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Autore: GenGhis    21/06/2014    2 recensioni
Questi racconti nascono principalmente da molto tempo libero, uniti ad una notevole capacità di elaborare idiozie e trascriverle su carta. Non mi andava di dover scrivere sempre le stesse cose, quindi non c'è un vero e proprio tema che accomuna queste storie. Solo, appunto, tanto tempo libero e la stessa penna.
Genere: Demenziale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Due Giugno



Il due giugno io, i miei genitori e mia sorella Gloria andiamo a casa di amici di famiglia, come facciamo da all’incirca sempre. Ad un certo punto mia madre dice: - Andate a salutare i ragazzi - e indica un gazebo su base esagonale. Vedo un gruppetto di ombre indistinguibili l’una dall’altra, e una voluta di fumo che si arriccia attorno ai tralicci dei rampicanti: che spettacolo depravato, giudico, quante volte l’ho già visto ‘sta scena, dal primo due giugno della mia vita fino ad ora? Sono certo che dieci anni fa erano già tutti lì, ciascuno posteggiato ad uno dei sei angoli, ad aspettarmi succhiando sigarette mentre i grandi cianciavano senza ritegno, e qualche volta esplodevano in una clamorosa risata corale, e noi: com’è possibile che i nostri vecchi si divertano tanto?, e ancora: cosa c’è di sbagliato in questo gazebo? Comunque, allora aveva ancora un senso. Aveva smesso definitivamente di averne quando la nostra amicizia per via delle circostanze era diventata solo nuda compagnia per via delle circostanze. Il mondo del gazebo, ecco, un’oasi dispersa nel tempo e nello spazio, un’isola ignorata dai radar in cui faccende inesistenti pretendono di esistere. Pretesa assurda, secondo me. Ad ogni modo Gloria mi convince a non essere così ostinato, quindi attraversiamo il prato come astronauti che trotterellano sulla crosta lunare. In mano sua un’ipotetica bandierina bianca.
I sei figli degli amici dei miei genitori ci sono tutti, con noi due siamo otto ostaggi dello stato di cose. Alberto fuma, con la testa immersa in un cubo di nebbia. Sua sorella bacia entrambi sulla guancia, sbrigativa: indifferente ai nostri desideri, ci attrae a sé e dispensa baci come timbri e poi ci spinge all’indietro. Eccoci che rimbalziamo da un angolo all’altro dell’esagono, bollati e poi respinti lungo tutta la trafila. Affondiamo in Alberto, e nella sua nube personale, e c’è un attimo di sospensione nell’aria densa. Dopodiché si viene sbalzati come palline di un flipper, le labbra schioccano e il punteggio cresce: del resto gli angoli sono solo sei e noi otto, e poiché solo un idiota lascerebbe la propria postazione chi arriva per ultimo sta al centro. Io e Gloria ci piantiamo dove le assi del pavimenti si incrociano, e quasi stiamo schiena contro schiena. Sono talmente scialbi che mi viene in mente di metterli in ordine di blandizia, ma la classifica è sfuggente, si scambiano continuamente di posto ad ogni momento. Dicono cose tipo commenti sul pranzo, si palpeggiano le pance, cos’era più buono e cosa meno, e pure accanendosi non gli riesce di trovare una risposta: Gloria sorride, invece a me sembra di sedere sul nucleo vivo della terra, circondato da inutili detriti minerali. Dico che voglio altra torta, si sollevano proteste che in realtà sono solo ronzio di sottofondo. Base acustica. Accompagnamento, comunque si voglia dire.
 - Ancora!
Sì, ancora, ancora, ancora. Vorrei imbrattare le loro facce di panna montana, e mi propongo di farlo avviandomi lungo il prato. Poi però scopro il salone vuoto, la lunga tavola con i vassoi dimezzati, l’aria pesante che grava sull’insalata russa spalmata sulle tartine. Molte cose non sono più invitanti, adesso, sono già scattate nello stadio supplementare di avanzi. Mi taglio una fetta di torta e me la mangio, tutto solo: si sente solo la forchetta che sbatte sul piatto, e io che mastico. Dato che la presenza del cibo mi fa sentire osservato prendo e vado a mangiare di fronte alla finestra, mentre tengo d’occhio il gazebo, che da qui sembra un giocattolo per bambini. Non seguo il filo di nessun pensiero in particolare. Sto in mezzo alle cose e mi piace come si sta. Mia sorella entra nel salone chiedendomi che faccio tutto solo, io ribatto che potrei farle la stessa domanda. Non risponde, e si avvicina anche lei alla torta. Impugna il coltello.
 - Perché non portiamo un pezzo di torta anche a loro? - propone - Tanto per fare una cosa carina.
 - Sono pieni, ricordi? Non hanno più fame.
 - Ah, giusto. L’avevo dimenticato. Allora, un bicchiere di spumante? Tanto per, dai.
Io guardo fuori dalla finestra. ‘Sto giugno fa schifo, perché alle cinque di pomeriggio già comincia a scurire.
 - Fa buio. Una mezz’oretta e ce ne andiamo - dico, come se questo chiudesse la questione.
Lei aspetta un momento prima di rispondere, segno che ha capito che intendo, ma preferisce fingere di ignorarlo: - Quindi? - scrollo le spalle. Non rispondo a domande che non significano niente. 
  
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