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Autore: Bitter_sweet    15/08/2008    4 recensioni
La prima volta che l’aveva vista indossava dei calzoncini da calcio.[...] Era l’estate dei suoi dodici anni.
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Logan Echolls
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Twelve's years
Twelve’s years



La prima volta che l’aveva vista indossava dei calzoncini da calcio. Una ragazzina bionda, i capelli raccolti in due buffi codini -gli ricordava una bambola-, la divisa, verde e bianca, era così grande su di lei, lei così piccola e minuta da sembrare ancora più piccola di quel che realmente era. Le era sembrata così fragile e bella, sexy.
La pelle rosea e delicata, i capelli lisci e soffici, il sorriso dolce ed aperto, gli occhi come due pietre luccicanti, limpidi. Una bambola di porcellana, nonostante la tenuta non fosse adatta a quella similitudine, ma su di lei, stava veramente bene.
L’aveva guardata per tutto il tempo. Fermo accanto al vialetto che portava alla sua nuova casa, il suo sguardo aveva seguito quella figurina esile, non aveva scostato lo sguardo nemmeno per un istante, neanche quando quella ragazzina bionda come il grano era scomparsa dietro ad un angolo.
Era scomparsa all’improvviso dal suo campo visivo, eppure era rimasto lì, fermo immobile con lo sguardo scuro ancora fisso sul punto dove lei era svanita -come un miraggio- aspettando -quasi sperando- che tornasse indietro all’improvviso e che potesse finalmente fissarla in quello sguardo di fuoco.
Solo al richiamo, dolce e lieve, di sua madre scostò lo sguardo. Lo aveva chiamato, con voce vellutata, per farlo rientrare in casa e lui, aveva guardato per l’ultima volta quella curva -ancora speranzoso- prima di raggiungerla.
Era l’estate dei suoi dodici anni.
Dopo quel giorno non la vide più. I giorni passavano e l’estate continuava il suo corso, lui, semplicemente, giorno dopo giorno rimase in attesa, attendeva che lei -piccola e bionda figurina sfuocata al sole- passasse davanti alla sua casa.
Ogni giorno sgattaiolava fuori da quella gabbia dorata -un rituale- e sistematosi, seduto a terra, le gambe incrociate, guardava la strada dinnanzi a se. Silenzioso e attento, ogni giorno, stessa ora, prendeva posto nel suo angolino ed aspettava lei.
Non era più riuscito a vederla.
Una fantasia. Era giunto al punto di rottura, aveva creduto che fosse solo un’immagine -bionda e carina- che la sua mente aveva ideato per lui, facendogli credere che fosse reale. La fantasia si confonde con la realtà a volte, come la realtà si confonde con la fantasia di un bambino di soli dodici anni. Un bambino solo.
Aveva davvero creduto di essersela immaginata.
Non abbandonò nemmeno per una volta il suo posto però. Continuava a sedersi lì -il suo angolino-, continuava, ostinatamente quasi, a guardare quella strada aspettando solo lei. Lei che non aveva un nome, lei che poteva essere semplicemente una delle sue fantasie che voleva fossero realtà.
La sua cieca ostinazione era stata ripagata.
Come si può dimenticare il primo giorno di scuola, soprattutto se questa è nuova? No, non lo si può dimenticare. Era sicuro che non avrebbe mai dimenticato quel giorno, anche se fossero passati cinquant’anni, lo avrebbe ricordato anche allora.
Piccola e minuta, i capelli biondi, sciolti sulle spalle, risplendevano di riflessi di sole. Era bella con quella gonnellina rosa, tremendamente bella.  L’aveva guardata camminare verso l’entrata della scuola dal finestrino della macchina di sua madre. L’aveva guardata e aveva capito, non era un miraggio, un fuoco fatuo. Era vera.
Veronica Mars.
Lo stesso giorno aveva scoperto il suo nome. Era la figlia dello sceriffo. Insomma, una persona importante al pari di lui, Logan Echolls, il figlio di Aaron Echolls, stella di Hollywood. Ma per lui, sarebbe stata importante anche se fosse stata vestita di stracci.
La sua voce era dolce, profumava di marshmellow e di sole.
L’aveva conosciuta davvero solo qualche tempo più tardi a casa dei Kane. Era amica di Duncan e Lilly, erano stati loro due a presentargliela come si deve. Aveva immerso lo sguardo nel suo e si era perso. Era davvero piccola, gli arrivava al naso e la sua mano -morbida e calda- sembrava così piccola nella sua, ma la sua stretta era forte, decisa e delicata al tempo stesso. Indossava la stessa divisa che le aveva visto addosso quel giorno d’estate. Era davvero sexy.
Ronnie.
Gli piaceva vederla corrugare la fronte, le sopracciglia si aggrottavano appena e il suo viso assumeva un che di affascinante.
Diceva che lo odiava, odiava quel soprannome e glielo dimostrava. Eppure, non sapeva quanto gli piacesse quella sua espressione arrabbiata. Gli teneva il broncio anche per giorni interi almeno finché lui non l’afferrava per un polso e la trascinava, correndo e ridendo, per la città portandola sulla spiaggia, portandola al parco, portandola semplicemente a prendere un gelato.
Litigavano, non si parlavano, ma bastava quello per farli tornare uniti come prima, più di prima -era il loro mondo-.
Passava ogni istante libero con lei, Ronnie.
E gli anni passavano.
“Cosa hai pensato di Veronica la prima volta che l’hai vista?”
Erano sulla limosine. Era la sera del ballo e loro quattro lo avevano disertato cimentandosi in una serata stravagante, fuori dal comune e Lilly se n’era uscita con una delle sue solite trovate.
“Non lo so, ho pensato che era sexy!”
“Avevo dodici anni quando ti sei trasferito qui!”
”Oh, eri favolosa nei tuoi calzoncini.”
”Era la mia divisa di calcio!”
”Beh, e allora? Lo eri!”
Era vero, lo aveva davvero pensato quel giorno di quattro anni prima.
Era il ballo dei suoi sedici anni e Lilly splendeva tra le sue braccia. Ne era davvero innamorato, però Ronnie, lei era speciale nonostante splendesse tra le braccia di Duncan.
Quello era l’ultimo ricordo felice che aveva di loro quattro.
“Veronica Mars!”
Aveva compiuto solo da poco diciassette anni e quel giorno la sua vita era totalmente cambiata.
“Te lo dirò solo una volta. S-P-A-R-I-S-C-I!”
Aveva finto un’espressione sarcastica -degna del migliore attore- mentre le faceva l’inchino e la lasciava andare. L’aveva guardata allontanarsi, i capelli biondi più corti del solito. Aveva sentito bruciargli il petto a quella sua risposta, tagliente e sarcastica.
Ronnie.
Piccola e minuta come se la ricordava, lo sguardo un misto di emozioni che era riuscito a cogliere subito. Erano sempre riusciti a capirsi con un solo sguardo e sapeva che lei aveva colto alla perfezione quella marea di sentimenti che avevano attraversato i suoi occhi scuri.
Così vicini eppure così distanti.
Era il primo di Aprile, non avrebbe dimenticato quella data. Decretava un inizio nuovo, senza più Lilly, un inizio fatto di sarcasmo e battute pungenti -decretava la fine del suo mondo-.
Aveva smesso di parlarle, a meno che il caso non lo richiedesse, ma era il sarcasmo e la voglia di ferirla che parlava.
L’aveva lasciato solo -solo in una gabbia dorata che ora era davvero troppo stretta-, solo con i suoi fantasmi. Aveva smesso di chiamarla Ronnie. Aveva smesso di far pace con lei o forse, non voleva farla, troppo vinto dal dolore per riuscire a rialzarsi.
Se andava avanti era solo per inerzia e per il sadico gusto di poter ancora litigare con lei. Aveva continuato così per un anno, schivandola, nascondendosi dietro un muro abilmente costruito -una facciata di puro sarcasmo-.
Un anno lungo un’eternità.
L’aveva odiata senza accorgersi di cosa si nascondeva dietro a quel suo odio, e l’aveva amata.
Aveva diciotto anni la prima volta che aveva assaporato le sue labbra. Sapevano di marschmellow e di promesse, sapevano di lei. L’aveva stretta tra le sue braccia e si era accorto che era davvero piccola e minuta come sempre si era immaginato. Fragile ma così forte.
Solo in quel momento si era accorto che i suoi occhi non erano mai cambiati.
Ronnie.
Era tornata ad essere la sua Ronnie. L’aveva stretta a se -inebriandosi del suo profumo e del suo calore- per poi perderla di nuovo.
E l’aveva odiata, nonostante l’amasse. L’aveva amata quando era una ragazzina dai codini biondi ed una divisa di calcio troppo grande per lei, l’aveva amata nonostante fosse tra le braccia di un altro. Ma non aveva fatto nulla. Era tornato un ragazzino di dodici anni che aspetta, seduto per terra, la comparsa di un sogno.
Aveva aspettato anche quando era tornata sua e poi l’aveva ripersa -ancora una volta-. L’aveva aspettata col sorriso migliore sulle labbra e le braccia aperte, pronte ad accoglierla tra esse e stringerla, di nuovo sua.
E ancora aspettava, non importa quanto avrebbe dovuto aspettare ancora.
L’eternità non è poi così lunga se paragonata alla sua figura rilucente al sole che sorride.
   
 
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