Voi
direte, questa storia non ha senso. Probabilmente avete anche ragione.
Però
l’ho scritta.
Se
vi va leggetela. Avete il permesso di tirarmi tutti gli ortaggi e la frutta
marcia che volete, ad eccezione di quelli molto duri come zucchini e mele, e
soprattutto di farmi presenti tutti gli errori e le imprecisioni, che sistemerò
ringraziandovi sentitamente.
Buon
tutto.
suni
UN
SAKÈ PER L’ASSASSINO
Arrivarono
al villaggio nel primo pomeriggio di un giorno piovoso. Il cielo uggioso
emanava un grigiore opprimente e una fitta pioggerella imperversava decisa,
mentre i due uomini varcavano le porte d’accesso: stranieri mai visti
prima, dal viso quasi del tutto coperto dalle lunghe falde bianche dei cappelli
di paglia. Indossavano entrambi spesse cappe nere, su cui spiccavano nuvole purpuree
disegnate nel tessuto.
Il
chunin di guardia li vide rallentare il passo per qualche secondo proprio
all’altezza del cancello, roteare in sincrono le teste per guardarsi
intorno e poi avviarsi verso di lui, lenti e sicuri. Quando gli giunsero vicini notò la gigantesca spada che uno dei due portava in
spalla. S’irrigidì lievemente, aggrottando la fronte.
“Posso
aiutarvi?” domandò marziale.
L’uomo
di fronte a lui, leggermente più basso dello spadaccino, sollevò
appena la testa.
“Vorremmo
passare uno o due giorni nel vostro villaggio,” annunciò
flemmatico, lasciandogli intravedere la china di due apatici occhi neri.
“E’ possibile?” aggiunse, col tono di chi si aspetta una sola
risposta, e affermativa.
“Certamente,”
rispose il chunin spalancando il registro degli ingressi. “I vostri
nomi?”
“Non
sono affari tu…” iniziò bruscamente il secondo, con tono
assai più secco di quello usato dal compagno di viaggio. Il primo estrasse
la mano dalle profondità del mantello e la sollevò in un gesto
misurato e autorevole, riducendolo a un infastidito silenzio.
“Il
mio nome è Tanaka Ryo,”
annunciò grave, con noncuranza. “Questo è Kadeshi Toushiro. Veniamo dalla
Sabbia e siamo in viaggio per affari,” concluse, mentre lo shinobi di
guardia scriveva diligentemente le informazioni sul registro.
“Sta
bene,” commentò poi. “Bene arrivati al villaggio. Se cercate
un riparo per la notte c’è una locanda in…” Ma
s’interruppe, perplesso: i due viaggiatori gli avevano già voltato
le spalle, riprendendo la loro marcia lungo la via che conduceva al centro del
paese.
“Che
razza di tipi,” mormorò il suo collega, sbucando alle sue spalle
dal gabbiotto degli uomini di guardia. Lui annuì assorto, osservando le
due figure nere allontanarsi senza fretta, come se la pioggia non le stesse
disturbando in nessun modo, fino a scomparire.
“Non
male Ryo,” commentò a mezza voce Kisame,
snudando i denti inumani in un sorriso noncurante. “Ma se non ti spiace
continuerò a chiamarti come al solito, Itachi,” aggiunse con
un’aspra, fredda risatina. L’interessato non rispose. Se era divertito,
non lo diede a vedere.
“Ricordami
il motivo di quella simpatica messinscena,” continuò Kisame,
gettando alla strada male in arnese e pressoché deserta qualche sguardo
vago, del tutto privo di interesse. “Avremmo potuto passare da un accesso
secondario,” continuò, con una smorfia remotamente contrariata.
“Qualcuno
avrebbe potuto notare che non ci eravamo registrati e insospettirsi,”
replicò Itachi con voce monocorde. “Siamo abbastanza lontani da
qualunque posto in cui le nostre facce siano note da poterci permettere di
mostrarci in paese come chiunque altro, sarebbe spiacevole attirare
l’attenzione per non aver eseguito una banale formalità,”
concluse portando la mano alla testa, all’altezza delle tempie, e
strizzando impercettibilmente gli occhi.
“Tutto
a posto?” domandò Kisame, senza vera premura.
“Con
questa pioggia non ci vedo niente,” rispose atono Itachi, rallentando in
vista della locanda. Lo spadaccino gli gettò un’occhiata acuta, ma
l’impenetrabilità del suo viso non gli diede modo di verificare
quell’affermazione di dubbia veridicità.
“Il
Rospo Felice,” sogghignò, leggendo il nome sull’insegna
appesa accanto all’uscio. “Sembra perfetto per noi.”
Itachi
non rispose di nuovo, limitandosi a spingere la porta che scampanellò
vivace.
L’ambiente
era angusto e spartano, male illuminato. Ai pochi tavolacci in legno erano
sistemati un pugno di avventori dall’aria annoiata, chi parlottando
svogliatamente, chi sorseggiando bevande calde e spiriti. Dietro il massiccio
bancone scuro un triste figuro asciugava silenziosamente i boccali, senza
nemmeno alzare lo sguardo su di loro.
“Perché
mai un rospo dovrebbe essere felice, qui dentro?” brontolò Kisame
scettico, scrutando il locale con vago sprezzo.
“Potresti
discuterne col proprietario,” ribatté Itachi con indifferenza,
avvicinandosi all’uomo senza badare ai pochi sguardi dei clienti che,
vagamente incuriositi, accoglievano indiscreti i primi due stranieri che
giungevano in paese da settimane. “Vorremmo due letti per la
notte,” esordì saltando i preamboli. Il suo interlocutore annuì,
incurante, e senza posare il bicchiere né alzare la testa allungò
un braccio a staccare dal muro accanto a sé una chiave arrugginita, per
poi sporgergliela brusco.
“Stanza
cinque, primo piano, penultima a destra. Avete bagagli?” mugghiò
con voce profonda e cavernosa.
“No.”
Il
proprietario annuì nuovamente, compreso. Itachi si voltò e fece
due passi per imboccare le scale, mentre Kisame, bilanciato meglio il peso
della spada sulle spalle, si accingeva a imitarlo.
“Pagamento
anticipato,” li arrestò la voce dell’uomo, ferma e secca.
L’Uchiha
non si mosse per un paio di secondi, il volto messo in ombra dal cappello a
falde.
“Capisco,”
commentò, infilando la mano nel mantello per estrarne una sacca in
stoffa scura. Slacciò il nodo che la chiudeva e pescò senza
guardare una manciata di banconote, prima di tornare al bancone e depositarvele
con indifferenza. “Va bene così?”
Gli
occhi dell’altro scivolarono fino ai soldi e poi, finalmente, si
sollevarono per la prima volta verso il suo volto, lievemente sgranati.
“Per
quella somma potete restare tutta la settimana,” affermò
sbalordito.
“Non
ce ne sarà bisogno,” lo contraddisse Itachi senza variazioni
d’espressione. “Sarà sufficiente che il servizio sia
efficiente e discreto,” concluse, calcando lievemente la voce
sull’ultima parola.
“Ci
può giurare, buonuomo,” confermò l’altro con
improvvisa cordialità.
“Allora,”
intervenne Kisame imperioso, “vorrei mangiare qualcosa tra una decina di
minuti.”
“Preparo
subito un tavolo. Per tutti e due?” rispose il proprietario, solerte.
“No,”
diniegò Itachi, voltandogli definitivamente le
spalle. “Non ho fame.”
Kisame
lo seguì lungo le scale con un sorriso aleggiante sulle labbra.
“Com’è
diventato servizievole tutt’a un tratto, il vegliardo”
considerò sprezzante, mentre raggiungevano il loro piano. Itachi
annuì brevemente, prima di spalancare l’uscio numero cinque su un
vano spoglio in cui troneggiavano solitari due letti un po’ usurati, una
sedia e un tavolino.
Non
appena la porta fu chiusa alle spalle di entrambi Kisame modulò una
risata roca e senz’allegria, velatamente glaciale.
“Buonuomo
a te!” commentò apparentemente esilarato dall’accaduto,
mentre Itachi, sfilato il cappello, lo abbandonava sulla sedia e si slacciava
stancamente il mantello. “Mi piacerebbe che un qualunque, rispettabile
cittadino di Konoha avesse assistito alla scena!” proseguì,
scuotendo il capo e liberandosi a sua volta della zavorra.
Itachi,
impassibile, sistemò la cappa sullo schienale e si lasciò andare
seduto sul materasso, che cigolò un poco.
“Un
rispettabile cittadino di Konoha non si troverebbe in un posto come
questo,” considerò a voce bassa, studiando assorto uno spicchio di
cielo grigio fuori dalla finestra picchiettata di gocce piovane.
Kisame
inclinò appena la testa, concorde.
“Vero.
Hai detto che era bene fermarci qui anche per via questo, no? Chi si aspetterebbe di
trovarci in un villaggio
così miserabile…” osservò sbrigativo. “Io
scendo. Sicuro che non vuoi mangiare?” aggiunse, tornando verso la porta.
Itachi
scosse il capo con un lungo inspiro, chiudendo gli occhi per qualche secondo
prima di abbandonarsi indietro, la testa poggiata al cuscino. Kisame si
accigliò appena, osservandolo con le dita già strette sulla
maniglia. Altro che pioggia che gli offuscava la vista, quello non la
raccontava giusta. Ogni volta che lo vedeva in faccia, i segni della devastazione
erano più marcati. Itachi si stava logorando, probabilmente non sarebbe
durato ancora a lungo.
“Come
credi,” borbottò, cupo, aggrottando la fronte. Gli diede la schiena e, senza aggiungere
altro, si diresse dabbasso a consumare il suo pranzo.
Quando
rientrò in camera, più di un’ora dopo, lo ritrovò
immobile nella medesima posizione. Sulle prime pensò che dormisse, ma
appena ebbe fatto un paio di passi verso l’interno gli occhi di pece del
suo storico compagno di viaggio si aprirono fissandosi su di lui, perfettamente
lucidi e assolutamente non velati di sonno recente.
“Com’è
la cucina?” domandò Itachi distaccato.
Kisame
contrasse il viso in una smorfia.
“Come
l’aspetto del luogo lascia supporre,” rispose, prendendo il
cappello dell’altro dalla sedia e lanciandolo sul tavolo. “In più, il
nostro ospite si è sentito in dovere di intrattenermi con aneddoti sulla
vita locale, e c’è una cameriera che non si capisce
se sia una cameriera o cos’altro,” proseguì, accostandosi al
muro e recuperando la spada che vi aveva appoggiato.
“Cos’altro?”
ripeté Itachi con remota curiosità, lisciando inconsapevolmente
una piega della coperta accanto al suo fianco.
“Suvvia,
un uomo di mondo come te,” sogghignò Kisame, iniziando a svolgere
l’arma dalla sua custodia per poi accomodarsi sulla sedia precedentemente
liberata.
Itachi
non reagì alla velata e scherzosa provocazione, limitandosi a tornare a
osservare l’esterno attraverso i vetri bagnati. Kisame estrasse un panno dalla
tasca rigonfia degli abiti, prendendo a lucidare meticolosamente la lunga lama
affilata di cui era l’onorato proprietario. Lavorò con
alacrità per qualche silenzioso minuto, quindi tornò a scrutare
il collega.
“Non
capisco perché ci siamo fermati qui, però. Non sarebbe stato grave prendere un
po’ di pioggia,” commentò, interrompendo il momento di mutismo.
“Non
abbiamo nessunissima fretta,” osservò Itachi senza voltarsi.
“Se non ci fossimo fermati oggi avremmo dovuto aspettare nei prossimi
giorni.”
“In
qualche luogo meno spiacevole,” aggiunse Kisame contrariato.
“In
cui avremmo dovuto restare nascosti per non essere riconosciuti,”
puntualizzò l’altro stancamente.
Kisame
serrò le labbra sottili, apparentemente indispettito. Quindi
accennò un sorriso scaltro, poggiandosi per un istante la spada contro le
ginocchia.
“Pensi
sempre a tutto, eh, Itachi?” commentò, ironico. “Hai sempre una visione appena
più ampia degli altri. Mi domando se sia per via di quel tuo sharingan o
se dipenda da altro,” continuò assottigliando gli occhi.
L’Uchiha
non ebbe apparenti reazioni, spostò soltanto lo sguardo al soffitto e
tacque per qualche secondo, immobile.
“Né
l’uno né l’altro,” controbatté laconico.
Non
dissero nulla di più. Kisame continuò a dedicarsi alla cura della
sua spada e Itachi a rimanere sdraiato, immobile, assorbito da pensieri che gli
occhi neri non lasciavano minimamente trapelare. Erano così abituati
l’uno all’altro, comunque, che l’atmosfera era perfettamente
naturale.
Quando,
tempo dopo, Uchiha Itachi si alzò a sedere con uno scatto improvviso che
non sorprese minimamente Kisame, era quasi l’imbrunire. Rassettò
la maglia nera con un gesto distratto e poi si tirò in piedi, la lunga
coda nera di capelli ondeggiante sulla schiena.
“Vado
a mangiare,” annunciò a voce bassa, quasi a se stesso.
“Buona
fortuna,” replicò Kisame, filosofico. “Magari più
tardi ti raggiungo.”
Lui
annuì a malapena, senza quasi ascoltarlo. Sfilò da dietro la sua
schiena il proprio mantello, quasi con delicatezza, e imboccò la porta
con invariato silenzio.
Kikyo
Katsuraya non aveva fortuna. Sola, senza mezzi e
senza risorse se non un corpo accattivante e un sorriso sensuale, sbarcava il
lunario nella peggiore delle maniere e non aveva grandi prospettive. Tuttavia,
Kikyo era una ragazza pratica, terra terra. Non si crogiolava nella sua mala
sorte, né del resto il suo tenore di vita le aveva mai lasciato molto
tempo per meditazioni esistenziali e grandi afflati di idealismo.
Comunque
stessero le cose quel pomeriggio, poco prima dell’ora di cena, mentre se
ne stava appollaiata al bancone con il suo sakè, Kikyo ebbe la netta
percezione che la sorte al momento le stesse invece sorridendo. Per la precisione, quella sensazione la colse
quando vide sbucare dalle scale che portavano alle camere un avventore
sconosciuto, giovane, decisamente affascinante e a giudicare dal mantello rosso
e nero, estroso e di buona fattura, che si era negligentemente appoggiato sulle
spalle, ricco: il genere di individuo che preferiva.
L’esimio
sconosciuto marciò con passo fermo fino ad arrestarsi esattamente
accanto a lei senza, con suo gran disappunto, percepire nemmeno la sua
esistenza. Invece poggiò una mano elegante e sicura sul bancone e
puntò uno sguardo di notturna cupezza su Taro, il proprietario del
locale.
“Vorrei
avere un tavolo,” esclamò con tono basso e imperativo.
“Come
no,” si affrettò a rispondere l’altro, indicando la sala per
mostrargli che aveva l’imbarazzo della scelta.
Effettivamente
lo straniero aveva tre dei sette tavoli presenti a disposizione. Senza
aggiungere una parola si diresse verso il più isolato, con calma,
scostò la sedia e prese posto meccanicamente.
“Vuole
mangiare?” domandò il locandiere, pronto.
“Un’intuizione
straordinaria,” commentò l’uomo senza alzare lo sguardo. La
sua voce non aveva subito la minima variazione né alcun dettaglio del
suo viso rivelava un intento ironico o lontanamente spiritoso. Neppure,
d’altra parte, pareva brusco o spazientito. Infinitamente distante e
superiore, semmai, ma senza sprezzo.
Kikyo
ridacchiò tra sé, colpita, mentre Taro si affrettava a urlare al
cuoco di preparare un piatto per il signore della cinque. Con inusuale
ottimismo la donna ruotò con grazia sullo sgabello, dando le spalle al
bancone, e sorrise seducente.
“Dev’essere affamato,” cinguettò, la voce
abbastanza alta da risultare ben udibile. “Viaggia da solo?”
domandò leggiadra.
Itachi
si avvide in quel momento della sua presenza, spostando per un solo secondo lo
sguardo su di lei e individuando una figura femminile voltata nella sua
direzione. Tornò a fissare il muro, marmoreo.
“No.”
Non
era un tono esattamente scontroso, ma decisamente distante e per nulla
amichevole.
Kikyo
rimase qualche secondo con le labbra semiaperte, presa alla sprovvista, mentre
all’altro capo del bancone Mamoru, ubriacone
patentato, ridacchiava malevolo nella sua direzione.
“Lascialo
perdere,” la informò Taro in un mormorio. “Con quello non ci
cavi un ragno dal buco.”
Kikyo
sbuffò indispettita, storcendo il naso con stizza. Fece per voltarsi
nuovamente verso il bancone e in quel momento una scodella scivolò fuori
dallo sportello della cucina.
“Per
il cinque,” annunciò il cuoco spiccio.
Kikyo
anticipò il locandiere e afferrò il piatto con uno slancio di
decisione, caparbia.
“Lo
servo io, boss,” esclamò allegra. “Non ho niente da
fare.”
“Senti
un po’,” la bloccò lui, trattenendo la sua mano.
“T’ho detto di lasciarlo perdere. Mi ha dato un sacco di soldi e
vuole un po’ di discrezione,” la ammonì, puntando una tazza
vuota verso di lei come uno shuriken.
“E
che problema c’è?” protestò Kikyo con innocenza.
“Sono un mostro di discrezione, io,” si difese, indignata,
svicolando dalla presa dell’albergatore e voltandosi verso i tavoli con
un sorriso smagliante.
“Ecco
qui,” esclamò giuliva, sprizzando gentilezza da ogni poro, mentre
si avviava al tavolo. “Un bel riso con gamberi e salsa di soia,”
annunciò simulando entusiasmo, mentre posava il piatto sotto il suo
naso.
Itachi
distolse l’attenzione dalle macchie d’umido sulla parete per
portare lo sguardo alla pietanza e quindi, dalle mani che lei aveva lasciato
poggiate sul tavolo, su per le braccia fino al viso. Disinteressato, le
elargì un cenno col capo.
“Grazie.”
Chinò
la testa, portò le mani alla scodella per sistemarla più vicino a
sé e si accinse a mangiare, imperturbabile.
Kikyo
serrò brevemente le labbra, senza perdersi d’animo.
“Vuole
dell’altro, signore?” miagolò, servizievole.
“Dell’acqua.”
Imponendosi
di trattenere l’esasperazione la donna tornò al banco, si fece
dare un bicchiere guadagnandosi l’ennesima occhiata di rimprovero da Taro,
che ignorò sfacciatamente, e ripercorse i propri passi verso il tavolo
incriminato.
“Ecco
qui,” annunciò servendolo. “Posso esserle utile in qualche
altro modo?” insistette sporgendosi verso di lui, procace.
“No,”
rispose Itachi. “Grazie.”
Alzò
lievemente gli occhi per seguire il suo allontanamento, intimamente sollevato.
Portò il primo boccone alle labbra e in quel momento la donna, tornata
al bancone, sollevò il bicchiere e fece dietro-front, con l’identico
sorriso esagerato stampato sulle labbra.
“Sa
che le dico?” esclamò gioviale. “Mi siedo qui con
lei,” annunciò, mettendo in pratica il proposito prima che lui
avesse avuto il tempo anche solo di pensare ad opporsi. “Dopotutto
è triste mangiare da soli,” precisò con innocenza, sperando
evidentemente in qualche segno di accordo.
Itachi
chinò il capo, l’immagine che si formava da sé nella sua
mente: una grande casa vuota che ricordava con precisione struggente e un bambino bruno, solo, seduto a mangiare ad una
tavola deserta. Kikyo vide le sue dita aumentare la pressione sul legno, tanto
da sbiancarsi sulle nocche.
“Non
è grave,” osservò Itachi. “Posso sopportarlo,” affermò
con tono monocorde.
La
donna trattenne a forza uno sbuffo. Era un osso duro, quello straniero. Per una
volta che la nottata avrebbe potuto andarle bene, doveva incappare proprio
nell’uomo di ghiaccio.
“Oh,
ma a me non dispiace,” ciarlò, decisa a non arrendersi.
“Sono da sola anche io. Almeno ci faremo compagnia,”
proseguì, dosando la giusta quantità di innocenza e invito nella
propria voce.
Itachi
continuò a mangiare senza degnarla di attenzione, sperando di
dissuaderla da quell’insistenza. Kikyo sorseggiò lentamente il suo
sakè in cerca d’ispirazione, accompagnata in sottofondo dalle
chiacchiere dei clienti agli altri tavoli, del tutto disinteressati e quella
commedia grottesca a due personaggi, e dal tramestio della cucina.
Infine
si schiarì la gola, decisa a porre fine a quel silenzio.
“Allora…ha
detto che non è solo,” attaccò, cordiale. “Viaggia
con la sua famiglia? Sua moglie?” indagò, spudorata.
Itachi
portò il bicchiere alle labbra, prendendo tempo.
“No,”
ribatté, con una sfumatura di fastidio che lei parve non cogliere.
“Non sono sposato. Non ho famiglia.”
Kikyo
sgranò gli occhi costernata, esultando interiormente.
“Oh,”
mormorò, comprensiva. “Niente di niente? Nemmeno una fidanzata?
Niente figli?” continuò, per andare sul sicuro.
Lui
le lanciò un’occhiata decisamente più ostile, che
continuò a non sortire l’effetto voluto. O stava peggiorando
decisamente più in fretta di quel che aveva creduto e il suo inquietante
ascendente sul prossimo cominciava a fare cilecca, oppure quella donna aveva la
testa più dura della roccia.
“No.
Non ho assolutamente nessuno.”
Kikyo
gli lanciò un’occhiata penetrante, registrando il suo tono
categorico e, in qualche modo, amaro. Incuriosita, si protese lievemente in
avanti.
“Avrà
pur qualcuno da qualche parte,” insistette, risoluta a non far cadere di
nuovo la conversazione. “Io ho una sorella. Maggiore. Si è sposata
con uno di fuori e ha lasciato il villaggio, anni fa. È lontana e non ho
quasi mai sue notizie, a volte penso si sia dimenticata di me, ma è pur
sempre qualcosa. È mia sorella,” concluse, mettendo insieme un
sorriso molto più tirato, ma sincero.
A quelle parole Itachi
sollevò istintivamente gli occhi su di lei e la guardò,
realmente, per la prima volta. Aveva occhi grandi, castani e decisamente
smarriti sotto il trucco pesante. La osservò meditabondo per qualche
secondo e Kikyo rimase intimidita da quelle iridi impenetrabili, lontane e
spente.
“E
tu non hai un uomo, invece?” domandò Itachi, senza nemmeno aver
chiara del tutto la ragione per cui si lasciava trascinare in quella conversazione.
Non che gli restasse molta scelta, comunque, a parte ucciderla sul posto. E
allora addio tranquilla copertura.
“Oh,
sicuro!” rise Kikyo, accantonando l’improvvisa soggezione.
“Uno diverso quasi ogni notte. Così lavoro poco e guadagno quel
che basta per vivere. Si fa quel che si può, per tirare avanti,”
aggiunse, quasi a mo’ di scuse. Era strano, quell’uomo. Non se
n’era accorta subito, ma quando l’aveva guardata attentamente aveva
percepito qualcosa, al di sotto, che le sembrava quasi un dono raro, umanità.
Itachi
posò le bacchette, spingendo il piatto non ancora vuoto un po’ di
lato, e poggiò la mano sul tavolo fissandone il dorso.
“Ho
un fratello,” annunciò, la voce bassa e senza cadenza.
Kikyo
si ravvivò, gioendo del fatto di essere riuscita finalmente a strappargli
un’informazione. Era fatta, ci poteva riuscire.
“Hai
un fratello? Davvero? Più grande o più piccolo?” lo
incoraggiò di slancio prima che ricadesse nel mutismo, lanciandosi in
una ardita quanto oculata seconda persona per accorciare le distanze.
“Minore,”
smozzicò Itachi trattenendo l’irritazione. Quella a darle una mano
si prendeva non solo tutto il braccio, ma anche le spalle e la testa.
“Come
si chiama?” continuò Kikyo, facendo scivolare una mano verso
quella di lui e fermandola a poca distanza.
“Sasuke,”
rispose secco ma, senza che se ne accorgesse e come invece non sfuggì
alla donna, le labbra gli si incurvarono in una vaghissima ombra di sorriso
mentre ne pronunciava il nome.
“Sasuke,”
ripeté Kikyo entusiasta. “Bello.”
Itachi
annuì leggermente, rimanendo in silenzio. Kikyo colse nitidamente la
leggera brillantezza che gli aveva animato lo sguardo nel parlare del fratello svanire e la sua
espressione rifarsi cupa e assente e si affrettò a correre ai ripari.
"E…e dimmi,”
lo interrogò, soave. “Lui vive ancora con i vostri genitori?"
"No," rispose lui
fissando il vuoto, assorto. "Mio fratello è orfano."
Kikyo sussultò
lievemente, perplessa. Non aveva senso. Quell’uomo non era solo glaciale,
o strano, era proprio uno spostato. Le sfuggì un risolino nervoso,
ilare.
"Lui è orfano? E
tu cosa saresti?" obiettò, non sapendo se prenderlo sul serio.
"Io?” ripeté
svogliatamente Itachi tornando a guardarla, e questa volta Kikyo si
sentì raggelare dalla profondità spietata dei suoi occhi.
“Io sono l’assassino," mormorò truce. Forse aveva
trovato il modo per farla allontanare, e non solo quello. Forse. “Ti ho detto
che è orfano, no?” aggiunse, feroce.
La donna si ritrasse con un
balzo, senza volere. La sua mano tremò sul tavolo e per un istante ebbe
l’impulso di alzarti e fuggire a gambe levate. Spostò uno sguardo
affannoso intorno e nel distoglierlo da lui si rese conto che si stava
prendendo gioco di lei. La stava prendendo in giro ed era così stupida
da cascarci come una bambina. Sì, doveva essere così.
Scoppiò a ridere ancor
più nervosamente di prima, cercando di calmare il tremito delle gambe e
il battito accelerato del cuore.
“Che…che
sciocca!” esclamò tra una risata forzata e l’altra.
“Per un…istante ci ho creduto davvero!” aggiunse, scuotendo
la testa con un lungo espiro per scaricare la tensione. “Che tipo che
sei! Sai che ti dico, ti offro un bicchiere. Cosa vuoi bere?”
continuò, avvertendo l’impulso di allontanarsi un momento per
prendere fiato.
Itachi lasciò che le
proprie spalle ricadessero in avanti, inerti.
“Un sakè,”
sospirò composto.
“D’aaaccordo! Arriva,” cinguettò Kikyo, alzandosi
di lena.
Itachi la guardò mentre
si faceva servire, gli occhi che si assottigliavano con decisione, lugubri.
Quando lei gli tornò incontro sorridendo con il bicchiere tra le mani,
inspirò per prepararsi.
“Ecco qui,”
esclamò Kikyo seducente. “Un sakè per
l’assassino,” mormorò con una smorfietta
d‘intesa, posandogli il bicchiere davanti.
Itachi non le diede il tempo
di allontanare la mano, afferrandogliela di scatto e facendola sobbalzare,
confusa e, anche, speranzosa. Gettò un’occhiata intorno per
verificare di non essere osservato, quindi le fece cenno di avvicinarsi. Kikyo
si chinò in avanti, incuriosita.
“Un lavoro di
precisione,” mormorò lui lento, fissandola negli occhi con
crudeltà. Il rosso sanguigno dello sharingan la inchiodò sul
posto, accompagnando con immagini di una violenza inaudita le parole che lui prese
a sussurrarle. “Uno shuriken dritto al cuore di mia madre. Con mio padre
è stato più complicato, era uno shinobi pericoloso. Ho dovuto
finirlo con diversi colpi, c’era un lago di sangue quando si è finalmente deciso a morire. Poi
abbiamo ucciso tutti gli altri. Ho risparmiato il moccioso perché era
troppo insignificante.” La mano stretta nella sua tremava violentemente,
Kikyo era pallida, strattonava per cercare di liberarsi invano dalla morsa
della sua presa e un sudore gelato le imperlava la fronte, mentre
l’ultima immagine mostruosa del bambino, a terra singhiozzante davanti ai
corpi inerti dei genitori, le martellava la mente. “Non urlare e
ascoltami bene. Se adesso ti volti con calma, prendi la tua roba e te ne torni
a casa potrai raccontare ai tuoi nipoti che una volta sei scampata per un
soffio ad un mostro sanguinario. Altrimenti giuro che ti ammazzo. Qui.
Adesso.”
Kikyo aveva gli occhi gonfi di
lacrime, che traboccavano colandole lungo le guance. Annuì
freneticamente, mordendosi le labbra quasi a sangue.
“Bravissima,”
commentò Itachi comprensivo. “Sparisci. Ora. E se vuoi un
consiglio, smettila di adescare sconosciuti in una locanda. Non puoi mai sapere
con chi si sta parlando.”
Kikyo non se lo fece ripetere:
senza poter trattenere i singhiozzi di panico barcollò fino al bancone,
afferrò il suo mantello e corse via, scomposta e terrorizzata. La sua
scenica uscita fu seguita dall’attonito stupore dei presenti, che si
sporsero a seguirne la scomparsa e portarono l’attenzione al suo
sconosciuto interlocutore. Dopo un breve, spiacevole silenzio qualcuno
ridacchiò.
“Non so cosa tu le abbia
detto, amico,” commentò un beone, sogghignando, “ma
complimenti vivissimi. È quel che si merita, la sgualdrina,”
aggiunse, scatenando una risata tra i compagni di tavolo.
Itachi portò la mano
alla tempia e strizzò gli occhi, il dolore che gli trapassava la testa.
Poi si voltò verso l’uomo, con uno sguardo che parlava di morte.
“Siete tutti molto bravi
a giudicare,” scandì, gelido e tagliente.
Qualcosa nel suo viso e nel
suo tono fu sufficiente a far cessare le risate.
Riportò
l’attenzione al proprio piatto, mentre più o meno lentamente
ciascuno tornava ad occuparsi degli affari propri con una certa vergogna e un
aperto timore. Il suo riso ormai era freddo, ma almeno poteva mangiare in pace.
“Ancora non hai
finito?” lo apostrofò improvvisa la voce ironica di Kisame, che si
appoggiò mollemente al tavolo in quel momento.
Itachi gli rivolse
un’occhiata vagamente astiosa, prima di tornare alla sua scodella.
“Ottimo tempismo,”
osservò freddo.
Lo spadaccino lo studiò
perplesso, prima di sedersi con una scrollata di spalle.
“Sei bianco come un
cencio. Un momento, quello è sakè,” commentò
stupito. “Ma tu non lo bevi mai. Ti spiace se...?”
“Fa’ pure,”
lo anticipò Itachi, apatico. “E’ tutto per te,”
concluse mentre Kisame, col suo sorriso da squalo, portava il bicchierino alle
labbra.
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“Di’,
Taro,” biascicò Mamoru, stringendo
debolmente il bicchiere mezzo vuoto, i gomiti poggiati sul bancone.
“E’ successo qualcosa a Kikyo? Sono parecchi giorni che non la si
vede.”
Il
locandiere si strinse nelle spalle, continuando a sciacquare i bicchieri
svogliatamente.
“Non
viene più, da quella sera dello straniero. Sembra si sia fatta assumere
nella bottega della vecchia Arimi, dice che lavora
molto ma non l’ho mai vista così serena,” raccontò
pacato.
“Perderai
qualche cliente, mi sa,” ridacchiò il vecchio ubriacone, prima di
scoppiare in un accesso di tosse.
“Sì,
può darsi,” commentò Taro, serafico. “Ma in fondo
preferisco così. Dopotutto, non è una cattiva ragazza,”
osservò, con un accenno di sorriso.
“Mi
domando cosa le abbia detto, quel tipo,” continuò Mamoru bevendo una nuova gollata.
“Già,
me lo domando anche io,” convenne Taro, impilando dei piattini accanto al
lavabo. “Ma, qualunque cosa fosse, è stato davvero
provvidenziale.”