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Autore: Alicecream    23/06/2014    4 recensioni
Estate, mare e amici, pallavolo e falò in spiaggia.
L'amore è quello che manca a Gabriele.
Forse quest'anno riuscirà a trovare la sua dolce metà.
In un amore da mozzare il fiato.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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NOTE DELL'AUTRICE:
Con questa storia ho deciso di sputtanarmi nel limite del possibile.
Capitemi, l'ho scritta dopo un 200 stile, sotto il sole cocente di Piacenza, mentre guardavo le altre gare.
Non dico che sia una storia vera, ma è ispirata alla realtà.
Ho deciso di non cambiare i nomi, mi sembrava più giusto per tutti.
Buona lettura bella gente :)
(ps. Il primo che recensisce vince una mela avvelenata. Anzi due, oggi mi sento particolarmente buona).





Dedico questa storia a Gabriele, uno strano nuotatore che a volte amo e a volte odio.
E niente, magari la prossima volta stai attento a chi nuota attorno a te.



Era la seconda domenica d'estate, un 22 giugno limpido e soleggiato. La spiaggia era piena di gente, i ragazzi giocavano a pallavolo, gli anziani sotto l'ombrellone si sfidavano a scala quaranta, le famiglie felici costruivano castelli di sabbia che inevitabilmente venivano colpiti da qualche pallone e finivano spiaccicati per terra. Ma sinceramente non me ne importava niente della gente, avevo gli occhi solo per un ragazzo.

Non era un tipo a cui facevi subito caso. Corporatura media, muscoloso ma anche in carne, capelli mori al vento e un costume rosso acceso.
Non lo conoscevo, in realtà, ma l'avevo spiato qualche volta. All'uscita degli spogliatoi, mentre andava a casa, quando giocava con gli amici nel lido.
Da vicino, potevo osservarlo meglio. Aveva un naso a patata e un neo scuro sulla narice destra. Le sue mani erano quasi femminili, delicate quanto quelle di un musicista. Aveva la schiena un po' incurvata, ma quando si buttava per ricevere la palla i suoi muscoli si tendevano e mostravano tutta la loro forza virile. Le gambe muscolose erano un po' corte, ma fasciate da quel costume lungo erano quasi sexy.
Lo chiamavano Gabriele.
Non so cosa mi incantasse di quel ragazzo. L'avevo studiato a lungo, non gli toglievo gli occhi di dosso, ma non capivo cosa potesse esserci di affascinante in lui.
Forse era proprio il fatto che non ci fosse niente di speciale che lo rendeva speciale.
Non gli avevo mai rivolto la parola. A volte mi avvicinavo un po' di più, quasi sperando che anche lui mi notasse, ma non successe mai niente del genere.
Fino a quel fatidico ventidue giugno.

Facevo finta di leggere sotto l'ombrellone, ma in realtà lo stavo (di nuovo) guardando, quando il pallone con cui giocava rotolò nella mia direzione.
Lo parai con le gambe prima che finisse dall'altro capo della spiaggia, e mi allungai per afferrarlo.
Intanto Gab, come mi piaceva chiamarlo, mi si avvicinò con una corsetta un po' scazzata.
"Ehi" gli dissi, lanciandogli la palla e sorridendo timidamente. Ma la ragazza timida non fece effetto, perché lui prese la palla e se ne andò, impiastricciandomi di un flebile "Gra".
"Grazie" era probabilmente troppo faticoso per un comune mortale del genere.
"Fanculo!" pensai. FanculoFanculoFanculo.

A volte mi capitava di avere attacchi di rabbia improvvisi. Non era una malattia, no no, era solo che avevo un impulso fortissimo di spaccare qualcosa, qualsiasi cosa, e non potevo resistergli.
Era come una voce interiore dentro di me, un'altra io.
Dovevo ubbidirle.
Ma quel pomeriggio non avevo niente da rompere.
Niente, se non la testa di quel coglione di Gabriele, stronzo di merda.

Ma non mi sembrava il caso.
Anzi, mi sembrava il caso, ma non così, davanti a tutti.
O forse anche si, non importava se mi avessero visto, avrei spaccato la testa a tutti, uno per uno.
Respirai profondamente, e mi calmai un pochettino.
Forse era il momento che l'altra me si zittisse.

Calò la sera, o la notte. Non lo sapevo con precisione.
Era da tre anni che indossavo lo stesso orologio, lo sfondo nero sulle lancette bianche, che da tre anni restavano immobili.
Tic o toc, sarai sempre in ritardo, segui il Bianconiglio.
Gab era ancora lì, stava facendo il bagno da solo mentre i suoi compagni scherzavano intorno al falò.

Un piano, semplice ed efficace, mi venne in mente in un'intuizione geniale.
Venne in mente all'altra me, ma al momento non feci caso a ciò.

Lentamente, mi allontanai dalla cabina in cui mi ero nascosta e strisciai sulla sabbia fredda per non farmi vedere. Entrai in mare, un liquido nero che si avvolgeva attorno al mio corpo per congelarlo, ma non potevo tirarmi indietro proprio ora.
Dovevo allontanarlo dai suoi amici, e il gioco sarebbe stato fatto.

"Gabriele" sussurrai dall'ombra, senza farmi riconoscere.
Lui stava sdraiato sul dorso e guardava il cielo stellato.
Poteva sembrare anche una scena così romantica, ma il mio io mi diceva che era tutto il contrario. Non c'era niente di romantico.
"Gabriele" muovevo a malapena le labbra per pronunciare il suo nome.
Stavolta mi sentì, perché si girò nella mia direzione, ma poi tornò a concentrarsi sul suo rilassamento senza senso.
"Gabriele" un'ultima volta, e sarebbe stato mio.
Capì che non era un'allucinazione uditiva, e rispose con un secco "chi mi cerca?".
Nessuno ti cerca, Polifemo ti mangerà la testa.
No, non gli dissi così.
"Vieni da me" soave, dolce, una sirena che chiama a sé il suo marinaio per fare l'amore con il suo cadavere.
Forse a pensarci bene io ero veramente una sirena.
Ecco, se guardavo meglio potevo vedere una coda nera, squamata e lunga.
La Sirenetta però non sposava il suo principe.
"Vieni da me" era un nuotatore, non ci avrebbe messo molto a raggiungere la sconosciuta (la ragazza con le gambe umane che ha fermato il tuo pallone) in mezzo al mare.
"Vieni da me" e lui mi era finalmente di fronte.

Mi guardò, a metà tra il sorpreso e lo sconcertato, chiedendosi (lo potevo quasi sentire) chi fossi io e perché l'avessi chiamato.
"Sono innamorata di te, dolce marinaio" gli dissi.
La sua occhiata stava diventando profonda, ecco, ora avrebbe confessato il suo amore e...
Una risata stonata ruppe il silenzio, e Gab iniziò ad allontanarsi da me.
"Tu sei pazza, vai a farti curare!"
"No! Io non sono pazza! Io sono una sirena, e ora farò del tuo corpo il mio servo!" urlai.
Il chiacchiericcio monotono proveniente dal falò si spense all'improvviso, sostituito da grida...
Ma non di terrore. No.
Quelli ridevano tutti.
Ridevano di me.

L'altra me non le sopportava, le risate.
Neppure io le amavo.
Dovevano smettere.
Con un movimento di coda, balzai addosso a Gabriele e lo sommersi. Preso dalla sprovvista bevve, sembrava spaventato, sorpreso dalla mia forza.
Le battute sulle spiaggia si interruppero, seguite questa volta da vere urla di terrore.

"Tranquillo" sussurrai a Gab, che ora si dibatteva per staccarsi dalla mia coda.
"Sai contare? Spero che nella scuola che frequenti tu lo abbia imparato. Ecco, facciamo un gioco: tu vai sott'acqua, e io conto. Facciamo trenta secondi, ti va?"
I suoi occhi mi guardavano incerti.
Cosa potevano essere trenta secondi?


Arrivò la mattina, il sole illuminò l'acqua.
Le lancette dell'orologio erano immobili.
Ancora trenta secondi, tic toc, e gli avrei permesso di respirare.

 

  
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