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Autore: kuutamo    24/06/2014    1 recensioni
[David Garrett]
[David Garrett]Infondo eravamo tutti dei poveri esserini rotti, bambole di porcellana con le guance in cocci e il cuore strappato, ognuno che combatteva contro il suo demone, il suo male.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erano mesi che non si vedeva più la luce del sole.

Come se tutti noi fossimo dentro a una fossa, e la luce del sole ci fosse stata negata. 

Erano mesi, anzi un anno per la precisione, che le vite della mia famiglia erano state scombussolate; prese ed agitate, destinate a non essere più come prima.

 

All'inizio gli avevano diagnosticato 'qualcosa', una massa, ma la confusione regnava anche tra i medici più specializzati, e noi piano piano ci sgretolammo. Come le porcellane antiche.

 

Ero all'ultimo anno di conservatorio e volevo disperatamente diventare una scrittrice e viaggiare per il mondo, ma mi sarei accontentata anche di un lavoro di traduttrice. Nel mio sogno.

Qui però, come in ogni sogno che si rispetti, entrano in campo altre forze. 

 

Mio padre era stato uno dei più giovani pianisti prodigio nella nostra città; aveva studiato molto nella sua vita, con durezza e disciplina impartitagli dai grandi maestri di conservatorio. Aveva girato il mondo e durante un seminario alla Juilliard, aveva conosciuto mia madre, che a quel tempo era un'aspirante studentessa, nonché violoncellista. 

Si sposarono dopo qualche anno e un po' di tempo più tardi, arrivai io a movimentare le loro vite. Vivemmo a Vienna per un po', ma poi papà fu richiesto a Parigi, così ci trasferimmo in un palazzo vicino al centro. 

Quand'ero piccola adoravo andar a vedere mio padre a teatro, mentre era intento a fare ciò che amava: io e mia madre seguivamo ogni suo movimento, ogni nota che suonava con grande amore e profonda passione, trasporto.

Rimanevo estasiata, quasi fulminata dalla profondità e dall'intimità dei suoi gesti. La potenza delle note m'inchiodava sulla poltroncina rossa e m'immergevo completamente nell'opera, uscendone soltanto una volta che si riaccendevano le luci.

La passione di mio padre non tardò a contagiarmi e ben presto m'insegnò a suonare il piano; con estrema dolcezza e pazienza m'iniziò e pian piano iniziai a fare i primi passi verso quel mondo, del tutto nuovo, ma che mi aveva sempre affascinata.

Con il passare del tempo, la carriera di mio padre fece passi da gigante, tanto da concedergli di fare delle vere e proprie tournée in giro per l'Europa. 

Durante le tournée arrivava a star via di casa per mesi, e molte volte sentii la sua mancanza. Il tutto fu accentuato anche dal fatto che non poté più dedicarmi lo stesso tempo di prima per fare pratica ed insegnarmi passi nuovi, così con la mamma decisero di mandarmi da un professore a far lezioni private. 

Una notte, mentre papà tornava dall'aeroporto , si scontrò contro un' auto che correva contromano a tutta velocità. Furono recisi tre nervi della mano destra, quattro costole fratturate e il setto nasale sfondato. L'auto si era quasi completamente accartocciata; nessuno sapeva come aveva fatto mio padre ad uscire vivo da quell'inferno. 

La riabilitazione fu lenta, da quel che ricordo: non mi fu permesso di vederlo per molto tempo, soprattutto all'inizio, ma a volte, quando non c'era nessuno in casa, vedevo che usciva dalla sua stanza e si avvicinava al suo piano bianco, si sedeva ed accarezzava i tasti lisci con la mano buona. Poi si guardava le fasciature sulla destra e ansimava: emetteva due note distorte e poi scattava in piedi sbattendo il coperchio sui tasti. Si voltava alla finestra e si perdeva, sembrava perdersi nella sua angoscia. Io rimanevo zitta, nascosta per tutto il tempo dietro il separé giapponese, a guardare mio padre che veniva mangiato e dilaniato. 

Avrei voluto correre verso di lui tante di quelle volte, abbracciarlo, ma avevo paura che mi respingesse, che non mi volesse più bene come prima. Dall'incidente cambiò tutto.

Con il passare degli anni il suo animo s'indurì come la roccia, e la sua sciagura vi restò infilzata come una spada incandescente. Soffriva in silenzio, seduto al suo pianoforte, ma lo faceva sempre meno spesso. Intanto le primavere passavano e la sua durezza si ripercosse anche su di me: si ostinava a farmi studiare duramente, con la stessa dedizione e lo stesso sacrificio con cui era stato educato lui fin da ragazzo. La mia vita si riduceva alla scuola e alla pratica, le poche amiche che avevo le persi negli anni perché non c'era rimasto tempo a sufficienza per frequentarci, e poi, come diceva sempre, << non valeva la pena sacrificare del tempo per cose futili >> . Mi restava soltanto la notte, mia alleata, per svagarmi e perdermi tra le pagine dei libri che più amavo; quelli erano gli unici momenti in cui potevo scegliere quale vita vivere, se essere una piccola Jane in fuga dal suo Rochester, o Mercedes che aveva perso il suo amore per sempre. Ma più di tutti, era Baudelaire che adoravo: riusciva a rapirmi ma allo stesso tempo a ferirmi con le sue parole; quell'angoscia, la speranza perduta di cui parla tanto nelle sue opere, era la stessa che affliggeva me, la stessa che ero costretta a vivere giorno dopo giorno. Leggerlo mi piaceva molto ma mi riportava tristemente alla realtà, alla fine. 

Mio padre ormai, era ossessionato dalla perfezione, perciò io dovevo essere perfetta: quando avevo quindici anni, l'accademia tenne un saggio per le famiglie, dove c'erano degli osservatori, nonché critici molto importanti; mio padre mi stette col fiato sul collo per mesi affinché io imparassi magnificamente i miei brani. 

Ormai si era trasformato tutto in una gara: ora io dovevo diventare ciò che lui non era riuscito ad essere, e per questo lo odiai.

A diciotto anni m'iscrissi al conservatorio, sotto perenni pressioni dei miei genitori, e lasciai nel cassetto il desiderio di studiare letterature. Mio nonno sembrava l'unico tra quelle mura, in grado di capirmi, l'unico che era rimasto ancora sano di mente. A volte parlavamo per ore, e lui mi raccontava della sua vita, del suo lavoro: aveva ereditato la fabbrica, la storica attività di famiglia, da suo padre e se n'era occupato sino a tarda età. Era incredibile come si ricordasse ogni particolare: dallo spessore delle stoffe ai numeri del filato.  La mamma lo aiutava con le scartoffie , i contratti e la varia burocrazia, ma qualche anno prima aveva lasciato la sua quota azionaria a lei, sua figlia, lasciandole il pieno titolo e potere sull'azienda. Lui non aveva mai amato quel lavoro, ma aveva imparato a conviverci e ad alzarsi dal letto ogni giorno per fare il suo dovere, e cioè continuare ciò che suo padre aveva costruito. 

Ma per me, aveva un piano diverso. Nonostante il suo esempio di vita, mi diceva sempre che avrei dovuto fare della mia ciò che volevo, quello che mi rendeva felice e appagata. Che avrei dovuto parlare una volta per tutte con mio padre, trovare il coraggio e dirgli le cose come stavano senza giri di parole. 

Forse aveva ragione, ma all'epoca mi sembrò una cosa irreale, che non si sarebbe mai realizzata. Bramavo la libertà, ma la paura di ferire chi amavo era più grande e mi faceva restare.

 

Qualche mese dopo il mio ventitreesimo compleanno, gli fu diagnosticato un male, una massa che si era formata dal nulla, come uscita da un buco nero, e che si era però sviluppata in poco tempo, assorbendo tutte le sue energie, mangiandolo.

 

Si spense dopo un anno di continue lotte e trasferimenti. Da mesi ormai era molto dimagrito e alla fine non si reggeva in piedi. Lo vidi in ogni fase e nella mia testa non smise mai d'esserci quella piccola luce di speranza che ognuno di noi sembra intravedere dal tunnel del proprio dolore. Quando la situazione sembrava rialzarsi, all'improvviso tutto il resto piombava nel buio più assurdo e profondo, ogni volta. Sembrava quasi che qualcuno si divertisse a vederci soffrire.

Non smisi mai di sperare, anche perché era una cosa assurda, che se ne andasse così, in quel modo. Era troppo presto. Non me l'ero mai immaginato.

 

Non eravamo una famiglia molto grande, ma nonostante ciò ci avevano lasciato già troppe persone care. 

Avevo guardato la morte in faccia per la prima volta a dodici anni, e come dice la battuta di un famoso film, l'infanzia finisce nel momento esatto in cui ti accorgi che un giorno morirai, quando la dama nera si presenta alla tua porta. 

Ero piccola, troppo, eppure capii ogni cosa di quelle giornate: ogni presentimento era giusto, avevo capito tutto. Feci l'adulta, e da quel momento in poi non credo di essere tornata più bambina. Era cambiato qualcosa in me, qualcosa dalla quale non si poteva più tornare indietro. Ormai la trasformazione era completa.

Col passare degli anni anche altri ci lasciarono, e  intanto dentro di noi, il vuoto aumentava: sembrava che i brandelli del mio cuore venissero spazzati via un pezzo alla volta. Persone importanti, fondamentali, se n'erano andate per sempre, e di loro non rimanevano solo che dei resti dietro una dispendiosa lastra di pietra. Ormai tra me e loro c'era il gelo di quella parete a separarci, il limite dell'universo della vita e della morte.

Continuavano a vivere in me, nei miei ricordi. Perché i morti infondo, non se ne vanno mai per sempre.

 

 

Quando a distanza di poco tempo se ne andò anche lui, mio nonno, ormai del mio cuore non rimaneva nulla. Se n'era andato, con tutti loro. 

 

..I was so confused as a little child..

 

Si dice che quando muore qualcuno si attraversino diverse fasi, come quella della negazione, della rabbia, dell'incredulità. Io dico che il periodo in cui si provano questi sentimenti è infinito, e che essi si provano tutti insieme; non c'è distinzione nel dolore. E soprattutto non si è più gli stessi: ogni qualvolta che qualcuno ci lascia noi cambiamo. Pensiamo di essere gli stessi di un tempo, ma la verità è che viviamo del ricordo di noi, nei ricordi di quando eravamo felici, bambini. 

Diventare grandi fa schifo, perché la consapevolezza fa schifo. Una volta trovata, provata, non ti lascia più.

 

 

 

..My heart, it breaks every step that I take…

 

Dopo la sua morte finii il conservatorio dando tutti gli esami con il massimo dei voti. Un giorno feci sedere mio padre in salotto e gli dissi tutto. Gli dissi che io non potevo essere lui, che dovevo andare e vivere la mia vita senza rimorsi, senza costrizioni. E lo feci. Mio padre non disse una parola e mi guardò andare via. Una notte lo trovai chinato sulla coda bianca del pianoforte, piangeva, ma non mi avvicinai, non ci riuscii. Realizzai solo in quel momento che non riuscivo più a toccarlo, che non ricevevo più carezze.

Qualche giorno dopo partii.

Strinsi forte mia madre, che sembrava essersi quasi essersi ripresa dal duro colpo, o almeno così fingeva di apparire. Non lo era completamente, e io lo sapevo… Mio padre mi abbracciò rigido, e anche con disagio, tanto da farmi desiderare che non lo avesse fatto. 

 

..choose your last words, this is the last time, 'cause you and I, we ere born to die… (inside)

 

 

Infondo eravamo tutti dei poveri esserini rotti, bambole di porcellana con le guance in cocci e il cuore strappato, ognuno che combatteva contro il suo demone, il suo male.

  
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