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Autore: lady_cocca    17/06/2014    2 recensioni
Strizza gli occhi dietro le sue lenti spesse, tentando di far combaciare l'immagine di quel Charles con quella del Charles che aveva incontrato ormai quasi undici anni prima nel suo laboratorio alla CIA. Ma per quanto si sforzi, non può fare a meno di chiedersi se il ricordo che ha di lui non sia piuttosto il prodotto distorto della sua memoria. Ci sono delle volte, mentre lo osserva versarsi un bicchiere di bourbon dopo l’altro, in cui la mancanza dei loro vecchi amici si fa più forte: è in quei momenti che desidererebbe avere al suo fianco qualcuno che gli confermi che il Charles di una volta è davvero esistito, qualcuno che gli assicuri che quel Charles potrà in futuro tornare.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Dottor Henry 'Hank' McCoy/Bestia
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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N//A: Scritta per il All things Marvel Summer Fest della community spandex_ita con il prompt Hank & Charles, confessioni.
Timeline: ambientata tra X-Men: First Class e X-Men: Days of future past. Più precisamente, nel 1973 (appena prima del viaggio di Logan nel passato).
È il mio primo esperimento nel fandom e posso solo dire che i livelli di ossessione provocata dai film sugli X-Men che ho raggiunto da due/tre mesi a questa parte sono davvero vergognosi (e la colpa, almeno in parte, è anche di uno stupidissimo cast di idioti patentati che va in giro a gayeggiare impunemente e a mostrare culi ---> #MCAVOYVATTENE). Ringrazio la mia preziosa beta Marta, che ha accetto di prendere sulle sue spalle il carico di angst che le stavo lanciando addosso. ;)
Enjoy. <3


Confessioni.

A volte, quando la sua auto supera il cancello della tenuta ma la sua mente è distratta dal pensiero di qualche nuovo esperimento, non ricorda subito. Le sue orecchie si tendono istintivamente, pronte a cogliere un brusio provenire dalle finestre del primo piano, dove si trovano le camere degli studenti; i suoi occhi vanno agli alberi che fiancheggiano il viale d'accesso, attenti a scorgere il più lieve movimento che possa rivelare la presenza di qualcuno – probabilmente Alex, spalleggiato da Sean - intenzionato a tirargli qualche stupido scherzo. Ma più di ogni altra cosa, si aspetta di sentire da un momento all'altro il tono rassicurante ma fermo
del Professore mentre parla con uno dei suoi alunni.
È solo quando l'istituto si staglia davanti a lui, con le sue scuri appena socchiuse nonostante la bella giornata, che si accorge del silenzio assordante prodotto dalle voci che ormai non ci sono più.
"Sono tornato!" annuncia nel varcare la soglia, senza attendersi realmente una risposta che sa non sarebbe arrivata - come non lo aveva fatto negli ultimi otto anni. E, infatti, anche questa volta, ad accoglierlo è il silenzio di un atrio in penombra, a cui lui fatica ad abituarsi; quando ci riesce, lo scorge accasciato su uno dei gradini, ma ormai quasi non ricorda la sensazione di panico, o quantomeno di sorpresa, che nei primi tempi una simile vista gli procurava. Sa esattamente cosa fare: sono azioni che ha ripetuto decine di volte, da quando lui e Charles sono rimasti soli in quell'abitazione. È perciò con pieno autocontrollo che si reca nel suo laboratorio, per riemergerne poco dopo con una siringa. Improvvisamente, però, l’assoluta razionalità che in quel momento governa i suoi pensieri e la fredda meccanicità dei suoi movimenti lo lasciano nauseato.
Charles è poggiato contro il corrimano, la testa affondata tra le ampie maniche di una vestaglia consunta dall’uso – e di non recente lavaggio, considerate le numerose chiazze di cibo che la punteggiano. "Charles", lo scuote leggermente, ottenendo in risposta un lamento soffocato. "Ti avevo avvertito che l'effetto del siero sarebbe probabilmente svanito prima che io tornassi", lo ammonisce debolmente, iniettandogli con gesti esperti una nuova dose che, secondo i suoi calcoli, dovrebbe durare almeno un paio di giorni. "E infatti ti avevo raccomandato di restare in camera tua", la sua stessa voce gli giunge piatta e stanca. Non saprebbe dire quante altre volte si era trovato a ripetergli quelle stesse parole, o altre molto simili. Si chiede da quanti anni Charles abbia smesso di dargli retta, e da quanti lui abbia semplicemente rinunciato a farsi ascoltare, continuando a dargli consigli che sarebbero rimasti inascoltati solo per abitudine.
Lo fissa in silenzio, in attesa che il siero faccia effetto quel tanto che basta per consentire a Charles di raggiungere la sua stanza reggendosi sulle proprie gambe – nonostante la quantità non indifferente di alcool che indubbiamente ha in corpo non faciliterà la cosa.
Strizza gli occhi dietro le sue lenti spesse, tentando di far combaciare l'immagine di quel Charles con quella del Charles che aveva incontrato ormai quasi undici anni prima nel suo laboratorio alla CIA. Ma per quanto si sforzi, non può fare a meno di chiedersi se il ricordo che ha di lui non sia piuttosto il prodotto distorto della sua memoria. Ci sono delle volte, mentre lo osserva versarsi un bicchiere di bourbon dopo l’altro, in cui la mancanza dei loro vecchi amici si fa più forte: è in quei momenti che desidererebbe avere al suo fianco qualcuno che gli confermi che il Charles di una volta è davvero esistito, qualcuno che gli assicuri che quel Charles potrà in futuro tornare.
Sospira, e allontana quei pensieri infantili con un gesto della mano: non è tanto ingenuo da credere che Charles sarebbe potuto rimanere il se stesso del ’62. Per quanto sia difficile, Hank deve accettare il fatto che quell’uomo appena trentenne, i cui scritti tanto carichi di entusiasmo e passione lui aveva letto e studiato, fosse semplicemente cresciuto, e non sarebbe tornato. Forse, Charles avrebbe ritrovato se stesso, un giorno, e riscoperto le ragioni per cui l’Istituto era stato in primo luogo fondato, ma non sarebbe mai guarito davvero – non solo fisicamente.
Nei pochi anni in cui la scuola era stata attiva, Hank aveva già notato dei profondi cambiamenti in lui. Tuttavia, Charles si era sempre sforzato di non dar a vedere quanto profonde fossero le ferite infertegli da coloro di cui più si era fidato. Aveva voluto mostrarsi forte per chi, come lui, era rimasto al suo fianco, continuando a credere in lui e nel suo progetto, per i professori che si erano uniti a loro durante il percorso e soprattutto per i ragazzi, che aveva sempre accolto come fossero suoi fratelli, prima che suoi allievi. (Chissà se, nel guidarli e nell’insegnare loro tutto ciò che aveva da offrire, si era mai soffermato a chiedersi se qualcuno di loro l’avrebbe abbandonato come aveva fatto Raven.)
“Hank?”.
Si costringe a non incrociare il suo sguardo. “Mmh?”
“Mi aiuteresti a tornare in camera, per favore?”, gli chiede con voce roca, mentre si artiglia alle sue spalle per rimettersi in piedi. Una volta riacquistato un per quanto instabile equilibrio, si lascia trascinare fino al letto, sebbene più di una volta abbia rischiato di rovinare a terra, trascinando con sé l’amico.
Proprio quando Hank si sta per congedare, però, Charles lo richiama.  
“Hank?”, lo trattiene per un braccio.
“Cosa?”    
“Guardami”, gli ordina, e quando Hank si volta verso di lui, rimane colpito da quanto poco il suo tono perentorio si accordi con la vulnerabilità della sua espressione. “Ho notato che non l’hai ancora fatto”.
Hank si sistema nervosamente la montatura degli occhiali sul naso. “Non capisco cosa tu intenda dire”.
“Non mi hai ancora guardato negli occhi. Non lo fai da giorni”.
“Ascolta, Charles…”
Lui lo interrompe con un gesto della mano. “Non devi giustificarti. Lo capisco: nemmeno io ho il coraggio di guardarmi. Ti starai probabilmente chiedendo come abbia fatto a ridurmi in queste condizioni”.
Questa volta, è il turno di Hank di intervenire prima che Charles abbia la possibilità di proseguire. “Credimi, non…”, sospira e si passa stancamente una mano tra i capelli. “È che tu-”
“Ti ho deluso”.
Hank rimane senza respiro. “Cosa?”
Il sorriso di Charles lo fa rabbrividire. Ricorda bene l’ultima volta in cui ne ha visto un altro identico sul suo volto: è stato in un’epoca che sembra lontanissima; una spiaggia a fare da sfondo.
“Va tutto bene, amico mio. Non posso rimproverarti nulla; dopotutto, sei l’unico ad essermi rimasto vicino per tutto questo tempo. Pensavo di potervi aiutare”, ride con amarezza. “E invece ho scoperto di non essere nemmeno in grado di aiutare me stesso”.
Hank scuote la testa con convinzione. “No. Quello che tu hai fatto per i mutanti non è qualcosa che dovresti mettere in discussione. Prima che tu li trovassi, nessuno di loro sapeva spiegarsi a cosa fossero dovute le loro abilità e per lo più si ritenevano degli abomini. L’unico loro desiderio era quello di mimetizzarsi con gli umani e  nascondersi: io ne so qualcosa. Tu, però, hai mostrato loro che soli non erano affatto e che c’era tanto sui loro poteri che avevano da imparare per poterli sfruttare al meglio. Purtroppo, la guerra ha allontanato molti di loro, ma non per questo quello che noi abbiamo cercato di fare fondando l’Istituto è stato meno importante”.
Charles impiega qualche secondo per assimilare le sue parole, ma il suo sguardo rimane scettico. “Forse, ma è comunque stato inutile, perché quando è giunto il momento di proteggerli davvero e tenerli al sicuro, ho fallito”.
“C’è una guerra in corso. Ed è qualcosa che nemmeno tu puoi controllare, per quanto forti siano i tuoi poteri”, ribatte prontamente.
Charles si lascia ricadere all’indietro, atterrando sui cuscini. “Non ho più i miei poteri, Hank, ma so ancora riconoscere uno sguardo deluso, quando ne incontro uno”.
Hank sospira. Aveva creduto – e in fondo un po’ sperato – di non dover mai affrontare quella conversazione con Charles. È stato forse codardo da parte sua rimandare quel momento, ma il punto è che sarebbe tutto più semplice se il Professore potesse entrare nella sua mente e vedere da sé ciò di cui ha bisogno, così che lui non sia costretto a cercare le parole giuste.
Hank è stato l’unico ad aver assistito all’intera parabola discendente di Charles. In quegli ultimi otto anni, l’ha visto toccare il fondo, solo per scoprire che, scavando appena un po’, un abisso ancora più profondo si apriva sotto di lui. L’ha visto cambiare fino al punto in cui la sua vista gli è risultata insostenibile, e non perché si senta da lui tradito, ma perché sa di essere stato in buona parte complice di quel declino inesorabile e di poter scorgere in lui i segni delle sue stesse responsabilità.
Sebbene non ne sia stato in prima persona la causa, infatti, è stato pur sempre lui a fornirgli i mezzi per proseguire in quell’opera di autodistruzione: dapprima, accettando di sviluppare per lui il siero e allontanandolo così da quei poteri che erano l’ultima cosa a tenerlo ancora legato al mondo dei mutanti, e poi osservandolo impotente mentre la dipendenza dall’alcool e dalle droghe lo sopraffacevano. Non è tanto presuntuoso da ritenere di essere tra coloro che sarebbero in grado di farlo risalire dal baratro – solo due persone potrebbero farlo -, ma sa anche di non aver sempre fatto tutto quello che era in suo potere per contraccambiare quell’uomo che tanto tempo aveva dedicato a lui e ad altri come lui.
“Quel giorno, a Cuba, Raven ha chiesto a Moira e a tutti noi di prendersi cura di te, e io ho cercato di mantenere quella promessa” (Non avrebbe sopportato, dopotutto, l’idea che il suo nome si aggiungesse alla lista di coloro che avevano abbandonato Charles.) “Ma so di non aver sempre fatto le scelte più giuste. Sono stati anche i miei sbagli a condurci fino a qui, perciò, ecco, non sei tu la causa della mia delusione”, il suo sguardo è adesso fisso in quello di Charles.
“Ma non c’è nulla di cui tu debba rimproverarti, amico mio”, lo contraddice il Professore. “La verità è che, dopo Cuba, decisi di non lasciarmi in alcun modo distrarre dai miei obiettivi, ma era inevitabile che, prima o poi, ciò che era successo su quella spiaggia sarebbe tornato a perseguitarmi. Ho semplicemente rimandato il momento, e queste”, dice indicando con un gesto stanco della mano la stanza polverosa e buia intorno a sé, i fogli sulla scrivania ormai intoccati da anni - se stesso. “Ne sono le conseguenze. Ma non c’è assolutamente nulla che tu possa fare per me in più di quel che già fai quotidianamente”.
I due rimangono in silenzio per un po’, ciascuno assorto nei propri pensieri; quelli di Hank sono rivolti a Raven. La rivede mentre gli punta addosso i suoi occhi ambrati. E ricorda, Bestia, mutante e fiero.
“Ci sono dei giorni, come oggi, in cui Raven mi manca più del solito”, esordisce d’un tratto Charles, e Hank si chiede per un attimo se l’altro abbia sbirciato nella sua mente, nonostante sappia che l’effetto del siero glielo impedisce. “Purtroppo, ho commesso l’errore di dare per scontato che, in quanto mia sorella, sarebbe rimasta al mio fianco. La sua decisione di seguire Erik mi ha ferito, è vero, ma non posso realmente rimproverarle qualcosa. Lei aveva più di una volta cercato di attirare la mia attenzione sulla sua difficoltà nel trovare un’identità che sentisse appartenerle del tutto, ma io sono stato troppo stupido e cieco per accorgermi di quanto avesse bisogno del mio aiuto. Pensavo che fosse in grado di cavarsela da sola, mentre Erik ha subito capito quali fossero le sue debolezze e le ha sapute sfruttare a proprio vantaggio, offrendole quelle risposte che io non ho saputo darle. Perciò, potrebbe sembrare paradossale, considerato il fatto che Raven è a tutti gli effetti mia sorella e che siamo cresciuti contando unicamente l’uno sull’altra, tuttavia non è da lei che mi sono sentito più tradito, ma da Erik. Ho sperato che accedere ad alcuni ricordi della sua infanzia e trascorrere alcune settimane fianco a fianco fosse stato sufficiente ad avvicinarci e a consentirmi di capirlo. Sono stato abbastanza ingenuo – o arrogante – da credere di essere riuscito a fargli cambiare idea sui suoi piani di vendetta e, addirittura, a convincerlo della necessità di vivere nell’anonimato e insegnare ai mutanti come tenere sotto controllo i loro poteri. Mi sono illuso di aver trovato in Erik un animo affine, ma evidentemente le differenze tra di noi erano troppe perché potessimo imparare ad accettare le idee dell’altro e trovare un punto d’incontro”.
Hank intuisce dalla loro impeccabile coerenza che, su quei pensieri, Charles si è soffermato decine e decine di volte nel corso degli anni. Probabilmente, all’inizio, erano stati appena un abbozzo confuso, un accozzaglia di sentimenti indistinti che, col tempo, aveva analizzato e studiato, fino a dar loro un nome e una giustificazione precisa. E ora che il Professore ha espresso ad alta voce tutto quanto era rimasto taciuto per anni, confidandosi proprio con lui, Hank rimane spiazzato. La sicurezza che poco prima, nel soccorrerlo, ha dimostrato, è svanita per lasciar posto a un senso di disagio e imbarazzo. Non sa cosa dire e, d’altro canto, non è nemmeno sicuro che Charles si aspetti davvero che lui dica qualcosa.
Ma ancora una volta Charles sembra indovinare ciò che gli passa per la testa. “Immagino che avessi solo bisogno di parlarne con te, e spero che tu sappia di poter fare altrettanto, qualunque sia l’argomento”.
Hank esita un attimo. “Allora, posso dirti una cosa prima che io me ne vada?”.
“Certo”, annuisce l’altro.
“Cosa ne dici se cambiassi quella vestaglia?”
Charles annusa il colletto dell’indumento. “Dico che probabilmente sarebbe anche ora”.
I due si sorridono, e per un attimo, solo per un attimo, a Hank sembra di scorgere lo stesso Charles dei suoi ricordi.





   
 
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