Piccole
note prima di cominciare.
Nonostante studi giapponese e la storia giapponese, potrebbero esserci
imprecisioni in ciò che scrivo. Come indicazione storica si
prenda l’era
Tokugawa.
Mi scuso per eventuali inesattezze che potrebbero offendere chi
studia/si
interessa di queste cose, come me.
Mi scuso anche solo di averla scritta, questa cosa.
Scritta di getto. In realtà, è un
‘regalo’.
Tanti auguri. So che capirai.
Ueda
Akinari scrisse nel 1768 gli
‘Ugetsu
Monogatari’, i racconti di pioggia e luna.
Ambientati proprio il 15 agosto.
E’ tradizione giapponese credere che la notte del quindici
agosto, con la luna
piena e la pioggia, gli spiriti si manifestino e raccontino la loro
storia.
八月。十五
日。
夜から、霊魂が覚ます。
満月を探し
ます。
Hachigatsu.
Juu-go nichi.
yoru kara, reikon ga samasu.
Mangetsu o sagashimasu.
15
agosto.
Dalla notte in poi, gli spiriti si risvegliano.
Cercano la luna piena.
Pioveva.
Quando era piccolo, la sua Obaasan gli diceva che ‘Le gocce
di pioggia sono le
lacrime delle anime disperse.’. E Lea iniziò a
credere che quella notte del 15
agosto dall’oltretomba le anime stessero piangendo tutta la
loro tristezza.
Accadeva ogni estate, nel momento esatto in cui, tra le nubi della
notte, la
dea luminosa si mostrava timida tra le coltri del cielo.
Non c’era modo di non vederla, anche con le gocce scroscianti.
Non aveva un ombrello, Lea. Non aveva voluto portarlo con
sé.
In effetti, la sensazione bagnata sulla pelle lo faceva star bene.
Lavava via
quell’alone di morte che impregnava lui, il suo yukata
leggero e tutta la sua
famiglia.
Loro vivevano nella morte.
Nel loro sangue scorreva il dono di poter attraversare quel ponte
effimero che
collegava la carne al puro spirito.
Loro avevano il potere di sentire le voci di chi non c’era
più.
E per questo, venivano trattati con onore e rispetto. Con una lieve
nota di
venerazione, la gente del villaggio si rivolgeva a loro. Per parlare
con un
caro defunto. Per sapere cosa le anime del Purgatorio avevano scoperto
riguardo
certi complotti.
Per cacciare via gli yuurei.
Quello
era un incarico gravoso. Pericoloso ed ingrato.
E Lea si chiedeva perché fosse toccato proprio a lui come
prima commissione,
appena finito il suo apprendistato al tempio.
Una vera e propria eccezione. Uno dei pochi uomini accolti assieme alle
miko.
La sua Obaasan lo teneva in eccelsa considerazione.
‘Hai
un grande potenziale…’ gli sussurrava sempre,
nell’atmosfera quasi onirica e
semicosciente provocata dall’odore forte ed intossicante
dell’incenso.
Si poteva credere, forse, che un uomo potesse turbare la calma delle
fanciulle
all’interno del tempio, o addirittura, potesse ambire alla
loro purezza.
Ma mai Lea aveva tradito la fiducia di chi lo aveva raccolto da terra,
scambiandolo per un cencio sporco.
E ora, per un ingente somma di denaro, toccava a lui cacciare via dalla
dimora
del Daimyo del suo han lo spirito amareggiato di quello che in vita fu
forse un
figlio del popolo sofferente e disilluso.
Lea non immaginava neppure.
“La sua presenza ci onora.” Gli disse il servo del
Daimyo, con un inchino
servile. Un inchino che Lea seppe ricambiare, seppur con estremo
imbarazzo.
La vita sociale non sembrava fatta per lui. Ma in quel mondo fluttuante
di
gesti e riverenze, Lea non era altro che un prigioniero senza alcuna
via
d’uscita.
“Non dica così…sono qui solo per
compiere il mio dovere.” Protestò gentilmente.
“…posso vedere il padrone di casa, vero?”
Il servo esitò. Con molto imbarazzo, disse che il padrone
era estremamente
impegnato in quel momento.
Non ci voleva certo un sensitivo, per capire.
“Ma non se ne curi adesso. E’ bagnato ed affamato.
Ci permetta l’onore di
rifocillarla.”
Lea avrebbe fatto di tutto, pur di farlo stare zitto.
Dopo un bagno caldo ed una cena importante, Lea ottenne finalmente di
poter
parlare col padrone.
Sapeva già cosa aspettarsi nel momento stesso in cui avrebbe
messo piede nella
stanza.
Una sontuosa sala da tè, arredata da cuscini e sete
pregiate, un tavolo al
centro colmo di sakè e donne avvenenti che lo servivano a
chi vi era seduto
accanto.
Lea trattenne un moto di disgusto.
Questa era una persona oltraggiata da uno spirito?
Accettò di sedersi al tavolo, ma nemmeno guardò
le due donne, né accettò un
solo goccio di sakè.
E con pazienza, e sopportando il puzzo dell’alcool,
ascoltò quanto avesse da
dire il padrone, con la sua voce da beone felice.
“Ogni notte, ogni notte di luna piena!” si
lamentava, tra un goccio e l’altro,
tra una carezza poco consona ora alla donna di destra, ora a quella
alla sua
sinistra. “Sento la sua voce, le sue urla, i suoi lamenti. E
se mi becca
sveglio…! Una volta mi lanciò contro un intero
servizio da tè, costosissimo,
tra l’altro!”. Un sussulto provocato dal troppo
bere, una risata sguaiata. Il
vecchio continuò coi dettagli. Quel fantasma era piuttosto
violento.
Le urla ed il lancio di tazze non erano niente. Ben tre servi erano
morti
soffocati davanti agli occhi spaventati delle damigelle, senza che
qualcosa
effettivamente li ferisse o li stringesse.
Ma potevano vedere il loro collo ridursi e striminzirsi come una corda,
tra le
urla di terrore.
Altre volte, con falci dorate, strappava arti agli altri domestici,
lasciandoli
sparpagliati per casa.
La consorte del daimyo era impazzita, e si era tolta la vita. Perderò tutto, perderò tutto!
Piagnucolava,
spaventata. E poi si gettò dal tetto del palazzo. Con suo
figlio in grembo.
“…ma
per fortuna, gli dei mi hanno protetto, e sono vivo, no? A differenza
dei
poveri altri disgraziati!”.
Un’altra risata. Lea si rammaricò che il fantasma
non avesse fatto il suo
dannato dovere ed ucciso quell’essere ripugnante.
Ma prese mentalmente appunti. Realizzò, schiudendo di
più gli occhi.
Un onryo?
“Ha idea di chi si possa trattare?”
domandò, iniziando ad agitarsi per la
scomoda posizione assunta sulle ginocchia. Il Daimyo scrollò
un po’ le spalle,
bevve un altro bicchiere di sakè, e commentò
“Mah, forse uno dei miei vecchi
samurai…uno dei traditori della mia dimora.”
L’hai
ucciso tu, dunque, vecchio
porco?
Lea
scattò in piedi, senza nemmeno chiedere il permesso.
“Andate tutti a letto, devo esaminare le stanze in
silenzio.”
Il Daimyo si indignò davanti a quell’impudenza.
Ma in fin dei conti, cosa costava andare a dormire un po’
prima?
Si sarebbe rifatto la notte successiva, disse. “Una notte
senza fantasmi! Solo
belle donne, zuppa e sakè!” e via
un’altra risata divertita, mentre si ritirava
nella sua stanza da letto personale, soffiando su tutte le candele che
ispiravano
un lieve torpore.
Lea non era più sicuro di voler aiutare quell’uomo.
Ma
pensò alle altre persone che vivevano lì.
Quello spirito va calmato. Subito.
Le
cicale piangevano nella notte, accompagnando il suono disperato del
pianto del
cielo.
Lea camminava al buio, tra i corridoi stretti e silenziosi del palazzo.
Camminava lento, gli occhi chiusi, il respiro calmo.
Attento al minimo segno, alla più piccola presenza, al suono
più sottile…
Nulla.
Solo il suono dei suoi passi sordi.
Solo il vento che soffiava forte, fuori.
Solo un respiro…
…un respiro.
Lea spalancò gli occhi, voltandosi
improvvisamente, il cuore a mille.
Aveva assunto un atteggiamento stoico, fino ad ora, ma il pensiero di
trovarsi
per davvero con uno spirito, senza
l’aiuto della sua Obaasan, lo aveva gettato nel panico.
Osservò a lungo il corridoio illuminato dalla luna.
Un immenso sentiero di oscurità. Si chiese come avesse fatto
a percorrerlo.
Il suo cuore si calmò mentre il suo sguardo attento non
riusciva ad intravedere
nulla di pericoloso.
Buio, buio e solo buio.
Prese un profondo sospiro. Non c’era niente, niente.
Non c’era niente.
Si voltò di nuovo, per tornare sui suoi passi.
Occhi
dorati, figli della luna
nelle tenebre.
C’era lui.
Le
labbra di Lea si
schiusero, per far scappare l’urlo di terrore più
disperato che i suoi poveri
polmoni avessero mai avuto la necessità di emettere.
Cadde all’indietro, senza distogliere gli occhi da
…Lui.
Tremando e respirando come se non avesse mai assaporato
l’ossigeno, Lea rimase
disteso a terra, bloccato.
Poteva vederlo perfettamente. I suoi occhi erano allenati a questo.
Quei capelli lunghi, del colore del fiume di notte.
L’aria imponente, di chi aveva combattuto infinite battaglie.
Lo sguardo del guerriero.
Una
croce in mezzo al
volto.
L’abito bianco dei defunti che ricadeva lungo il corpo
perfetto.
Lea avrebbe ammirato all’infinito quella figura spettrale ed
inquietantemente
bella.
Se solo non avesse saputo che avrebbe potuto essere l’ultima
cosa che i suoi
occhi avrebbero visto.
In
preda alla paura, e
non esattamente come un sensitivo dovrebbe agire, Lea scattò
di nuovo in piedi,
per correre in direzione opposta a quella dello spettro.
Che non aveva intenzione di lasciarlo andare.
Perderai tutto.
La
corsa di Lea era
tanto disperata quanto inutile.
Sentiva il respiro della morte proprio accanto a sé.
Ovunque tentasse di voltarsi, lo spettro era lì ad
attenderlo, allungando le
sue mani fredde su di lui.
A nulla valsero le lacrime di terrore, a nulla servì
ordinargli di lasciarlo in
pace.
Qualsiasi porta aprisse, lui era lì.
ed era come se fossero rimasti loro due da soli, senza alcun servo,
senza
alcuna prostituta, senza il padrone del palazzo. Lo
avrebbe confortato perfino la sua presenza!
Lo
spettro sembrava
avere la sua delizia nel terrorizzarlo così. Una forte
risata rimbombava nelle
orecchie di Lea, di tanto in tanto. Inutile coprirsi coi palmi delle
mani, la
sentiva scoppiare nella sua testa, facendolo rannicchiare sotto alla
finestra
in un corridoio, tremante.
Perdonami, obaasan. Non ci riesco!
Cominciò
a piangere
disperato, dannandosi di aver avuto quel dono fin da piccolo, dannando
anche la
sua fortuna nell’essere stato ritrovato proprio dalla
sacerdotessa di un
tempio.
Cominciò anche ad accettare, in qualche modo,
l’idea che sarebbe morto nel modo
più atroce possibile.
E magari avrebbe risparmiato il lavoro allo spettro, se solo…
…se solo quella porta…
Lea aprì gli occhi, respirando tremante, ed osservando con
lo sguardo offuscato
davanti a sé una porta.
L’unica illuminata dalla luce della luna, tra tante porte
oscurate.
Una luce dolce e serena, che sembrava invitarlo.
Apri.
Apri,
e ti salverò io.
Con
l’aria sorpresa, Lea riuscì ad alzarsi.
Non sapeva quanto potesse fidarsi di quella voce.
Non era la sua…voce?
Solo…più
calma…più…dolce…
Con
fare cauto, passi lenti, Lea arrivò alla maniglia della
porta. Era fredda.
Ma non esitò troppo a lungo.
Aprì.
E non poté credere ai suoi occhi.
Nella stanza, un uomo dai capelli blu e
gli occhi dorati giaceva in mezzo, senza alcun indumento, le carni
lacerate da
frustate continue date da un ometto insignificante.
Un ometto che Lea conosceva bene.
Il Daimyo?
“Questo
ti insegnerà ad intrometterti nei miei
affari…” sibilò quello in piedi, dando
un’altra frustata all’uomo per terra. Altre due
guardie, dietro, ridevano
beffarde.
Ma dalla bocca della vittima non usciva alcun suono.
Lo sguardo fiero di un uomo che poteva sopportare il dolore.
“Che
peccato, Isa. Eri uno dei miei uomini migliori. E hai voluto per forza
perdere
tutto.” Un’altra frustata. Non un solo gemito. Una
nota di disappunto nel
daimyo. “…potevi dar fuoco a quel
villaggio.”
“Il
fuoco non è fatto per ferire.”
Una frustata.
“…mi
irriti. Implorami pietà, e ti lascerò
stare.”
Non
un solo suono dalla bocca di Isa.
Un’altra frustata.
“Basta…”
Isa non aveva aperto bocca nemmeno in
quel momento, lasciando che il sangue scorresse su quel corpo che
sembrava
scolpito da Amaterasu in persona.
Sembrava
un’opera d’arte.
L’incarnazione
del dolore.
Dell’onore.
“chiedimi
perdono!”
Silenzio.
“Verme
insubordinato!”
“Ho
detto basta…!”
“Perderai
tutto. Ti disonorerò, lo sai?”
La
frusta sibilò ancora.
Il viso di Isa era pietra.
“Vi
prego no…!”
“Morirai
solo. Ti lascerò sanguinare qui, finchè del tuo
corpo non resterà che un cencio
pallido! Ti resterà la luna come testimone,
consolati…!”
Una
risata sguaiata.
Ancora,
e ancora, e ancora…
Nemmeno un singolo sussulto…
“Ho
detto basta…! Ho detto basta…!”
“Perderai
tutto, Isa!”
“HO
DETTO BASTA!”
Lea
ansimava, le
lacrime che sgorgavano copiose sul viso ora pallido.
Non aveva idea di cosa avesse visto, ma all’improvviso, come
sabbia nel vento,
tutto era sparito.
Ora, al centro della stanza, c’era solo lui.
seduto in silenzio, lo sguardo chino.
Isa.
Lea
scordò tutto il
terrore provato fino a poco fa, il dolore che quello stesso spettro gli
aveva
provocato.
Lo stesso spettro che lo aveva salvato.
Piangendo disperato, si fece carico di tutto il dolore
Allungando la mano verso di lui, Lea avanzò, tra i
singhiozzi e le lacrime.
Isa
alzò lo sguardo.
Anche i suoi occhi piangevano.
Ma il viso era lo stesso dignitoso di quel magnifico guerriero che era
stato in
vita.
“Isa…non…non
sei solo…”
Lea si accasciò accanto a lui, sfiorandogli il viso.
Le sue mani si bagnarono delle sue
lacrime.
“Non
morirai solo…”
Poteva
sentire il calore del suo corpo, mentre lo stringeva.
“Isa,
sono qui…!”
Isa lo guardava speranzoso.
Sta
dicendo sul serio?
“Isa…”
Lea si strinse forte allo spettro, singhiozzando disperato mentre le
sue mani
lo accarezzavano.
Non
sapeva come fosse
possibile, ma potevano farlo.
Lo accarezzavano dolcemente, per poi afferrargli il bordo dello yukata,
facendolo scivolare piano.
Lea non protestò, sebbene il suo viso iniziò ad
arrossarsi.
Iniziava a sentire anche lui caldo.
Eppure la sua obaasan gli aveva detto che in presenza degli spiriti, le
ossa si
gelavano.
E allora come mai?
Non ebbe il tempo di chiederselo. Le sue labbra sfiorarono quelle di
Isa,
coinvolgendole in un bacio disperato.
Le loro dita si intrecciarono, mentre Lea veniva accompagnato da un
gesto
gentile della mano di Isa a stendersi sul pavimento.
Non avrebbe mai creduto di poter sopportare tutto questo, nel silenzio
spettrale della notte.
Non gli importava.
A discapito della sua prestanza fisica, il tocco di Isa era gentile e
delicato,
i suoi occhi teneri e protettivi, e non gli importò di
mostrargli il suo corpo
così com’era, mentre con gesti curiosi e quasi
giocosi gli riservava lo stesso
trattamento, scoprendogli il torso.
Notando tutte le sue cicatrici.
Lea si sollevò , per poterlo stringere, per permettergli di
sentire il battito
del suo cuore mentre lo confortava in un abbraccio quasi materno,
mentre gli
baciava le cicatrici, una ad una.
“Ora basta soffrire, Isa…”
E Isa accolse quell’invito, stringendolo ancora,
iniziando a sentire di più
il calore del suo corpo.
Iniziando a completare Lea, per sentirsi completo a sua volta.
Non
ha fatto male, nemmeno un po’.
Lea
sussultò
compiaciuto, beandosi della sensazione, sentendo come fuoco dentro di
sé,
tremando dal piacere.
Isa iniziò quella danza di anime disperate, con
l’ausilio complice della luce
della luna poteva vedere Lea sotto di sé e Lea poteva vedere
lui,
accarezzandolo con delicatezza estrema, come se temesse di rompere
quella
magnifica opera d’arte.
Gemiti.
Sussulti.
Il suono dei loro respiri persi nell’aria fredda della notte.
Ancora
una volta, la
luna fu testimone.
Stavolta, non di una morte dolorosa.
Ma di una unione dolcissima.
Un
onirico spettacolo
di anime sole, ora vicine. Nessuno lo avrebbe mai saputo.
C’erano solo loro. Isa e Lea.
Mano nella mano, tutti e due, lo avevano raggiunto.
Il loro piccolo angolo di paradiso…
Finalmente, Isa gli disse qualcosa.
Il suo tono così profondo, così
rassicurante…
“Perché sei venuto con me?”
Lea
aveva realizzato
solo in quel momento.
Ma non aveva paura.
“Non
volevo soffrissi da solo.”
Il
suo compagno lo
guardò intenerito, accarezzandogli la testa, dolcemente.
“Hai
i capelli rossi, Lea.”
Lea
sollevò il viso,
sorridendogli tra le amare testimoni della sua tristezza.
“Sì…”
“Come
il fuoco.”
“Sì, ti piacciono?”
Le
mani dell’uomo
tornarono ad accarezzarlo, mentre i due svanivano così, alle
luci dell’alba.
Portati via dal candore della luna.
“Lo
sapevo che il fuoco non è fatto per
ferire…”