QUINDICI
ANNI E MEZZO
Buio
e
freddo. E umidità, molta umidità. Ma
d’altronde quella era pur sempre una
cella, una cella con i muri di pietra e una minuscola fessura che
faceva da
finestra. Il filo di luce che entrava illuminava i segni di un
raccapricciante
color rosso scuro sulle pareti. Lugubre, vero? No, non era sangue di un
prigioniero pazzo, solo il frutto di uno stancante lavoro di calcolo
fatto con
un frammento di mattone. Quindici segni, più uno lasciato a
metà. Quindici anni
e mezzo. Da quindici anni e mezzo non vedevo altro che quella cella,
quella
fessura, quel minuscolo frammento di cielo all’esterno,
quella porta di nero
legno massiccio, quello sportello per far passare il cibo senza dover
vedere il
disgraziato all’interno. E in questo caso il disgraziato ero
io, rinchiuso in
quell’anticamera d’Inferno senza altra colpa se non
quella di possedere un
cuore, tenuto in vita dalla speranza che un giorno sarei risorto per
vendicarmi. Dicono che la speranza sia sempre l’ultima a
morire. Chiunque lo
dica ha ragione, credetemi. I primi anni speravo di convincere i
carcerieri a
farmi uscire, poi cominciai a pregare nella speranza che Dio potesse
salvarmi.
Arrivai persino a considerare il suicidio, sperando di poter trovare un
modo
per vendicarmi anche dall’aldilà. Naturalmente non
ci provai mai per davvero,
ma le mie speranze svanirono come fumo. Perché in fondo,
alla fine, anche la
speranza muore. E, come potete vedere, nemmeno chi afferma
ciò ha torto. Dopo
quindici anni e mezzo passati là dentro non credevo
più in niente che non fosse
la dura e cruda realtà: ero in galera e ne sarei uscito solo
morendo o, molto
poco probabilmente, vendendo l’anima al Diavolo. Eppure un
giorno qualcosa mi
spinse a ricominciare a sperare e a credere: dopo quindici anni e mezzo
la
porta della mia cella si aprì. E ad entrare non fu un
carceriere, ma un uomo e,
fidatevi di me, c’è molta più
differenza di quanto non crediate. Oltretutto
quell’uomo era un lord, niente meno, e la cosa mi sembrava
più interessante
ogni istante che passava. Mi alzai in piedi e lo salutai cortesemente,
abitudini dure a morire anche dopo quindici anni e mezzo passati in
galera. Lui
rispose con un semplice cenno del capo, poi si richiuse la porta alle
spalle e
mi squadrò attento. Per un attimo riuscì anche a
farmi sentire in imbarazzo.
«Chi siete?»
chiesi allora con la voce roca per il poco uso che ormai ne facevo. Mi
fissò
ancora per qualche secondo, poi mi rispose:
«Lord Trevor
D’Vhille. Ora, mi piacerebbe sapere il vostro nome, e quale
delitto abbiate
commesso per trovarvi qui.» La sua voce era sottile e poco
profonda, ma molto,
molto suadente, anche troppo per i miei gusti.
«Prima ditemi
perché siete qui.» Non ero nella posizione di dare
ordini, lo so, ma quell’uomo
mi incuriosiva e mi spaventava al tempo stesso.
«Sapete, non
è cortese rispondere ad una domanda con un'altra
richiesta.» Mantenni
stoicamente la calma, ma il mio sguardo si incupì, mentre mi
decidevo a parlare.
«Il mio nome
è Gabriel. Sono qui senza altra colpa se non quella di aver
amato la donna
sbagliata.» Mi sembrò di vederlo fare una smorfia,
ma non posso giurarlo.
«Siete qui
per amore?» chiese incredulo «Ci
dev’essere uno sbaglio…ma, vi prego,
raccontatemi tutto, perché immagino che ci sia sotto
qualcosa di più.»
Immaginava bene. Così comincia la mia storia con un sospiro.
«Amavo una
donna, una donna bellissima, si chiamava Isabella…»
«Si
chiamava?» mi interruppe vagamente sorpreso «Cosa
le è successo?»
«Non posso
esserne certo, sono rinchiuso qui dentro da quindici anni e mezzo, ma
era
incinta di mio figlio quando fui arrestato e se non è morta
dandolo alla luce
allora avrà subito una sorte anche peggiore da quel bastardo
di suo marito se
ha capito che il padre sono io e non lui.» Avevo pensato a
lungo a quello che
effettivamente poteva esserle successo e quelle erano le uniche
conclusioni che
ero riuscito a trarre. Lord Trevor mi guardava in attesa che
continuassi, ma
non avevo molto da aggiungere.
«L’avrei
ucciso se Isabella me l’avesse permesso, ma lei non voleva
scandali e mi
minacciò di andarsene se avessi provato ad attuare i miei
piani. Così, alla
fine, il bastardo ci scoprì e quando vide che ero io
l’amante di sua moglie
rimase così…stupito, e deluso, forse, che ho
ancora in mente la sua
espressione.» Allora risi al ricordo e ne rido ancora adesso.
«Fu lui stesso a
portarmi qui. Entrò con me, poi se ne andò, si
chiuse la porta alle spalle e
gettò via la chiave.» Il rancore colava dalle mie
parole come miele da un fuso.
Avevo parlato troppo, ma non avrei detto una parola di più
se non per chiedere
spiegazioni.
«Sapete chi è
l’uomo che vi ha rinchiuso qui?» mi chiese
incuriosito.
«Sì.» risposi
secco, senza esitazione «Ma non vedo come il suo nome posa
importarvi.»
aggiunsi vedendolo già pronto con la domanda.
L’uomo sorrise e piegò il capo.
Era il momento di scoprire la fonte della mia momentanea fortuna.
«Perché siete
qui? Che cosa volete da me?» Per un attimo rimase in silenzio
soppesando le
parole, poi, con un tono che mi fece venire i brividi, disse:
«Sono qui per
offrirvi la libertà.» Spalancai gli occhi,
convinto che mi stesse prendendo in
giro, sentendomi sul punto di svenire. Libertà.
Che suono dolce aveva quella parola che ormai avevo quasi scordato.
Però il
dubbio rimaneva: che diavolo voleva quell’uomo da me?
«Naturalmente»
riprese come se mi avesse letto nel pensiero «voglio qualcosa
in cambio.» E il
modo in cui lo disse, con quel suo sorriso storto, mi fece gelare il
sangue
nelle vene. Quell’uomo cominciava seriamente a farmi paura,
ma il profumo della
libertà, vicino come mai prima d’ora, mi stordiva
al punto da farmi dimenticare
persino il mio nome.
«Quanto vale
la mia libertà?» domandai con voce bassa.
«Voi quanto
siete disposto ad offrire?» Sorrideva, continuava a sorridere
e sapeva già la mia
risposta.
«Tutto.»
«E se io vi
chiedessi di uccidere un uomo per uscire di qui?» Di nuovo,
sapeva già
cos’avrei detto e il suo sorriso si allargò ancora
di più.
«Per la
libertà questo ed altro.»
«Badate che è
un grande guerriero quest’uomo…»
Continuava a darmi l’impressione di sapere, e questa
volta non solo la mia risposta, ma anche tutto quello che non avevo
detto nel mio
racconto. Aveva ripreso a squadrarmi così attentamente che
sentivo i suoi occhi
piantati nella mia anima. Un rivolo di sudore freddo mi scese lungo la
schiena
mentre parlavo.
«Ditemi il
nome ed entro un anno avrete la sua testa su un piatto
d’argento.»
«Posso starne
certo?»
«Io pago
sempre i miei debiti.» Il suo sorriso, inquietante nella luce
sanguigna del
tramonto, si allargò a tutto il volto.
«Splendido!»
Si avvicinò, mi poggiò una mano sulla spalla e mi
attirò a sé. Poi, con le
labbra accostate al mio orecchio, sussurrò il nome. E nel
silenzio della
prigione echeggiò la mia risata soddisfatta per quella
vendetta che finalmente
mi veniva concessa.
Pioveva
quella notte e mai la pioggia mi era sembrata più bella.
Lavava via quei
quindici anni e mezzo di sofferenze e prigionia, mi lasciava
più leggero, mi
faceva sentire libero con ogni sua goccia che mi sfiorava la pelle.
Spalancai le
braccia per lasciarmi avvolgere da quella splendida sensazione e per la
prima
volta dopo quindici anni e mezzo sorrisi, finalmente felice. Ora,
grazie a
quell’uomo misterioso, potevo comprarmi una nuova vita e
vendicarmi,
fregandomene altamente della morte perché non mi faceva
più paura ora che ero
di nuovo un uomo libero. Ho pochissimi ricordi dei giorni successivi
alla mia
liberazione forse perché ero troppo impegnato a riprendere
il contatto con la
realtà, bruscamente interrotto quindici anni e mezzo prima.
La mia memoria
riprende a seguire un filo coerente solo con il ricordo del mio arrivo
a un
castello o, per essere più precisi, al palazzo reale, dalla
mia bellissima
Isabella, incontro alla mia vendetta e al debito che dovevo pagare a
lord
Trevor. Mi aveva chiesto di uccidere un uomo, un uomo che conoscevo
come le mie
tasche e il cui nome era Rafael Dargon. Il marito di Isabella.
L’uomo che mi
aveva distrutto la vita. E non solo questo. Inizialmente non mi fecero
entrare,
ma lo presi come un buon segno: significava che nessuno mi aveva
riconosciuto e
d’altra parte come dar loro torto? Nessuno mi vedeva
più da quindici anni e
mezzo e la prigione mi aveva cambiato profondamente sia nel corpo che
nello
spirito. Vidi passare il castellano, gli anni erano stati molto meno
clementi
con lui che con me, e lo presi in disparte senza che lui capisse chi io
fossi.
Avevo un solo modo per entrare e sapevo che avrei dovuto giocare al
meglio le
mie carte e le mie doti da attore.
«Sono un
amico di vecchia data del re.» esordii con il mio sorriso
migliore «Vorrei
parlare con Rafael, è possibile?»
«Sua Maestà
il re in questo momento è occupato, ma posso farvi
annunciare più tardi.»
rispose ossequioso.
«No, amico
mio, è una cosa troppo urgente. Va’ a dirgli, e
usa le mie testuali parole…»
presi un profondo respiro «che Gabriel è
tornato.» L’uomo sgranò gli occhi e
fui costretto a tappargli la bocca con una mano prima che si mettesse a
urlare
di gioia. La tolsi solo quando si fu calmato. Aveva le lacrime agli
occhi e tremava
tanta era la felicità di rivedermi. Intuii che Rafael non
gli aveva detto nulla
di quello che mi aveva fatto. Mi fece entrare e mi condusse in
un’ala isolata
del palazzo, sempre più vicino alla mia meta.
Oltrepassò una porta e mi lasciò
lì ad aspettare fino a quando non sentii una voce simile
alla mia urlare. Vidi
il vecchio castellano uscire dalla stanza con il volto pallido e subito
dopo
apparve lui.
«Sembri
stupito di vedermi, Rafael.» Dentro di me ridevo come un
pazzo per la sua
espressione: se si fosse trovato davanti un fantasma sarebbe sembrato
meno
sconvolto. Ma in fondo anche io per lui dovevo essere un fantasma. O
per lo
meno un morto. Senza attendere un suo permesso lo superai ed entrai
nella
stanza. All’interno c’era solo un ragazzino che
dava quindici anni al massimo. Quando
si voltò vidi la mia immagine riflessa in uno specchio con
vent’anni di meno e
gli occhi neri come il peccato. Il figlio di Isabella. Mio figlio.
«Io e
quest’uomo dobbiamo parlare. Lasciaci soli,
Gabriel.» Mi girai a guardare
Rafael e capii che si rivolgeva al ragazzo. Ghignai.
«Gentile da
parte tua dargli il mio nome. Anche se immagino che sia opera di sua
madre.» Estrasse
fulmineo la spada e me la puntò al petto.
«Tu sua madre
non sei nemmeno degno di nominarla!» Erano quindici anni e
mezzo che non
aspettavo altro.
«Tu dici,
fratello?» Fratello. Quella parola mi aveva lasciato
l’amaro in bocca. Forse
era troppo tempo che non la usavo. O forse il nostro tradimento aveva
lasciato
il suo segno. No, non ho mentito, ma ho tenuto nascosto un particolare
interessante della mia storia. Rafael Dargon non era solo il marito
della donna
che amavo e l’uomo che mi aveva fatto arrestare. Era anche
mio fratello. Io
sono stato il primo traditore, non accettando che Isabella fosse solo
sua. Ma
lui tradì il sangue che ci scorreva nelle vene sbattendomi
in galera. E ora,
dopo quindici anni e mezzo, lo sfidavo sotto gli occhi di mio figlio,
sangue
del mio sangue e allevato da Rafael. Ci giravamo intorno, le lame
parallele che
riflettevano la luce delle candele, gli occhi che rimandavano lo stesso
sguardo
carico d’odio, i nostri cuori neri avvolti dalle stesse
fiamme d’Inferno.
«Non c’eri tu
mentre soffriva, mentre piangeva, non c’eri tu mentre moriva
per dare alla luce
suo figlio!»
«Mio figlio, Rafael! Se
stai dicendo la
verità, abbi il coraggio di dirla tutta!» Il
ragazzo ci guardava confuso, non
sapeva più cosa pensare, ma aveva capito tutto. Mi voltai
per guardarlo negli
occhi. Erano identici a quelli di Isabella.
«Lasciaci,
Gabriel.» mi fece uno strano effetto chiamarlo con il mio
stesso nome. «Io e
tuo zio abbiamo da risolvere una faccenda rimasta troppo a lungo in
sospeso.»
Per un secondo, un secondo soltanto, cercò consenso negli
occhi di mio
fratello, poi, tenendo lo sguardo fisso su di me, uscì dalla
stanza. Eravamo
soli. Io e mio fratello. Gabriel e Rafael. Rafael e Gabriel. Dargon.
Due nomi,
un solo peccato. Quello del tradimento.
«Perché sei
tornato?» mi chiese tenendomi sempre sotto tiro con la spada.
«Per finire
quello che abbiamo cominciato quindici anni e mezzo fa.» Lui
annuì. E finalmente
il nostro duello potè avere inizio. Quel giorno uno di noi
due sarebbe morto,
ma fino alla fine sarebbe stato difficile indovinare chi,
perché per anni
avevamo combattuto insieme, come bambini con spade di legno
all’inizio, come
soldati in piena guerra anni più tardi. E per una sola sera,
quindici anni e
mezzo prima, anche come avversari. Conoscevamo l’uno le mosse
dell’altro ed
eravamo in grado di prevedere anche gli attacchi più sleali.
Tutto perfettamente
equo, fino alla fine, fino a quel secondo di tregua, troppo stanchi
persino per
riprendere fiato. Continuavamo a combattere con sguardi taglienti come
le lame,
ma che forse ferivano di più per tutte le parole non dette e
per tutto l’odio
che trasmettevano. Non poteva continuare così. Dovevamo
mettere un punto di
fine a tutto questo. Ancora una volta il destino si fece beffa di noi.
La
stessa idea, lo stesso istante, lo stesso affondo. Sentii la voce di
mio
fratello gridare di dolore assieme alla mia. Cademmo in ginocchio,
sempre uno
di fronte all’altro, feriti a morte, ma meno stupiti di
quanto avremmo dovuto
essere. Il pavimento di marmo bianco si macchiò di sangue,
il nostro sangue di fratelli, di
traditori,
di dannati. Con uno sforzo immane estrassi la spada di Rafael dal mio
ventre e
sentii una colata calda bagnarmi le mani. Altro sangue, ma questa volta
solo il
mio. Alzai gli occhi e vidi che mi fissava come aveva fatto mio figlio
prima.
Il suo sguardo era opaco per il dolore, ma potevo leggervi quello che
mai mi
sarei aspettato: affetto. Era riuscito a perdonarmi, nonostante tutto.
Io non
sono mai stato capace di farlo. Mi avvicinai a lui, lo abbracciai e,
con le
lacrime agli occhi, gli trafissi il cuore con la sua stessa spada.
Rafael Dargon,
figlio, fratello, marito, padre e re, morì tra le mie
braccia. Mi lasciai
cadere all’indietro, sempre stretto al corpo di mio fratello,
e vidi un’ombra
uscire dall’oscurità per prendere la forma
dell’ultimo uomo che mi sarei
aspettato di vedere.
«Ho pagato il
mio debito.» sussurrai con un filo di voce. Quando lo vidi
sogghignare mi fu
tutto improvvisamente chiaro. Esalai l’ultimo respiro
guardando il Diavolo che,
ancora nascosto dalla maschera di lord Trevor, ci tendeva la mano
sorridendo
sornione.
Note dell'Autrice:
Questa è la mia prima ff quindi chiedo clemenza se è illeggibile... e poi è nata quando ero a letto con 38 e mezzo di febbre, per cui...!
Spero vivamente che vi piaccia... Fatemi sapere e lasciate una minuscola recensione, anche negativa! ^^'