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Autore: suni    19/08/2008    11 recensioni
"Lui vive ancora con i vostri genitori?"
"No. Mio fratello è orfano."
"Lui è orfano? E tu cosa saresti?"
"Io? Io sono l’assassino."
Un incontro qualunque, fortuito e casuale, certe volte può cambiare la vita. Kikyo sta per scoprirlo sulla sua stessa pelle.
Altro inchino figurato ad Itachi.
[vagamente SPOILER dello Shippuuden, altrimenti non si capisce il senso]
Genere: Commedia, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Itachi, Altri, Kisame Hoshigaki
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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UN SAKÈ PER L’ASSASSINO

 

Voi direte, questa storia non ha senso. Probabilmente avete anche ragione.

Però l’ho scritta.

Se vi va leggetela. Avete il permesso di tirarmi tutti gli ortaggi e la frutta marcia che volete, ad eccezione di quelli molto duri come zucchini e mele, e soprattutto di farmi presenti tutti gli errori e le imprecisioni, che sistemerò ringraziandovi sentitamente.

Buon tutto.

suni

 

 

 

UN SAKÈ PER L’ASSASSINO

 

 

Arrivarono al villaggio nel primo pomeriggio di un giorno piovoso. Il cielo uggioso emanava un grigiore opprimente e una fitta pioggerella imperversava decisa, mentre i due uomini varcavano le porte d’accesso: stranieri mai visti prima, dal viso quasi del tutto coperto dalle lunghe falde bianche dei cappelli di paglia. Indossavano entrambi spesse cappe nere, su cui spiccavano nuvole purpuree disegnate nel tessuto. 

Il chunin di guardia li vide rallentare il passo per qualche secondo proprio all’altezza del cancello, roteare in sincrono le teste per guardarsi intorno e poi avviarsi verso di lui, lenti e sicuri. Quando gli giunsero vicini notò la gigantesca spada che uno dei due portava in spalla. S’irrigidì lievemente, aggrottando la fronte.

“Posso aiutarvi?” domandò marziale.

L’uomo di fronte a lui, leggermente più basso dello spadaccino, sollevò appena la testa.

“Vorremmo passare uno o due giorni nel vostro villaggio,” annunciò flemmatico, lasciandogli intravedere la china di due apatici occhi neri. “E’ possibile?” aggiunse, col tono di chi si aspetta una sola risposta, e affermativa.

“Certamente,” rispose il chunin spalancando il registro degli ingressi. “I vostri nomi?”

“Non sono affari tu…” iniziò bruscamente il secondo, con tono assai più secco di quello usato dal compagno di viaggio. Il primo estrasse la mano dalle profondità del mantello e la sollevò in un gesto misurato e autorevole, riducendolo a un infastidito silenzio.

“Il mio nome è Tanaka Ryo,” annunciò grave, con noncuranza. “Questo è Kadeshi Toushiro. Veniamo dalla Sabbia e siamo in viaggio per affari,” concluse, mentre lo shinobi di guardia scriveva diligentemente le informazioni sul registro.

“Sta bene,” commentò poi. “Bene arrivati al villaggio. Se cercate un riparo per la notte c’è una locanda in…” Ma s’interruppe, perplesso: i due viaggiatori gli avevano già voltato le spalle, riprendendo la loro marcia lungo la via che conduceva al centro del paese.

“Che razza di tipi,” mormorò il suo collega, sbucando alle sue spalle dal gabbiotto degli uomini di guardia. Lui annuì assorto, osservando le due figure nere allontanarsi senza fretta, come se la pioggia non le stesse disturbando in nessun modo, fino a scomparire.

“Non male Ryo,” commentò a mezza voce Kisame, snudando i denti inumani in un sorriso noncurante. “Ma se non ti spiace continuerò a chiamarti come al solito, Itachi,” aggiunse con un’aspra, fredda risatina. L’interessato non rispose. Se era divertito, non lo diede a vedere.

“Ricordami il motivo di quella simpatica messinscena,” continuò Kisame, gettando alla strada male in arnese e pressoché deserta qualche sguardo vago, del tutto privo di interesse. “Avremmo potuto passare da un accesso secondario,” continuò, con una smorfia remotamente contrariata.

“Qualcuno avrebbe potuto notare che non ci eravamo registrati e insospettirsi,” replicò Itachi con voce monocorde. “Siamo abbastanza lontani da qualunque posto in cui le nostre facce siano note da poterci permettere di mostrarci in paese come chiunque altro, sarebbe spiacevole attirare l’attenzione per non aver eseguito una banale formalità,” concluse portando la mano alla testa, all’altezza delle tempie, e strizzando impercettibilmente gli occhi.

“Tutto a posto?” domandò Kisame, senza vera premura.

“Con questa pioggia non ci vedo niente,” rispose atono Itachi, rallentando in vista della locanda. Lo spadaccino gli gettò un’occhiata acuta, ma l’impenetrabilità del suo viso non gli diede modo di verificare quell’affermazione di dubbia veridicità.

“Il Rospo Felice,” sogghignò, leggendo il nome sull’insegna appesa accanto all’uscio. “Sembra perfetto per noi.”

Itachi non rispose di nuovo, limitandosi a spingere la porta che scampanellò vivace.

L’ambiente era angusto e spartano, male illuminato. Ai pochi tavolacci in legno erano sistemati un pugno di avventori dall’aria annoiata, chi parlottando svogliatamente, chi sorseggiando bevande calde e spiriti. Dietro il massiccio bancone scuro un triste figuro asciugava silenziosamente i boccali, senza nemmeno alzare lo sguardo su di loro.

“Perché mai un rospo dovrebbe essere felice, qui dentro?” brontolò Kisame scettico, scrutando il locale con vago sprezzo.

“Potresti discuterne col proprietario,” ribatté Itachi con indifferenza, avvicinandosi all’uomo senza badare ai pochi sguardi dei clienti che, vagamente incuriositi, accoglievano indiscreti i primi due stranieri che giungevano in paese da settimane. “Vorremmo due letti per la notte,” esordì saltando i preamboli. Il suo interlocutore annuì, incurante, e senza posare il bicchiere né alzare la testa allungò un braccio a staccare dal muro accanto a sé una chiave arrugginita, per poi sporgergliela brusco.

“Stanza cinque, primo piano, penultima a destra. Avete bagagli?” mugghiò con voce profonda e cavernosa.

“No.”

Il proprietario annuì nuovamente, compreso. Itachi si voltò e fece due passi per imboccare le scale, mentre Kisame, bilanciato meglio il peso della spada sulle spalle, si accingeva a imitarlo.

“Pagamento anticipato,” li arrestò la voce dell’uomo, ferma e secca.

L’Uchiha non si mosse per un paio di secondi, il volto messo in ombra dal cappello a falde.

“Capisco,” commentò, infilando la mano nel mantello per estrarne una sacca in stoffa scura. Slacciò il nodo che la chiudeva e pescò senza guardare una manciata di banconote, prima di tornare al bancone e depositarvele con indifferenza. “Va bene così?”

Gli occhi dell’altro scivolarono fino ai soldi e poi, finalmente, si sollevarono per la prima volta verso il suo volto, lievemente sgranati.

“Per quella somma potete restare tutta la settimana,” affermò sbalordito.

“Non ce ne sarà bisogno,” lo contraddisse Itachi senza variazioni d’espressione. “Sarà sufficiente che il servizio sia efficiente e discreto,” concluse, calcando lievemente la voce sull’ultima parola.

“Ci può giurare, buonuomo,” confermò l’altro con improvvisa cordialità.

“Allora,” intervenne Kisame imperioso, “vorrei mangiare qualcosa tra una decina di minuti.”

“Preparo subito un tavolo. Per tutti e due?” rispose il proprietario, solerte.

“No,” diniegò Itachi, voltandogli definitivamente le spalle. “Non ho fame.”

Kisame lo seguì lungo le scale con un sorriso aleggiante sulle labbra.

“Com’è diventato servizievole tutt’a un tratto, il vegliardo” considerò sprezzante, mentre raggiungevano il loro piano. Itachi annuì brevemente, prima di spalancare l’uscio numero cinque su un vano spoglio in cui troneggiavano solitari due letti un po’ usurati, una sedia e un tavolino.

Non appena la porta fu chiusa alle spalle di entrambi Kisame modulò una risata roca e senz’allegria, velatamente glaciale.

“Buonuomo a te!” commentò apparentemente esilarato dall’accaduto, mentre Itachi, sfilato il cappello, lo abbandonava sulla sedia e si slacciava stancamente il mantello. “Mi piacerebbe che un qualunque, rispettabile cittadino di Konoha avesse assistito alla scena!” proseguì, scuotendo il capo e liberandosi a sua volta della zavorra.

Itachi, impassibile, sistemò la cappa sullo schienale e si lasciò andare seduto sul materasso, che cigolò un poco.

“Un rispettabile cittadino di Konoha non si troverebbe in un posto come questo,” considerò a voce bassa, studiando assorto uno spicchio di cielo grigio fuori dalla finestra picchiettata di gocce piovane.

Kisame inclinò appena la testa, concorde.

“Vero. Hai detto che era bene fermarci qui anche per via questo, no? Chi si aspetterebbe di trovarci in un  villaggio così miserabile…” osservò sbrigativo. “Io scendo. Sicuro che non vuoi mangiare?” aggiunse, tornando verso la porta.

Itachi scosse il capo con un lungo inspiro, chiudendo gli occhi per qualche secondo prima di abbandonarsi indietro, la testa poggiata al cuscino. Kisame si accigliò appena, osservandolo con le dita già strette sulla maniglia. Altro che pioggia che gli offuscava la vista, quello non la raccontava giusta. Ogni volta che lo vedeva in faccia, i segni della devastazione erano più marcati. Itachi si stava logorando, probabilmente non sarebbe durato ancora a lungo.

“Come credi,” borbottò, cupo, aggrottando la fronte. Gli diede la schiena e, senza aggiungere altro, si diresse dabbasso a consumare il suo pranzo.

Quando rientrò in camera, più di un’ora dopo, lo ritrovò immobile nella medesima posizione. Sulle prime pensò che dormisse, ma appena ebbe fatto un paio di passi verso l’interno gli occhi di pece del suo storico compagno di viaggio si aprirono fissandosi su di lui, perfettamente lucidi e assolutamente non velati di sonno recente.

“Com’è la cucina?” domandò Itachi distaccato.

Kisame contrasse il viso in una smorfia.

“Come l’aspetto del luogo lascia supporre,” rispose, prendendo il cappello dell’altro dalla sedia e lanciandolo sul tavolo. “In più, il nostro ospite si è sentito in dovere di intrattenermi con aneddoti sulla vita locale, e c’è una cameriera che non si capisce se sia una cameriera o cos’altro,” proseguì, accostandosi al muro e recuperando la spada che vi aveva appoggiato.

“Cos’altro?” ripeté Itachi con remota curiosità, lisciando inconsapevolmente una piega della coperta accanto al suo fianco.

“Suvvia, un uomo di mondo come te,” sogghignò Kisame, iniziando a svolgere l’arma dalla sua custodia per poi accomodarsi sulla sedia precedentemente liberata.

Itachi non reagì alla velata e scherzosa provocazione, limitandosi a tornare a osservare l’esterno attraverso i vetri bagnati. Kisame estrasse un panno dalla tasca rigonfia degli abiti, prendendo a lucidare meticolosamente la lunga lama affilata di cui era l’onorato proprietario. Lavorò con alacrità per qualche silenzioso minuto, quindi tornò a scrutare il collega.

“Non capisco perché ci siamo fermati qui, però. Non sarebbe stato grave prendere un po’ di pioggia,” commentò, interrompendo il momento di mutismo.

“Non abbiamo nessunissima fretta,” osservò Itachi senza voltarsi. “Se non ci fossimo fermati oggi avremmo dovuto aspettare nei prossimi giorni.”

“In qualche luogo meno spiacevole,” aggiunse Kisame contrariato.

“In cui avremmo dovuto restare nascosti per non essere riconosciuti,” puntualizzò l’altro stancamente.

Kisame serrò le labbra sottili, apparentemente indispettito. Quindi accennò un sorriso scaltro, poggiandosi per un istante la spada contro le ginocchia.

“Pensi sempre a tutto, eh, Itachi?” commentò, ironico.  “Hai sempre una visione appena più ampia degli altri. Mi domando se sia per via di quel tuo sharingan o se dipenda da altro,” continuò assottigliando gli occhi.

L’Uchiha non ebbe apparenti reazioni, spostò soltanto lo sguardo al soffitto e tacque per qualche secondo, immobile.

“Né l’uno né l’altro,” controbatté laconico.

Non dissero nulla di più. Kisame continuò a dedicarsi alla cura della sua spada e Itachi a rimanere sdraiato, immobile, assorbito da pensieri che gli occhi neri non lasciavano minimamente trapelare. Erano così abituati l’uno all’altro, comunque, che l’atmosfera era perfettamente naturale.

Quando, tempo dopo, Uchiha Itachi si alzò a sedere con uno scatto improvviso che non sorprese minimamente Kisame, era quasi l’imbrunire. Rassettò la maglia nera con un gesto distratto e poi si tirò in piedi, la lunga coda nera di capelli ondeggiante sulla schiena.

“Vado a mangiare,” annunciò a voce bassa, quasi a se stesso.

“Buona fortuna,” replicò Kisame, filosofico. “Magari più tardi ti raggiungo.”

Lui annuì a malapena, senza quasi ascoltarlo. Sfilò da dietro la sua schiena il proprio mantello, quasi con delicatezza, e imboccò la porta con invariato silenzio.

 

Kikyo Katsuraya non aveva fortuna. Sola, senza mezzi e senza risorse se non un corpo accattivante e un sorriso sensuale, sbarcava il lunario nella peggiore delle maniere e non aveva grandi prospettive. Tuttavia, Kikyo era una ragazza pratica, terra terra. Non si crogiolava nella sua mala sorte, né del resto il suo tenore di vita le aveva mai lasciato molto tempo per meditazioni esistenziali e grandi afflati di idealismo.

Comunque stessero le cose quel pomeriggio, poco prima dell’ora di cena, mentre se ne stava appollaiata al bancone con il suo sakè, Kikyo ebbe la netta percezione che la sorte al momento le stesse invece sorridendo. Per la precisione, quella sensazione la colse quando vide sbucare dalle scale che portavano alle camere un avventore sconosciuto, giovane, decisamente affascinante e a giudicare dal mantello rosso e nero, estroso e di buona fattura, che si era negligentemente appoggiato sulle spalle, ricco: il genere di individuo che preferiva.

L’esimio sconosciuto marciò con passo fermo fino ad arrestarsi esattamente accanto a lei senza, con suo gran disappunto, percepire nemmeno la sua esistenza. Invece poggiò una mano elegante e sicura sul bancone e puntò uno sguardo di notturna cupezza su Taro, il proprietario del locale.

“Vorrei avere un tavolo,” esclamò con tono basso e imperativo.

“Come no,” si affrettò a rispondere l’altro, indicando la sala per mostrargli che aveva l’imbarazzo della scelta.

Effettivamente lo straniero aveva tre dei sette tavoli presenti a disposizione. Senza aggiungere una parola si diresse verso il più isolato, con calma, scostò la sedia e prese posto meccanicamente.

“Vuole mangiare?” domandò il locandiere, pronto.

“Un’intuizione straordinaria,” commentò l’uomo senza alzare lo sguardo. La sua voce non aveva subito la minima variazione né alcun dettaglio del suo viso rivelava un intento ironico o lontanamente spiritoso. Neppure, d’altra parte, pareva brusco o spazientito. Infinitamente distante e superiore, semmai, ma senza sprezzo.

Kikyo ridacchiò tra sé, colpita, mentre Taro si affrettava a urlare al cuoco di preparare un piatto per il signore della cinque. Con inusuale ottimismo la donna ruotò con grazia sullo sgabello, dando le spalle al bancone, e sorrise seducente.

Dev’essere affamato,” cinguettò, la voce abbastanza alta da risultare ben udibile. “Viaggia da solo?” domandò leggiadra.

Itachi si avvide in quel momento della sua presenza, spostando per un solo secondo lo sguardo su di lei e individuando una figura femminile voltata nella sua direzione. Tornò a fissare il muro, marmoreo.

“No.”

Non era un tono esattamente scontroso, ma decisamente distante e per nulla amichevole.

Kikyo rimase qualche secondo con le labbra semiaperte, presa alla sprovvista, mentre all’altro capo del bancone Mamoru, ubriacone patentato, ridacchiava malevolo nella sua direzione.

“Lascialo perdere,” la informò Taro in un mormorio. “Con quello non ci cavi un ragno dal buco.”

Kikyo sbuffò indispettita, storcendo il naso con stizza. Fece per voltarsi nuovamente verso il bancone e in quel momento una scodella scivolò fuori dallo sportello della cucina.

“Per il cinque,” annunciò il cuoco spiccio.

Kikyo anticipò il locandiere e afferrò il piatto con uno slancio di decisione, caparbia.

“Lo servo io, boss,” esclamò allegra. “Non ho niente da fare.”

“Senti un po’,” la bloccò lui, trattenendo la sua mano. “T’ho detto di lasciarlo perdere. Mi ha dato un sacco di soldi e vuole un po’ di discrezione,” la ammonì, puntando una tazza vuota verso di lei come uno shuriken.

“E che problema c’è?” protestò Kikyo con innocenza. “Sono un mostro di discrezione, io,” si difese, indignata, svicolando dalla presa dell’albergatore e voltandosi verso i tavoli con un sorriso smagliante.

“Ecco qui,” esclamò giuliva, sprizzando gentilezza da ogni poro, mentre si avviava al tavolo. “Un bel riso con gamberi e salsa di soia,” annunciò simulando entusiasmo, mentre posava il piatto sotto il suo naso.

Itachi distolse l’attenzione dalle macchie d’umido sulla parete per portare lo sguardo alla pietanza e quindi, dalle mani che lei aveva lasciato poggiate sul tavolo, su per le braccia fino al viso. Disinteressato, le elargì un cenno col capo.

“Grazie.”

Chinò la testa, portò le mani alla scodella per sistemarla più vicino a sé e si accinse a mangiare, imperturbabile.

Kikyo serrò brevemente le labbra, senza perdersi d’animo.

“Vuole dell’altro, signore?” miagolò, servizievole.

“Dell’acqua.”

Imponendosi di trattenere l’esasperazione la donna tornò al banco, si fece dare un bicchiere guadagnandosi l’ennesima occhiata di rimprovero da Taro, che ignorò sfacciatamente, e ripercorse i propri passi verso il tavolo incriminato.

“Ecco qui,” annunciò servendolo. “Posso esserle utile in qualche altro modo?” insistette sporgendosi verso di lui, procace.

“No,” rispose Itachi. “Grazie.”

Alzò lievemente gli occhi per seguire il suo allontanamento, intimamente sollevato. Portò il primo boccone alle labbra e in quel momento la donna, tornata al bancone, sollevò il bicchiere e fece dietro-front, con l’identico sorriso esagerato stampato sulle labbra.

“Sa che le dico?” esclamò gioviale. “Mi siedo qui con lei,” annunciò, mettendo in pratica il proposito prima che lui avesse avuto il tempo anche solo di pensare ad opporsi. “Dopotutto è triste mangiare da soli,” precisò con innocenza, sperando evidentemente in qualche segno di accordo.

Itachi chinò il capo, l’immagine che si formava da sé nella sua mente: una grande casa vuota che ricordava con precisione struggente e un bambino bruno, solo, seduto a mangiare ad una tavola deserta. Kikyo vide le sue dita aumentare la pressione sul legno, tanto da sbiancarsi sulle nocche.

“Non è grave,” osservò Itachi. “Posso sopportarlo,” affermò con tono monocorde.

La donna trattenne a forza uno sbuffo. Era un osso duro, quello straniero. Per una volta che la nottata avrebbe potuto andarle bene, doveva incappare proprio nell’uomo di ghiaccio.

“Oh, ma a me non dispiace,” ciarlò, decisa a non arrendersi. “Sono da sola anche io. Almeno ci faremo compagnia,” proseguì, dosando la giusta quantità di innocenza e invito nella propria voce.

Itachi continuò a mangiare senza degnarla di attenzione, sperando di dissuaderla da quell’insistenza. Kikyo sorseggiò lentamente il suo sakè in cerca d’ispirazione, accompagnata in sottofondo dalle chiacchiere dei clienti agli altri tavoli, del tutto disinteressati e quella commedia grottesca a due personaggi, e dal tramestio della cucina.

Infine si schiarì la gola, decisa a porre fine a quel silenzio.

“Allora…ha detto che non è solo,” attaccò, cordiale. “Viaggia con la sua famiglia? Sua moglie?” indagò, spudorata.

Itachi portò il bicchiere alle labbra, prendendo tempo.

“No,” ribatté, con una sfumatura di fastidio che lei parve non cogliere. “Non sono sposato. Non ho famiglia.”

Kikyo sgranò gli occhi costernata, esultando interiormente.

“Oh,” mormorò, comprensiva. “Niente di niente? Nemmeno una fidanzata? Niente figli?” continuò, per andare sul sicuro.

Lui le lanciò un’occhiata decisamente più ostile, che continuò a non sortire l’effetto voluto. O stava peggiorando decisamente più in fretta di quel che aveva creduto e il suo inquietante ascendente sul prossimo cominciava a fare cilecca, oppure quella donna aveva la testa più dura della roccia.

“No. Non ho assolutamente nessuno.”

Kikyo gli lanciò un’occhiata penetrante, registrando il suo tono categorico e, in qualche modo, amaro. Incuriosita, si protese lievemente in avanti.

“Avrà pur qualcuno da qualche parte,” insistette, risoluta a non far cadere di nuovo la conversazione. “Io ho una sorella. Maggiore. Si è sposata con uno di fuori e ha lasciato il villaggio, anni fa. È lontana e non ho quasi mai sue notizie, a volte penso si sia dimenticata di me, ma è pur sempre qualcosa. È mia sorella,” concluse, mettendo insieme un sorriso molto più tirato, ma sincero.

A quelle parole Itachi sollevò istintivamente gli occhi su di lei e la guardò, realmente, per la prima volta. Aveva occhi grandi, castani e decisamente smarriti sotto il trucco pesante. La osservò meditabondo per qualche secondo e Kikyo rimase intimidita da quelle iridi impenetrabili, lontane e spente.

“E tu non hai un uomo, invece?” domandò Itachi, senza nemmeno aver chiara del tutto la ragione per cui si lasciava trascinare in quella conversazione. Non che gli restasse molta scelta, comunque, a parte ucciderla sul posto. E allora addio tranquilla copertura.

“Oh, sicuro!” rise Kikyo, accantonando l’improvvisa soggezione. “Uno diverso quasi ogni notte. Così lavoro poco e guadagno quel che basta per vivere. Si fa quel che si può, per tirare avanti,” aggiunse, quasi a mo’ di scuse. Era strano, quell’uomo. Non se n’era accorta subito, ma quando l’aveva guardata attentamente aveva percepito qualcosa, al di sotto, che le sembrava quasi un dono raro, umanità.

Itachi posò le bacchette, spingendo il piatto non ancora vuoto un po’ di lato, e poggiò la mano sul tavolo fissandone il dorso.

“Ho un fratello,” annunciò, la voce bassa e senza cadenza.

Kikyo si ravvivò, gioendo del fatto di essere riuscita finalmente a strappargli un’informazione. Era fatta, ci poteva riuscire.

“Hai un fratello? Davvero? Più grande o più piccolo?” lo incoraggiò di slancio prima che ricadesse nel mutismo, lanciandosi in una ardita quanto oculata seconda persona per accorciare le distanze.

“Minore,” smozzicò Itachi trattenendo l’irritazione. Quella a darle una mano si prendeva non solo tutto il braccio, ma anche le spalle e la testa.

“Come si chiama?” continuò Kikyo, facendo scivolare una mano verso quella di lui e fermandola a poca distanza.

“Sasuke,” rispose secco ma, senza che se ne accorgesse e come invece non sfuggì alla donna, le labbra gli si incurvarono in una vaghissima ombra di sorriso mentre ne pronunciava il nome.

“Sasuke,” ripeté Kikyo entusiasta. “Bello.”

Itachi annuì leggermente, rimanendo in silenzio. Kikyo colse nitidamente la leggera brillantezza che gli aveva animato lo sguardo nel parlare del fratello svanire e la sua espressione rifarsi cupa e assente e si affrettò a correre  ai ripari.

"E…e dimmi,” lo interrogò, soave. “Lui vive ancora con i vostri genitori?"

"No," rispose lui fissando il vuoto, assorto. "Mio fratello è orfano."

Kikyo sussultò lievemente, perplessa. Non aveva senso. Quell’uomo non era solo glaciale, o strano, era proprio uno spostato. Le sfuggì un risolino nervoso, ilare.

"Lui è orfano? E tu cosa saresti?" obiettò, non sapendo se prenderlo sul serio.

"Io?” ripeté svogliatamente Itachi tornando a guardarla, e questa volta Kikyo si sentì raggelare dalla profondità spietata dei suoi occhi. “Io sono l’assassino," mormorò truce. Forse aveva trovato il modo per farla allontanare, e non solo quello. Forse. “Ti ho detto che è orfano, no?” aggiunse, feroce.

La donna si ritrasse con un balzo, senza volere. La sua mano tremò sul tavolo e per un istante ebbe l’impulso di alzarti e fuggire a gambe levate. Spostò uno sguardo affannoso intorno e nel distoglierlo da lui si rese conto che si stava prendendo gioco di lei. La stava prendendo in giro ed era così stupida da cascarci come una bambina. Sì, doveva essere così.

Scoppiò a ridere ancor più nervosamente di prima, cercando di calmare il tremito delle gambe e il battito accelerato del cuore.

“Che…che sciocca!” esclamò tra una risata forzata e l’altra. “Per un…istante ci ho creduto davvero!” aggiunse, scuotendo la testa con un lungo espiro per scaricare la tensione. “Che tipo che sei! Sai che ti dico, ti offro un bicchiere. Cosa vuoi bere?” continuò, avvertendo l’impulso di allontanarsi un momento per prendere fiato.

Itachi lasciò che le proprie spalle ricadessero in avanti, inerti.

“Un sakè,” sospirò composto.

“D’aaaccordo! Arriva,” cinguettò Kikyo, alzandosi di lena.

Itachi la guardò mentre si faceva servire, gli occhi che si assottigliavano con decisione, lugubri. Quando lei gli tornò incontro sorridendo con il bicchiere tra le mani, inspirò per prepararsi.

“Ecco qui,” esclamò Kikyo seducente. “Un sakè per l’assassino,” mormorò con una smorfietta d‘intesa, posandogli il bicchiere davanti.

Itachi non le diede il tempo di allontanare la mano, afferrandogliela di scatto e facendola sobbalzare, confusa e, anche, speranzosa. Gettò un’occhiata intorno per verificare di non essere osservato, quindi le fece cenno di avvicinarsi. Kikyo si chinò in avanti, incuriosita.

“Un lavoro di precisione,” mormorò lui lento, fissandola negli occhi con crudeltà. Il rosso sanguigno dello sharingan la inchiodò sul posto, accompagnando con immagini di una violenza inaudita le parole che lui prese a sussurrarle. “Uno shuriken dritto al cuore di mia madre. Con mio padre è stato più complicato, era uno shinobi pericoloso. Ho dovuto finirlo con diversi colpi, c’era un lago di sangue quando si è finalmente deciso a morire. Poi abbiamo ucciso tutti gli altri. Ho risparmiato il moccioso perché era troppo insignificante.” La mano stretta nella sua tremava violentemente, Kikyo era pallida, strattonava per cercare di liberarsi invano dalla morsa della sua presa e un sudore gelato le imperlava la fronte, mentre l’ultima immagine mostruosa del bambino, a terra singhiozzante davanti ai corpi inerti dei genitori, le martellava la mente. “Non urlare e ascoltami bene. Se adesso ti volti con calma, prendi la tua roba e te ne torni a casa potrai raccontare ai tuoi nipoti che una volta sei scampata per un soffio ad un mostro sanguinario. Altrimenti giuro che ti ammazzo. Qui. Adesso.”

Kikyo aveva gli occhi gonfi di lacrime, che traboccavano colandole lungo le guance. Annuì freneticamente, mordendosi le labbra quasi a sangue.

“Bravissima,” commentò Itachi comprensivo. “Sparisci. Ora. E se vuoi un consiglio, smettila di adescare sconosciuti in una locanda. Non puoi mai sapere con chi si sta parlando.”

Kikyo non se lo fece ripetere: senza poter trattenere i singhiozzi di panico barcollò fino al bancone, afferrò il suo mantello e corse via, scomposta e terrorizzata. La sua scenica uscita fu seguita dall’attonito stupore dei presenti, che si sporsero a seguirne la scomparsa e portarono l’attenzione al suo sconosciuto interlocutore. Dopo un breve, spiacevole silenzio qualcuno ridacchiò.

“Non so cosa tu le abbia detto, amico,” commentò un beone, sogghignando, “ma complimenti vivissimi. È quel che si merita, la sgualdrina,” aggiunse, scatenando una risata tra i compagni di tavolo.

Itachi portò la mano alla tempia e strizzò gli occhi, il dolore che gli trapassava la testa. Poi si voltò verso l’uomo, con uno sguardo che parlava di morte.

“Siete tutti molto bravi a giudicare,” scandì, gelido e tagliente.

Qualcosa nel suo viso e nel suo tono fu sufficiente a far cessare le risate.

Riportò l’attenzione al proprio piatto, mentre più o meno lentamente ciascuno tornava ad occuparsi degli affari propri con una certa vergogna e un aperto timore. Il suo riso ormai era freddo, ma almeno poteva mangiare in pace.

“Ancora non hai finito?” lo apostrofò improvvisa la voce ironica di Kisame, che si appoggiò mollemente al tavolo in quel momento.

Itachi gli rivolse un’occhiata vagamente astiosa, prima di tornare alla sua scodella.

“Ottimo tempismo,” osservò freddo.

Lo spadaccino lo studiò perplesso, prima di sedersi con una scrollata di spalle.

“Sei bianco come un cencio. Un momento, quello è sakè,” commentò stupito. “Ma tu non lo bevi mai. Ti spiace se...?”

“Fa’ pure,” lo anticipò Itachi, apatico. “E’ tutto per te,” concluse mentre Kisame, col suo sorriso da squalo, portava il bicchierino alle labbra.

 

~~~~~

 

“Di’, Taro,” biascicò Mamoru, stringendo debolmente il bicchiere mezzo vuoto, i gomiti poggiati sul bancone. “E’ successo qualcosa a Kikyo? Sono parecchi giorni che non la si vede.”

Il locandiere si strinse nelle spalle, continuando a sciacquare i bicchieri svogliatamente.

“Non viene più, da quella sera dello straniero. Sembra si sia fatta assumere nella bottega della vecchia Arimi, dice che lavora molto ma non l’ho mai vista così serena,” raccontò pacato.

“Perderai qualche cliente, mi sa,” ridacchiò il vecchio ubriacone, prima di scoppiare in un accesso di tosse.

“Sì, può darsi,” commentò Taro, serafico. “Ma in fondo preferisco così. Dopotutto, non è una cattiva ragazza,” osservò, con un accenno di sorriso.

“Mi domando cosa le abbia detto, quel tipo,” continuò Mamoru bevendo una nuova gollata.

“Già, me lo domando anche io,” convenne Taro, impilando dei piattini accanto al lavabo. “Ma, qualunque cosa fosse, è stato davvero provvidenziale.”

 

 

 

   
 
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