azzurro limpido, quegli stessi occhi che molto spesso in tv le erano parsi attraversati da una luce indefinibile, che insieme era intelligenza, ironia, sicurezza…in una parola, vita.
Le sarebbe piaciuto conoscerlo, ma era certa che non avrebbe saputo cosa dirgli. Non sperava in risvolti da film, il detective che si imbatte per caso nella ragazzina di turno che però è diversa da tutte le altre –ne doveva conoscere di donne!- e perciò se ne innamora pazzamente. Semplicemente, giacchè rappresentava una sorta di modello gli avrebbe fatto piacere che lui lo sapesse. Che fosse a conoscenza che, mentre trasgrediva un comma di una legge per evitare di usare un’esca, una ragazza lo ammirava e ne era fiera.
E che magari, quando le critiche superavano gli elogi e lui accendeva la televisione e vedeva i volti più noti dargli addosso, c’era comunque qualcuno che non l’avrebbe mai contestato: la sua caduta non sarebbe mai stata totale, rovinosa. D’altro canto, l’idea di poterlo conoscere la spaventava: e se lo avesse idealizzato? Se non fosse tutto quello che lei aveva creduto, se avesse solo proiettato sulla figura più opportuna una serie di idee e caratteristiche a lei care, e vedendolo il castello di carte sarebbe andato distrutto?
Non c’erano macchie sul suo nome, talvolta però dei fatti non erano chiari – specie a suo padre che, leggendo il giornale, commentava:
“Ma come ha fatto Kudo ad avere queste prove?”
“Come ci è entrato là dentro?”
“Come l’ha trovato questo tizio?”
Erano domande che galleggiavano in aria e non trovavano risposta. Kogoro alludeva a strani maneggi che non lo rendevano poi tanto dissimile dalle persone che davanti al mondo diceva di combattere, Ran si affidava al suo sesto senso –o alla sua idealizzazione?- e credeva che Kudo Shinichi avesse degli amici in polizia, o anche in forze della legge più forti, che gli passassero informazioni quando necessario. E che magari lui ne passasse a loro all’occorrenza: così Shinichi diveniva anche simbolo di taluni vincoli di fedeltà e amicizia che per lei erano sacri.
Sonoko la prendeva spesso in giro, quando la coglieva a divorare un articolo su di lui, o anche solo a pensare con occhi trasognanti e l’aria di chi si perde tra le nuvole:
“Kudo Shinichi, è vero? Ran, ma perché non ti concentri su qualcuno di reale? Ci serve un ragazzo, dobbiamo innamorarci!”
Ran voleva fidarsi. Era come se avesse deciso di sognare, ma sempre in presenza di ragione. Era perfettamente consapevole di abbandonarsi ad un’idea rischiosa, forse anche sbagliata: ma era un rischio che le piaceva correre, uno sbaglio che non le costava commettere.
Shinichi Kudo gli piaceva per la mente, il corpo, i modi.
Forse tutto l’astio e l’avversione che Kogoro esprimeva sul giovane collega quando ne leggeva le imprese doveva ricondursi a gelosia: sia quella propria di un padre che vede la sua bambina perdersi nel debole per un giovane uomo, sia quella proprio del detective che teme il confronto con un avversario potente; qualunque cosa si volesse dire su Kudo, i casi li risolveva. Li aveva sempre risolti. Tutti!
Non era mai caduto.
Kogoro non era simile a Shinichi; certo, era onesto e buono, non avrebbe mai permesso volontariamente a qualcuno di morire. Eppure, era molto più rigido nel rispetto delle regole, schematico nei ragionamenti, imprigionato nella convenzione del passato. Forse un po’ troppo ancorato alla vita di quando era giovane, ai metodi che vent’anni prima erano rivoluzionari, ma che vent’anni dopo erano divenuti abituali.
Era a cavallo tra due epoche: troppo fiducioso in quello che era stato per lanciarsi nel nuovo, troppo affezionato al suo lavoro per arenarlo completamente al vecchio e desueto.
Anni prima probabilmente era stato un abile investigatore, a suo modo innovativo e di mentalità aperta; ma col tempo, che fosse stato lui a cambiare, che fossero state le novità ad istituzionalizzarsi, Kogoro era divenuto un perfetto prolungamento del tipico sistema vigente, che magari accetta, a malincuore certo, ma comunque accetta di liberare un prigioniero per un vizio di forma.
Il rumore delle chiavi nella toppa la riscosse dalle sue riflessioni, e mentre il padre rincasava fradicio ancor più di lei, Ran si ritrovò a gettare il giornale più lontano possibile da lei, come si vergognasse ad essere sorpresa nella piena, ennesima, riflessione su Shinichi Kudo.
Gli corse incontro per aiutarlo a sfilare il soprabito bagnato, e dovette sopportarne le lamentele:
“Tutto il giorno in centrale, tutto il giorno! Per non scoprire niente…”
Da qualche tempo Kogoro Mouri era impegnato in un caso di rapina. L’ispettore Megure, da lungo tempo capo della centrale di Haido Choo, chiedeva la sua collaborazione per alcuni casi, sebbene per le indagini più difficili Kogoro stesso si trovasse spesso ad arrancare, incapace di sciogliere il nodo della matassa.
Nella banca centrale tra il quartiere di Haido e quello di Beika aveva fatto irruzione sabato mattina un rapinatore, la pistola alla mano e un enorme sacco di stoffa per raccogliere i soldi della refurtiva. Il suo complice l’aveva atteso in macchina, dall’altra parte della strada, e non appena quel sacco si era riempito l’altro l’aveva raggiunto, era saltato in macchina ed erano scappati insieme. Mentre gli agenti di turno accorsi cercavano di fermarli e gli sparavano contro le ruote, quelli mettevano in moto e se la davano a gambe.
L’automobile, prontamente rintracciata grazie alla ricerca della targa, era risultata ovviamente rubata; i soldi del furto non erano ancora stati spesi, o quanto meno non erano giunte segnalazioni di dispendio di banconote di alto valore di scambio.
“Riuscirete a prenderli, vedrai. Dovete soltanto avere pazienza: troverete quel qualcosa che vi porterà all’illuminazione, e poi alla risoluzione del caso.” Si morse la lingua quando si rese conto di aver utilizzato un termine –illuminazione!- caro a Shinichi Kudo. Lui parlava sempre di ‘momento di illuminazione, folgorazione che ti rende tutto il quadro più nitido, ti fa cogliere il bandolo della matassa e ti porta direttamente alla risoluzione dell’inchiesta’.
Fortunatamente Kogoro parve non accorgersene.
Sospirò, massaggiandosi la fronte: “Ho bisogno di una birra…”
“Ma papà!” lo riprese lei, pronta a ricordargli il viziaccio che aveva, ma fu interrotta:
“Quando sei rientrata?”
“Pochi minuti fa.”
“Così tardi?” si allarmò, all’idea che la sua bambina avesse percorso la strada di ritorno al buio, da sola, sotto la pioggia.
Ma soprattutto al buio, quando era già calata la sera: lavorare a stretto contatto con tante vittime, anche giovani donne, non lo aiutava ad essere un padre tranquillo.
“Sonoko mi ha accompagnata per un pezzo…”
“Sonoko sa sconfiggere i malintenzionati?”
“Lei no, ma io sì! Sono cintura nera, ricordi?” portò le mani ai fianchi, pronta a proseguire. Ma il padre detective tagliò corto:
“A che ora hai gli allenamenti, domani? Vengo a prenderti io.”
 
§§§
 
“Come mai non sei venuta con noi, Ran? Ieri sera ci siamo divertite un sacco!” la cintura marrone Yuki le lanciò scherzosamente addosso l’asciugamano, ma lei lo schivò con facilità.
“Oh, beh, avevo un po’ da fare…dovevo preparare la cena a mio padre!” borbottò, chiudendo con uno strattone la zip del suo borsone.
Entrambe si avviarono verso l’uscita, mentre una terza si aggiunse:
“Secondo me, ha ragione Suzuki quando dice che la tua cotta per quel Kudo è diventata una fissa! Non sei venuta con noi perché c’era qualche sua intervista in tv, non è vero?”
Lei si affrettò a negare: la profonda concordanza di idee con Shinichi Kudo rendeva la sua ammirazione per lui di natura sincera, e dunque intima. Non voleva che le sue amiche la vedessero come una specie di stalker fissata con un vip di alto bordo, ma non le andava neanche di mettersi a spiegare loro tutti i motivi per cui sentiva quel legame con lui. Addirittura, talvolta si era sentita così in comunione, anche solo spiritualmente con lui, da prendere l’abitudine di chiamarlo per nome quando lo pensava, quando ne parlava. Come fosse un suo amico.
Era una cosa che apparteneva a lei, e basta. Anche perché la risposta più plausibile, ed in effetti razionale, sarebbe stata: “Ma quale rapporto, Ran?! Sei matta? Quello è così tra preso tra poliziotte, modelle e attrici che non sa neanche che esisti!”
Ed era vero, in effetti. Ma lui le interessava anche solo come portatore di principi simili, identici ai suoi, in quel mondo che spesso pareva chiudersi a lei e alle possibilità che sperava di cogliere.
Si congedò in fretta dalle compagne di corso per rivolgere gli occhi alla porta della palestra, dove suo padre l’aspettava. Aveva detto la verità la sera prima, e aveva mantenuto la promessa: era andato personalmente a prenderla.
Ran sorrise, toccata: sebbene spesso Megure fosse severo e un po’ burbero, Kogoro non esitava un attimo se lei aveva bisogno di lui, anche si trattasse di una sciocchezza. Le voleva molto bene, era un buon padre: e Ran lo sapeva.
Fece per avvicinarsi a lui, quando scorse la porta aprirsi e fare il loro ingresso nella sala due agenti e l’ispettore stesso. Comprese immediatamente dalle loro facce scure come ci fossero novità sulla rapina e come i poliziotti avessero deciso di informare immediatamente Kogoro; e allora decise di fermarsi un po’ distante da loro, e si sedette sugli spalti più alti per concedere il tempo di parlare di quegli argomenti top secret.
Dall’alto li guardò, otto o nove gradini più in basso, discutere al posto dove lei, durante gli allenamenti, combatteva contro il suo avversario.
La porta si aprì di nuovo, e Ran pensò:
-Ecco, temo che dovrò aspettare parecchio…- ma non ebbe ulteriore tempo per lamentarsi.
Prima ancora che il suo cervello recepisse la situazione, il cuore prese a tamburellarle nel petto e un brivido le attraversò la schiena. Battè un paio di volte le palpebre per assicurarsi di aver visto bene, sporgendosi lievemente con la testa oltre le ginocchia per focalizzare meglio l’obiettivo a distanza.
Non ebbe alcun dubbio.
-Shinichi!-
Il giovane detective prodigio aveva fatto il suo ingresso nella palestra.
 
 
 
 

                            §§                            §§                            §§                            §§                              §§                         
 
 
 
Precisazioni:
 
 
Nasakiani: della città di Nasako.
 
I casi citati en passant del serial killer, dell’aereo e Los Angels si riferiscono a fatti effettivamente creati da Gosho, ma che io ho un po’ adeguato alla mia narrazione. Diciamo che ho mantenuto un appiglio alla realtà e poi da lì ho tratto le mie conclusioni. 
   
 
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