EXTRA
CON TE, FINO ALLA
FINE DEL TEMPO
La giovane donna sedeva
dinnanzi alla finestra della sua umile stanza, aperta sulla maestosa bellezza
delle acque del Lago Biwa, con il monastero che come
aggrappato con le unghie e con i denti alla ripida e brulla scogliera arrivava
quasi a lambirne le sponde.
I
capelli, biondissimi, erano elegantemente raccolti in una crocchia dietro la
nuca, e portava una tunica leggera, di un colore bianco panna, che lasciava
parzialmente scoperte le spalle, cinte invece da uno scialle.
Nei suoi
occhi si leggeva la volontà di viaggiare; non con il corpo, ma con i ricordi.
La sua
mente, a distanza di tanti anni, ancora faticava a rievocare il lungo e
tortuoso cammino che l’aveva condotta fino a lì, a quella decisione, e ancor
più difficile le veniva ricordare ciò da cui tutto era iniziato, quel giorno
così ormai lontano nel tempo che aveva spento così tante vite e sconvolto, nel
bene o nel male, quelle di tutti coloro che erano rimasti, e che avevano visto
le false certezze sgretolarsi come fango secco per far spazio ad una dura,
cinica e crudele realtà, quella stessa realtà in cui ora stava vivendo.
Così,
come già altre volte aveva fatto, non le restò che affidarsi ai racconti, alle
storie di cui lei stessa era in un certo senso protagonista, che unite ai pochi
frammenti che negli anni era riuscita a mettere insieme andavano a comporre una
storia terribile, ma che, per chissà quale miracolo, si era conclusa nel suo
caso con una luce di speranza.
Gli EDA erano ormai giunti
a ridosso della porta, ed erano sul punto di sfondare anche l’ultima linea di
difesa, quando vi era stato una specie di sibilo, e subito dopo tutto si era
spento in un mare di luce.
Amanda
si vide cadere addosso un enorme pezzo di rivestimento, e quando riprese i
sensi, riuscendo a fatica a toglierselo di dosso, fu sorpresa di vedersi ancora
viva.
Protocollo
di sopravvivenza.
In
quanto maga, Amanda era stata addestrata negli anni a far sì che il suo
organismo, se sottoposto a particolari stress o situazioni potenzialmente
mortali, rispondesse istintivamente erigendo una barriera corporea di difesa
usando tutto il potere magico disponibile; per questo fin dal momento in cui
riaprì gli occhi si sentì piegata in due da una implacabile stanchezza e senso
di spossatezza.
L’estrema
debolezza però non le impedì, una volta ripresa pienamente coscienza di sé e
del dolore che le arrivava da ogni parte del corpo, di rimanere di pietra di
fronte all’orrore che le si parò innanzi.
Gli EDA,
tutti, erano stati spazzati via; ma Klaus, Vincent, il signor Gullit, Ashley Thunterscott, e tutti gli altri…
anche loro erano morti, ammassati senza vita l’uno sopra l’altro, sballottati
via come bambole di pezza dalla potenza del colpo ricevuto.
Provò a
chiamarli, a scuoterli, nella speranza di vederli riaprire gli occhi, ma
nessuno le rispose.
Nessuno.
Solo lei era sopravvissuta; un pensiero che la fece nuovamente cadere in
ginocchio, il volto nascosto dietro le mani e gli occhi segnati dalle lacrime.
«Che sta
succedendo qui?» urlò istericamente.
Poi,
d’un tratto, il suo computer da polso si mise a gracchiare; nonostante i colpi
presi e le crepe sul monitor, incredibilmente funzionava ancora.
«Amanda?
Mi senti? Amanda!».
Lei,
singhiozzando, guardò lo schermo, vedendovi comparire a fatica il mezzobusto di
Mayu.
«Meno
male, almeno tu sei ancora viva.
Devi
andartene subito. La MAB sta attaccando il Megonia!»
«La… la MAB!?» esclamò sgranando gli occhi. «Che significa?»
«Ho
intercettato le loro comunicazioni. Vogliono arrestare l’infezione con
qualunque mezzo, anche a costo di sacrificarci tutti.
Devi
andartene subito. La nave per ora resiste, ma basterà un altro colpo per farla
affondare».
Dapprincipio,
però, Amanda non volle neanche prendere in considerazione l’idea di scappare:
non lei sola. Cosa aveva fatto di diverso per meritare di sopravvivere a quella
follia?
«Ma… il Capitano… e Ulrich… e Helen…»
«Sono
tutti morti, Amanda! Sei rimasta solo tu!»
«E… e tu? Tu puoi salvarti. Aspetta, ora ti raggiungo e…»
«È
inutile» rispose Mayu apparentemente senza
esitazioni, cercando di non tradire il suo vero stato d’animo. «Ho già provato
a fare il log-out, ma non ci sono riuscita. Morpheus
deve essersi guastato».
Allora,
era dunque destino che dovesse salvarsi solo lei. Ma perché? Non riusciva ad
accettarlo.
«No…» balbettò attonita. «Non puoi chiedermi questo. Non
posso lasciarvi. Io…»
«Amanda,
tu devi vivere!» le ordinò Mayu con veemenza. «Se
muori anche tu, non sarà uscito niente di buono da questo maledetto inferno, lo
capisci?».
Amanda
rimase di sasso, non riuscendo a replicare, mentre nel suo animo si agitavano
sentimenti contrastanti. Da una parte non le sembrava giusto abbandonare tutto
e tutti per salvarsi, dall’altra invece sentiva che solo vivendo avrebbe potuto
dare un senso a tutta quella tragedia.
«Vai,
ora» le disse Mayu pacatamente. «Cercherò di farti
guadagnare tempo. Raggiungi le scialuppe e lascia subito questa nave maledetta.
Con un po’ di fortuna, dovresti poterti salvare».
La
comunicazione a quel punto scomparve, ma Amanda non stette a lungo ad osservare
il monitor annerirsi fino a soccombere del tutto ai danni che lo avevano
segnato, e cercando di tacitare una voce della vergogna che la esortava a
rimanere fece per andarsene.
Era
praticamente già uscita dalla stanza, quando da un corpo rannicchiato e
raggomitolato in un cantone lì vicino giunse un rantolo soffocato, ed
avvicinatasi con qualche esitazione assistette con i suoi occhi a quello che,
in quel momento, aveva tutta l’aria di un vero miracolo.
Johanna,
quella Johanna che fin dal giorno delle sue nozze non
aveva mai fatto altro che litigare come una figliastra Hilda,
con il suo ultimo respiro si era avvolta attorno alla bambina come una seconda
placenta, rimossa la quale Amanda vide emergere la piccola moribonda e priva di
sensi, ma incredibilmente ancora viva.
Una
volontà divina, o forse solo l’amore di una madre cui la mancanza di un legame
genetico non aveva impedito di comportarsi come tale, le aveva salvato la vita,
e ora stava ad Amanda far sì che quel sacrificio, così come quello di ogni
altra singola vittima della follia del Megonia, non
andasse sprecata.
Presala
tra le braccia, ricevendo in cambio un gemito un po’ più forte, la ragazza si
avviò barcollante verso l’uscita.
I membri del Consiglio di
Sicurezza avevano accolto con un certo stupore il vedere il Megonia
incassare un colpo tanto potente danneggiandosi gravemente, ma seguitando
nonostante ciò a galleggiare agonizzante rifiutandosi di cadere.
In fin
dei conti, era stata progettata pur sempre come una nave da guerra. E in quanto
tale, oltre che di un’ottima corazzatura ed efficaci scudi protettivi era stata
equipaggiata anche con un arsenale di tutto rispetto.
La
maggior parte di quelle armi erano state smontate con la riconversione, ma gli
armatori avevano avuto la sagace idea di lasciarle qualche arma difensiva ad
energia; niente di eccezionale, ma abbastanza per dare filo da torcere a
qualche pirata ardimentoso che avesse avuto la malaugurata idea di attaccarla.
Delle
feritoie si aprirono alle spalle della torre del ponte, e da esse sbucarono
fuori alcuni cannoni binati che puntarono verso l’Aurora e fecero fuoco
all’unisono; ci voleva ben altro per incrinare un vascello di tali dimensioni,
ma ciò nonostante in plancia lo scossone prodotto dall’urto si sentì
vistosamente.
«Che
diavolo è successo?» strillò Nolan contrariato. «È
opera di qualche detrito?»
«È il Megonia!» rispose attonito Aoyama.
«Il Megonia ci sta sparando!»
«Come ci
sta sparando!?».
Prima
che tutti potessero riaversi dalla sorpresa arrivò una seconda bordata, ma
stavolta l’urto risultò così violento che qualcuno volò giù dalla propria
poltrona, e subito dopo alcuni allarmi risuonarono tutto intorno.
«Hanno
colpito il sublimatore magico! Odin
è fuori uso!»
«Maledetti
bastardi» ringhiò Nolan a denti stretti. «Se volete
la guerra, vi accontentiamo subito. Preparare il resto delle armi! Sbricioliamo
quella nave una volta per tutte!».
Forse il Megonia riusciva ancora a galleggiare, ma certo non avrebbe
resistito a lungo.
Al suo
interno, la distruzione regnava sovrana.
Ovunque
era un susseguirsi di crolli, deformazioni della struttura, incendi, ma
soprattutto di morte; forse il virus che oltre alla mutazione provocava anche
il disfacimento dei corpi stava risentendo degli effetti del vuoto cosmico o
del potere del raggio emesso dall’Odin, ma i
corridoi, i saloni e le stanze che Amanda si ritrovò ad attraversare
pullulavano di creature morte o morenti, alcune orrendamente sfigurate e
mutilate, quasi che nel loro ultimo rantolo di agonia avessero cercato di
sopravvivere compiendo atti ai auto-cannibalismo.
Amanda
procedeva a fatica, la caviglia sinistra che a causa di una storta la faceva
gemere di dolore ad ogni passo, ulteriormente appesantita dal fardello della
piccola Hilda, che per tutto il tempo seguitò a
rimanere priva di sensi evitandosi, almeno, quell’orribile spettacolo.
Ad ogni
tremore o scossone la ragazza temeva per la loro vita, figurandosi di vedere da
un momento all’altro il Megonia spaccarsi in più
tronconi per poi esplodere, e allora procedeva più rapidamente, soffocando le
urla nella bocca con lo stivale che andava tingendosi di rosso.
L’aria,
appesantita dal fumo e prosciugata del suo ossigeno dal fuoco, si faceva sempre
più irrespirabile, tanto che ad un certo punto Amanda fu costretta a far
comparire il proprio casco e a recuperare da un armadietto d’emergenza una
maschera di soccorso per Hilda, rendendo la marcia
verso la salvezza ancor più faticosa e apparentemente infinita.
All’ingresso
nel ristorante, un’improvvisa esplosione per poco non investì entrambe in
pieno, ma superato anche quell’ultimo ostacolo Amanda riuscì finalmente a
raggiungere le scialuppe. Era così stanca che dovette percorrere gli ultimi
metri quasi gattonando sul terreno, e aperta la botola di emergenza ebbe a
malapena le forze di gettarvisi dentro assieme ad Hilda,
riuscendo a chiudere il portello giusto in tempo per evitare l’arrivo di una
violenta onda di fuoco che arroventò, senza per fortuna danneggiarla, la
superficie vetrata.
Come il
congegno di distacco fu sbloccato la capsula venne sparata via dal suo guscio,
allontanandosi a grande velocità proprio nell’istante in cui, dall’Aurora,
veniva lanciata una selva di missili antinave.
Amanda
ebbe appena il tempo di affacciarsi dall’oblò, assistendo con i suoi occhi
all’ultimo respiro del grandioso transatlantico Megonia,
il Gioiello dello Spazio, che centrato in tutti i suoi punti più sensibili
esplose in modo talmente violento da non lasciare dietro di sé null’altro che
una massa informe di detriti non più grandi di una valigia, scomparendo nel
nulla assieme al suo carico di vite, anime senza nome di cui non restava più
neppure la cenere.
Non le
riuscì di piangere; forse ciò a cui aveva assistito in quella che solo poche
ore prima era iniziata come una giornata assolutamente normale le aveva tolto
anche la forza e l’animo necessari per versare delle lacrime, o forse era il
pensiero di aver salvato almeno una vita a far nascere dentro di lei la
convinzione che, in qualche modo, non tutto era andato perduto.
Le
avrebbero ritrovate solo due giorni dopo, sulla superficie di Neos, al limitare della griglia 15, nell’ultimo lembo di
satellite al di fuori della Zona Oscura, da una delle navette inviate a proprie
spese dal Direttore Shane alla disperata ricerca di superstiti.
Coloro
che la conoscevano, e che poterono guardarla negli occhi al momento del
salvataggio, avrebbero detto in seguito che quella che uscì da quella capsula
non era più l’Amanda Gerth che era partita per
raggiungere il Megonia.
Amanda voleva che fosse
resa giustizia, ma voleva anche che quello che restava della vita di Hilda non andasse perduto.
Ma il
cielo, dopo averla salvata, sembrò invece essersi dimenticato di quella
poveretta.
Al suo
risveglio, in un ospedale militare dove entrambe furono portate, Amanda restò
di sasso quando la guardò negli occhi. Non c’era niente al loro interno, erano
sfere colorate senza alcuna luce; come se la sua anima le fosse stata
strappata, o fosse finita in pezzi sotto il peso di tutto quell’orrore, non
ultimo l’aver visto probabilmente morire sua madre subito prima di svenire.
Secondo
i dottori si trattava di una forma particolarmente grave di stress
post-traumatico, che aveva comportato uno shock emotivo tale da aver causato
uno stato catatonico simile ad una forma di coma vigile, da cui non era detto
si sarebbe un domani risvegliata.
Sentendo
quelle parole, Amanda si era ripromessa di aiutare in ogni modo Hilda a tornare la bambina solare e vivace che, pur non
avendola mai conosciuta prima di quel giorno, era certa fosse stata.
E per
farlo, non aveva avuto altra scelta che abbassare la testa.
La MAB
era potente. Troppo potente. E aveva troppo da perdere a permettere che
qualcuno raccontasse la vera storia del Megonia.
In altri
tempi non si sarebbe fatta spaventare dalle loro minacce, non dopo essere
sopravvissuta a qualcosa di così incredibilmente simile all’inferno; ma Hilda, lei era la sua debolezza.
Una
bambina orfana, a detta dei più ormai mentalmente instabile in modo permanente,
ma con un patrimonio stimato in oltre due miliardi di kylis
era una preda fin troppo ghiotta per squali ed avvoltoi pronti a fiondarsi su
di lei alla prima occasione.
La
possibilità di restare vicino ad Hilda e proteggerla
fu la tangente con la quale la MAB riuscì a comprare il suo silenzio.
Amanda
si sentì morire dentro nell’istante in cui firmò l’affidamento della bambina;
da una parte sapeva di stare facendo la cosa giusta, dall’altra sentiva di aver
appena svenduto il sacrificio di migliaia di persone.
Ma lei
non era Klaus, o Joe, o il Capitano Klopfer: lei non
aveva la forza di lottare.
Lei
voleva solo il bene di Hilda.
Per i
suoi compagni ci sarebbero stati medaglie e onori, avanzamenti postumi di grado
e solenni funerali, oltre a scuole, accademie e altri luoghi simbolici eretti
in loro memoria, ma la realtà era che nessuno avrebbe mai conosciuto realmente
il valore delle loro azioni, né il modo in cui erano morti.
Quanto a
lei, oltre alla custodia di Hilda le fu dato ciò che,
in cuor suo, come ogni altro giovane Agente aveva sempre desiderato: un
ufficio, continue promozioni, e un impiego di tutta sicurezza che le avrebbe
portato soldi e notorietà. Ma la verità, e lo sapeva bene, era che quella
divisa era in realtà la prigione nel quale la MAB l’aveva rinchiusa, e in cui
sarebbe rimasta intrappolata per il resto della sua vita; fintanto che l’avesse
indossata l’Agenzia avrebbe avuto in mano il suo corpo, il suo destino, e la
sua anima.
Sapeva
che avrebbe sofferto, ma la riteneva una giusta punizione: la punizione per
aver permesso alla verità sul Megonia di scomparire
nell’immensità dello spazio. Quelle anime, quei fantasmi rimasti senza
giustizia, l’avrebbero tormentata per sempre, come era giusto che fosse.
Passarono i mesi.
Hilda venne
trasferita nella residenza di campagna della sua famiglia ad Amaltea, ma neanche questo sembrò sufficiente ad accendere
qualche barlume di speranza.
Mangiava,
beveva, e qualche volta sembrava anche percepire qualcosa del mondo che la
circondava, ma in realtà era come un guscio vuoto.
Passava
le giornate da sola, nella sua stanza, seduta sul letto a fissare il vuoto, con
le numerose domestiche ed inservienti che cercavano come potevano di esserle
d’aiuto aiutandola a mangiare, spazzolandole i capelli, o anche solo tenendole
compagnia, ma ogni tentativo di suscitare in lei una qualche reazione, o anche
solo di farla parlare, andava a sbattere ogni volta contro il muro con il quale
la sua anima sembrava essersi isolata dal resto del mondo.
Amanda
passava a trovarla ogni volta che poteva, trasferendosi definitivamente a casa
sua quando il suo passaggio alla sede di Otisa
divenne esecutivo, ma anche per lei le cose, con il tempo, iniziarono ad andare
male.
La
rivelazione portata dal Direttore Shane aveva aperto gli occhi al mondo su
quanto realmente accaduto a bordo del Megonia, ma
aveva anche generato una situazione politica e diplomatica che rischiava di
gettare Celestis in preda al caos.
Come un
violento ceffone che risveglia troppo presto da un bel sogno, quelle immagini
così crude diffuse in ogni parte del pianeta risvegliarono in un sol colpo la
coscienza collettiva, la quale giunse quasi all’unanimità ad una considerazione
tanto evidente quanto drammatica: la MAB era troppo potente.
Era nata
come un organo di sorveglianza con il compito di tramutare uno sparuto gruppo
di coloni negli abitanti di una nuova Terra, e fare di Celestis
una sorta di realtà superiore, ma negli anni aveva finito per abusare del suo
potere, tramutandosi in una organizzazione paramilitare capace di agire a
qualsiasi livello senza doverne rendere conto.
E visto
che il Megonia era una nave di Amaltea,
fu proprio ad Amaltea che quella sorta di focolaio di
insoddisfazione assunse ben presto i connotati più drammatici, con un movimento
di opposizione all’Agenzia che diventava di giorno in giorno sempre più
incontenibile.
Ma di
tutto questo Amanda non se ne curava: tutto quello che voleva era poter aiutare
Hilda.
Avrebbe
pagato qualunque cosa per vederla sorridere di nuovo, scacciare dalla sua mente
i fantasmi del Megonia, ma per quanto ci provasse
neppure lei sembrava in grado di rompere quel muro che la teneva prigioniera.
Un tardo
pomeriggio d’estate, Hilda era sempre lì, nella sua
stanza, l’espressione immobile e gli occhi fissi innanzi a sé, come una bambola
di ceramica bellissima all’esterno ma in pezzi nell’animo.
Tra le
cameriere e gli inservienti si vociferava che Amanda fosse stata richiamata a Kyrador, e a detta di molti probabilmente era solo una
questione di tempo prima che tutte le sedi di Amaltea
venissero chiuse a tempo indeterminato sotto la spinta pressante del dissenso
popolare, con il rischio evidente che la loro signora si vedesse costretta a
scegliere tra lasciare l’Agenzia e lasciare il Paese.
D’un tratto,
due inservienti entrarono nella stanza tutte trafelate.
«Venite,
signorina» dissero spingendo una sedia a rotelle. «La signora vuole vedervi».
Hilda venne
vestita, pettinata e portata in giardino, dove trovò ad attenderla una maestosa
mongolfiera dal pallone tutto colorato già pronta a partire. In piedi nel
cestello, Amanda la guardava sorridendo, e di fronte a quella scena qualcosa
parve muoversi; Hilda, a fatica, alzò gli occhi,
quasi a voler cercare quelli della sua nuova madre adottiva.
«Bene
arrivata. Forza, sali a bordo. C’è una cosa che voglio farti vedere».
Pur con
qualche esitazione i domestici caricarono Hilda sul
pallone, che ad un cenno di Amanda venne liberato dal suo ancoraggio
sollevandosi immediatamente dal cielo.
Poco per
volta, apparve dall’alto prima la imponente Villa Krietzmann,
poi la scintillante Otisa, protesa gentilmente e con
garbo sulle sponde del Lago Biwa, poi ancora l’intera
vallata di Wermer, fino a che tutto attorno non vi fu
altro che una infinita distesa di montagne e basse colline, illuminate dalla
luce rossastra del tramonto che tingeva la roccia di blu e le nuvole di un
arancio pastello, segni scomposti e insieme bellissimi dipinti sulla sconfinata
tela azzurra sopra le loro teste.
In
lontananza, verso ovest, il sole era quasi tramontato; sembrava un enorme buco
rosso aperto nel cielo, sforzandosi di gettare i suoi ultimi bagliori sulle
alte montagne di Amaltea prima di scomparire oltre le
loro ripide cime, mentre un piacevole vento in arrivo da nord sospingeva la mongolfiera
e scompigliava i capelli.
«Devi
tornare Hilda!» disse Amanda stringendola forte, e
bagnandole i capelli con le proprie lacrime. «Torna da noi! Ti prego! È tutto
finito! Ci sono io qui con te! Apri gli occhi! Apri gli occhi, bambina mia!».
Quelle parole
scesero fin nel profondo, e nell’istante in cui l’ultimo raggio di sole le
colpiva gli occhi altre parole, molto simili, risuonarono nella mente della
bambina.
Và tutto bene, bambina mia! Chiudi gli
occhi!
Forse,
inconsciamente, era questo che aveva fatto: aveva chiuso gli occhi.
Su
tutto. In attesa di trovare qualcosa, o qualcuno, in grado di farglieli
riaprire.
Qualcosa
parve muoversi all’interno del suo sguardo, come se quell’ultimo raggio di sole
avesse trovato la forza per andare a rischiarare quella sua anima addormentata
e rinchiusa dandole nuova vita.
Poi,
avvenne il miracolo, e come una macchina rimessasi improvvisamente in moto dopo
un lungo silenzio la mente, il cuore e lo spirito Hilda
si ridestarono come da un lungo sonno così, da un istante all’altro, quasi quei
lunghi mesi non fossero mai esistiti.
Gli
occhi, quei suoi bellissimi occhi verdi, si riaccesero come stelle, il volto
riprese il suo colore, e con aria spaesata la bambina si guardò attorno
meravigliata e confusa.
«Amanda!?»
disse riconoscendo la giovane che piangeva di gioia nell’abbracciarla con tutte
le sue forze. «Che cosa è successo? Dove siamo?».
La giovane donna si posò
una mano sul seno, lasciandosi pervadere dal piacevole tepore che le riscaldava
il cuore ogni qualvolta ripensava a quella storia.
Tante
cose erano cambiate da quel giorno così lontano nel tempo, non solo per lei.
Non
poteva ricordare, ma sapeva cosa fosse successo. Così, come la sua nuova madre,
aveva deciso di dedicare la propria vita agli altri, per dimostrare di meritare
il sacrificio fatto da tanti per salvare la sua.
Usando
ogni singolo kylis della sua cospicua eredità aveva
aiutato chiunque fosse stata in grado; aveva fatto costruire scuole, ospedali,
interi villaggi, e aveva donato quel poco che le era rimasto a quella grande
confraternita del quale, come ultimo atto di sacrificio, ora si accingeva a
diventare parte.
Se
qualcosa di buono era mai venuto fuori dalla Tragedia del Megonia,
benché quasi metà del mondo pensasse il contrario, questa era stata proprio la
Chiesa della Santa Croce.
Risvegliando
le coscienze riguardo al preoccupante ordine mondiale venutosi a creare negli
ultimi centocinquant’anni, il Megonia
e ciò che ne era seguito aveva contribuito a rendere evidente agli occhi di
molti un’altra realtà innegabile: l’Umanità aveva dimenticato l’importanza del
proprio dono.
Perché
questo era la magia: un dono bellissimo e preziosissimo, di cui però gli esseri
umani avevano finito per abusare, nell’illusione tutta terrena di poterla
soggiogare e controllare così come, fin dagli albori della storia, avevano
controllato il Fuoco, il Vapore, l’Elettricità e l’Atomo.
Ma la
magia non era solo una fonte di energia: la magia era la vita.
Tutto
esisteva grazie ad essa, eppure di lei si sapeva ancora così poco.
Nasceva
dal mondo, e ad esso ritornava, in un ciclo senza fine che, secondo i precetti
del culto, rispecchiava quello dell’esistenza terrena: un continuo susseguirsi
di rinascite, nell’attesa di veder compiuto il proprio cammino di redenzione.
Perché
l’Uomo, in fin dei conti, altro non era che una delle innumerevoli creature che
esisteva grazie a quella scintilla di magia che ogni essere vivente portava
dentro di sé, ma la cui purezza veniva inevitabilmente sporcata dalle emozioni
negative proprie dell’uomo.
Solo
purificando questa energia, come una pietra preziosa ripulita dal fango, era
possibile tornare a far parte del Grande Ciclo che regolava tutte le cose,
restituendo la propria scintilla a quel mondo dal quale proveniva; così facendo
si diventava parte di quella stessa energia, e di conseguenza dell’intero
ordine cosmico.
La
bontà, la carità e la preghiera erano gli strumenti migliori per giungere a
questo faticoso traguardo, e una vita sola di sicuro non era sufficiente per
arrivare alla meta.
Per Hilda, poi, sarebbe stato ancora più difficile, poiché in
sé sentiva di portare anche l’energia e lo spirito di tutti i suoi compagni di
sventura periti sul Megonia: anche per loro avrebbe
pregato, come aveva fatto ogni giorno da che la sua anima era tornata a vivere,
sì da essere degna del dono che le avevano fatto.
Non
sarebbe stato facile, lo sapeva molto bene, ma sapeva di non essere sola, e
questa era la vera sorgente della sua forza, oltre che della sua incrollabile
fede.
Una
giovane donna, vestita come lei, ma con in più un’elegante coroncina poggiata
sul capo cui era legato un velo che discendeva elegantemente lungo la schiena
fino ai glutei, bussò due volte alla porta della stanza, aprendola leggermente.
«Sorella»
disse con un filo di voce. «È tutto pronto.»
«Arrivo»
rispose lei con un sorriso.
La grande cattedrale del
monastero era arricchita dei suoi più scintillanti paramenti di festa, e
tantissima gente si era riunita per assistere alla cerimonia.
Tutti
coloro che quell’angelo disceso in terra aveva aiutato nel corso della sua vita
erano voluti essere presenti, ed erano talmente tanti che la chiesa, per quanto
grande, non era riuscita ad accoglierli tutti.
L’organo
e gli archi presero a suonare, le porte si aprirono, e Sorella Hilda, come sarebbe stata chiamata ancora per poco dai
molti che vedevano in lei un incrollabile baluardo nei momenti difficili,
avanzò lentamente attraverso la navata, il capo chino, gli occhi chiusi e le
mani giunta alla base del ventre.
Giunta
ai piedi dell’altare, dinnanzi alla grande statua dell’angelo dalle ali
spiegate, si inginocchiò sul cuscino preparato per lei, gettando un rapido
sguardo prima alla giovane donna seduta in prima fila, con la quale si scambiò
in rapido sorriso, poi alle otto fotografie disposte l’una accanto all’altra
sopra dei piccoli treppiedi, lasciandosi sfuggire una lacrima di commozione.
Sua
santità Ruggero Luini, supremo vicario della Santa
Croce, primo pontefice della storia della Chiesa, le si avvicinò con indosso i
paramenti sacri e il bastone d’argento stretto in una mano, che con un delicato
cenno della mano poggiò leggermente sul capo della giovane.
«Nel
nome di Dio e della Santa Croce, in nome del potere conferitomi dal mio sacro
uffizio, io ti riconosco ufficialmente come membro del nostro ordine.
Da
questo momento, sei una serva del nostro Grande Padre Celeste. Dedicherai la
tua vita al bene del prossimo, e non avrai altro scopo nella vita che servire
Nostro Signore, nell’attesa che giunga per te il momento di tornare al Grande
Ciclo.
Qual è
il nome che hai scelto per la tua rinascita, sorella?».
La
giovane si pensò un momento, chinando di più il capo, poi, con un filo di voce,
disse:
«Johanna, vostra santità. Johanna
sarà il mio nome da oggi in avanti».
A quel
punto, il Santo Padre posò il bastone, e chiamato a sé un altro sacerdote prese
una boccetta di vetro dal contenitore ligneo che questi teneva, aperto, tra le
mani.
La
tradizione diceva trattarsi di magia condensata e portata allo stato liquido,
una cosa assolutamente impossibile secondo le attuali conoscenze scientifiche,
tanto che secondo i laici si trattava probabilmente solo di un qualche
intruglio frutto del ciarlatano di turno.
«Come la
pioggia cadiamo» disse Sua Santità passando il contenitore, sigillato, sulla
fronte della giovane. «Come la rugiada scompariamo. Come l’acqua scorriamo. Che
la tua anima ed il tuo spirito siano illuminati dalla luce divina, e che il
destino ti sia propizio, nell’attesa che ogni cosa torni al Grande Ciclo».
Un’altra
sorella giunse alle spalle della ragazza, ponendo sulla sua testa la coroncina
con il velo; Hilda sentì uno strano tremore
sentendone la pressione sul capo, una sensazione bellissima che le fece vibrare
il cuore.
«Alzati,
Sorella Johanna».