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Autore: Christa Mason    30/06/2014    1 recensioni
Patrick dopo il liceo, Patrick dopo Charlie, Patrick a New York.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Patrick
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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L’idea sarebbe quella di scrivere tre epistolari diversi, uno per ogni protagonista di “Noi siamo infinito”, che costituissero insieme un seguito al romanzo. Questo che leggerete è il primo, forse l’ultimo che scriverò comunque, quello di Patrick, che nasce dall’esigenza di raccontare un Patrick più adulto, un Patrick innamorato, un Patrick che fosse più mio. La considero una storia romantica e non volgare, tuttavia va detto che ci sono scene di sesso esplicito. 




Caro Charles Baudelaire, o comunque si scriva,
ti domanderai perché io stia scrivendo a te. La verità è che non ho neanche il tuo indirizzo, quindi io ti scrivo, ma dubito seriamente che tu, alla fine, possa chiederti alcunché. Il mio nome è Patrick, anche se quando ti ho incontrato, in quel bar, quella sera, ho creduto bene di dirti che mi chiamavo Marlowe. Non perché non mi fidassi di te, ma era probabilmente la cosa giusta da dire, dopo che ti eri stupidamente presentato come Baudelaire, o comunque si scriva. Capisco questi giochetti che si fanno con gli sconosciuti nei bar, prima di finire inevitabilmente ubriachi, nudi e impegnati in abbracci passionali (a proposito, il sesso non è stato male, per me almeno), prima di tornare all’anonimato mattutino, tuttavia non sono abituato a farli. Appena trasferito a New York, ho creduto che incontri del genere avrebbero riempito la mia tiepida vita di amante avventuriero e furioso e che mi sarei sentito bene, nella mia libera scelta di amare uno sconosciuto di un bar, per qualche ora. 
In realtà, ora mi sento uno schifo. 
Camminare nella precaria New York mattutina, dopo aver abbandonato famiglia, amici e studi, e dopo aver fatto sesso con te, è stato terribile. E non sono scoppiato a piangere solo perché mi mancava una spalla su cui farlo. Non incolpo te per quanto male mi sono sentito quella mattina, anzi, sul momento ho trovato piacevoli e rassicuranti le tue mani avide e prepotenti sul mio corpo, ma le tue mani non le sento più, e non so chi sei. E sto male. 
Sono convinto che non vi sia niente di male nei contatti occasionali, e nei miei vestiti lasciati cadere ogni sera ai piedi di un letto diverso, ma l’impersonalità con cui i ragazzi come te mi costringono a farlo mi distrugge, e mi costringe a scriverti, anche solo per finta. Scrivo a te perché sono così abituato a mentire e credo mi possa essere utile avere tutta la verità in un quaderno come questo. Non riesco a considerarmi un bugiardo, credo proprio sia piuttosto questa città a rendermi tale! 
Non ho ancora detto ai miei e a Sam che non sono riuscito a concludere neanche il primo semestre, e che ho lasciato il college. Continuo a inventarmi storie su quanto sono simpatici i miei compagni di corso, di come abbia attirato l’attenzione dei professori e di come questo al college non sia affatto un problema. Quando Sam (Sam, a proposito, è mia sorella) mi ha chiesto se avevo trovato qualcuno che fosse meno stronzo di Brad, ho improvvisamente realizzato di essere solo, ed è stato allora che ho cominciato a leggere libri tristi, ho smesso di frequentare le lezioni al college, anche quelle che avevo scelto personalmente, e ho cominciato a dire cazzate. Ai miei dico di aver voti fantastici, a Sam di dico di avere un ragazzo dolce e premuroso, e a te ho detto di avere venticinque anni e di stare bene. 
Non è così. 






Baudelaire, 
dal momento che non sono sicuro che tu ti possa ricordare di me, credo sia giusto parlare di quella sera. E perdonami se tralascio dettagli che forse reputi importanti: non mi sono mai considerato un buon osservatore e mai ho creduto di dover ricordare l’avventura ubriaca di una notte. 
La sera che ti ho incontrato, ho capito subito che eri diverso da qualsiasi altro individuo avrei potuto rimorchiare in un bar newyorkese. Ti ho allungato una birra chiedendoti il tuo nome e tu mi hai sorriso, dicendomi di chiamarti Baudelaire.
“Io sono Marlowe, allora.” ho risposto io. 
Non hai finto un consono imbarazzo per farmi credere di non essere abituato a queste cose, né hai detto qualcosa di stupido e confortevole, lasciando intendere che invece eri perfettamente a tuo agio quando un ragazzino ti offre una birra con palesi secondi fini. Sei stato semplicemente te stesso: un trentenne senza nome disposto ad assecondarmi. Ti ho detto di avere venticinque anni, ma ne ho sei meno, che volevo diventare un critico letterario, ma è stata la prima cosa che mi è venuta in mente, ed è del tutto falsa. Avrai subito intuito quale marea di stronzate stavo ascoltando, tuttavia non mi hai interrotto, e anzi, ora che ci penso, non hai detto proprio niente. Strano perché a vederti non sembri per niente un tipo taciturno, eppure lo sei stato. Hai saputo nasconderti così bene che di te sono in grado di descrivere solo il tuo aspetto, come se mi avessi concesso di conoscere solo un involucro di te, lasciando per altre persone la bella conoscenza di chi sei. 
Mi hai baciato la prima volta sulla porta del tuo appartamento, il trentatré A, le tue labbra esperte non mi hanno intimorito, le tue dita si sono infiltrate nei miei capelli, facendomi chinare leggermente il capo, finché la tua lingua non s’è scontrata con la mia, con quella gentile prepotenza che di te ricordo. Ti ho lasciato condurre il gioco, non perché non ne fossi in grado, ma perché mi sembrava fosse esattamente ciò che desideravi. Ma oggi non ne sono così sicuro. Eri un personaggio così ben costruito, tuttavia non falso, con le tue mani ferme e ben sicure di quale fosse il ritmo dell’amore occasionale, il ritmo per sbottonarmi la camicia e spingermi contro il muro. Hai inspirato l’odore della mia pelle, affondando il viso nel mio collo, e mentre spingevi il tuo naso contro il mio zigomo destro, regalandomi egoistici baci sotto il mento, hai riso segnando i contorni degli angoli della mia mandibola. Mi tirasti verso di te, per la cintura. Ho sempre odiato quella cintura. 
Non stavamo solo per fare dello squallido sesso impersonale, si trattava di qualcos’altro per te: tu stesso eri impersonale, persino il tuo appartamento lo era, impersonale, con quelle pareti di un bianco troppo fresco e gli scatoloni ancora sigillati da uno scotch lucido e ben tirato. Le lenzuola sembravano esser state buttate sul letto con un senso di triste precarietà che non avevo mai visto su nessun altro letto. Ho pensato che fossi un uomo molto ricco, tanto ricco da potersi permettere un anonimo appartamento per casi come il mio. Ho pensato al tuo appartamento vuoto, poi mi sono ritrovato con la faccia contro il cuscino, e il tuo respiro sulla mia schiena. Allora ho smesso di pensare. 






Caro Baudelaire,
quando ti ho incontrato era uno strano periodo per me, uno di quelli che credo capitino a tutti gli esseri umani. Ho notato però che tutti gli esseri umani sembrano essere più bravi di me a superarli. Al liceo sono stato con un ragazzo, quel Brad che ti avevo nominato, e per qualche momento addirittura pensato di non poter essere mai più felice di come lo ero all’epoca. Poi però quella felicità andò tutta a puttane, soprattutto dopo che Brad le ha prese da suo padre, e io poi da lui nella caffetteria della scuola. Dopo, ho cominciato a sentirmi così come mi sento ora. Non avevo mai pensato che una persona che mi amava potesse farmi del male prima di dirmi “non ti amo più”. E non mi sento male adesso, ho sbagliato a dirlo nelle scorse lettere, solo vuoto. Forse è la stessa cosa, non lo so. Anche allora avevo voglia di farmi spogliare da persone diverse che si presentavano con nomi falsi. 
Avevo trovato un amico con cui parlare, e di cui ho voluto innamorarmi. Charlie non ha mai detto niente per farmi sentire meglio dopo che mi avevano picchiato, dopo che avevo capito di esser sempre stato una vergogna per Brad e non l’amore della sua vita, come lui lo era per me, e dopo che avevo cominciato a scoparmi uomini in un parco ben noto nel posto da dove vengo io. Tuttavia Charlie era un buon amico che sapeva ascoltare, uno di quelli che ti guarda lì impalato per ore mentre parli e piangi finché le cose che dici non sembrano inutili e stupide in confronto alle malattie gravi e alle morti improvvise. Capisci cosa intendo?
Per questo ti scrivo. Sei come Charlie che resta lì silenzioso a sentire ciò che ho da dire, senza avere un’opinione vera, ma riuscendo comunque a fare in modo che io ne abbia una in merito. Ci sono stati momenti in cui avrei voluto fare di Charlie e del suo silenzio il mio amore pubblico e stabile, così come vorrei fare con te. Più volte ho preso il suo viso tra le mani e l’ho baciato, non perché fosse giusto o perché Charlie lo volesse, solo perché ne avevo bisogno. 
Arriva un momento in cui ti senti così vicino a un altro essere umano che non c’è altra cosa da fare che baciarlo. Forse avrei dovuto dirti cose del genere nel tuo appartamento senza mobili, forse i nostri baci sarebbe stati meno passionali e più sinceri, ma forse non ce n’è stato il tempo. Forse se ci siamo conosciuti in un bar non volevamo qualcosa di sincero. 
Ricordo l’odore del tuo cuscino e il contatto della mia pelle su quelle lenzuola ruvide, come se fossero state piegate in un armadio per molto tempo. Ricordo che stavi su di me, mi hai spinto il viso sul cuscino, il mio respiro non è accelerato, forse perché mi fidavo di te, forse perché non ero del tutto concentrato sulla cosa. Entrasti dentro di me, spingendoti ritmicamente contro il mio corpo. Fu allora che trattenni dolorosamente quei piacevoli e naturali sussulti al tuo penetrarmi. Non potevo vederti, ma nel descriverti la nostra scopata ti immagino con quell’impassibilità che ti caratterizzava quando ci siamo lasciati la mattina dopo. Spero non sia stata quella la tua espressione. Spero che tu mi abbia congedato con freddezza, non perché non mi volevi in quel letto, ma perché sei fatto così. 
Mi scuso per quel sangue sul cuscino. Non me ne sono accorto, ma devo essermi morso il labbro una volta di troppo in quel nostro quarto d’ora di amore meccanico. Ma già di vedo arrotolare le lenzuola, notare quel sangue sparisce nelle pieghe di stoffa che saranno ora in qualche lavanderia di quartiere. 






Caro Baudelaire,
ho trovato lavoro in una libreria. Il proprietario della libreria ho dedotto che non avessi un lavoro, visto che mi facevo vivo quasi ogni giorno a comprare grande classici a novantanove centesimi, così me ne ha offerto uno lui. Ho creduto che lavorando in una libreria avrei avuto il tempo di leggere, invece il signor Shakespeare (non si chiama veramente così il proprietario, ma non ricordo il suo vero nome, pertanto…) me lo proibisce, così passo il tempo a fissare il vuoto oltre la vetrina e a tenermi la testa con la mano sinistra, aspettando che qualcuno compri un libro. “Un ottima scelta, signore.” devo dire, tutte le volte, ad ogni cliente che compra qualcosa. Anche se la maggior parte delle scelte sono discutibili. 
Charlie avrebbe comprato molti libri, perché lui leggeva molto, e avrebbe comprato anche tutta la libreria se questo fosse servito a non farmi annoiare. Non so perché non lo chiamo più, né perché non rispondo alle sue lettere. So solo che credevo di aver superato la cosa, ma il ricordo di quei baci che gli ho dato per combattere la mia sofferenza liceale mi è crollato addosso come un temporale estivo, con tutto l’imbarazzo che io abbia mai potuto provare. 
Ho detto finalmente Sam (che spero l’abbia detto per me ai miei, e a Charlie) che non posso frequentare il college. È successo tutto il primo giorno, quando doveva essere tutto perfetto, quando mi sono ritrovato con altri cento ragazzi effervescenti per una lezione introduttiva al corso di marketing musicale (come potrai immaginare, uno di quei corsi un po’ alternativi che poi non insegnano niente). Mi sono seduto in uno dei posti liberi della penultima fila, ed era perfetto perché da lì potevo vedere ogni cosa passando inosservato. Avevo cominciato a leggere “Di qua al paradiso” di Fitzgerald, uno dei moltissimi libri che Charlie aveva regalato a me e Sam.  Io e mia sorella abbiamo deciso di scambiarceli, e leggerli tutti. Nelle prime file cominciarono a sollevarsi quelle risatine stupide e contagiose. Passarono meno di dieci minuti prima che tutti i presenti si accalcassero davanti per ridere di qualche buffa storiella che qualcuno di simpatico aveva di deciso di raccontare. So benissimo che nessuno stava ridendo di me, ma non mi sentivo a mio agio, e penso che dopo che ti hanno picchiato in una caffetteria, sentirsi a proprio agio in un’aula piena di gente sia importante: allora me ne sono andato, e non sono più tornato.
Ho mentito per mesi, e mi sono tenuto occupato nel bar in cui ti ho offerto quella birra. Oggi quando ho parlato con Sam al telefono, lei non mi è sembrava particolarmente stupita, ed è stata molto comprensiva, e i miei non mi hanno ancora chiamato, anche loro sono stati molto comprensivi. 
Comincio a pensare che se sono scappato da quell’aula quel primo giorno è perché sono solo, non credo che le persone possano darmi conforto, e la solitudine mi fa ripensare a quanto schifo ho fatto in alcune occasioni. Vorrei però che tu non pensassi che il sesso nel tuo appartamento sia una di quelle occasioni. Sento ancora le tue mani sui miei fianchi, e mentre sei dentro di me ti ingrossi, spingi e insisti sul mio corpo affamato, prima di concludere come esausto, e cadere al mio fianco. Il materasso doveva essere ancora avvolto nella plastica in si trovano avvolti i materassi quando sono esposti nei negozi, perché per tutto il tempo ha fatto un rumore poco romantico, e quel fruscio di plastica inconfondibile c’è stato anche quando ti sei sdraiato vicino di me, e poi allungato verso il pavimento per raggiungere un pacchetto di sigarette e un accendino. Me ne hai offerta una. 
“Allora?” hai detto, allusivo. Non ho capito se mi stavi offrendo una sigaretta o mi stavi chiedendo un giudizio sul nostro quarto d’ora. 
“Perfetto.”ho risposto, prendendo la sigaretta.
Vorrei rivederti perché sei stato in silenzio a lungo, perché non mi sembra di conoscerti, perché so che saresti bravo ad ascoltare, e ti assicuro che io sono molto bravo a parlare, soprattutto quando non lo faccio da un po’. So che dopo qualche ora passata a parlare come due confidenti, e non come due sconosciuti in un bar, finirei per amarti, finirei con il tuo viso tra le mani e col baciarti, con sincerità, più che con passione. 






Caro Baudelaire, 
davvero non avevo mai capito quelli che dicono che New York in fondo non è altro che un paesino, che le persone si possono incontrare e rincontrare, che è una caotica città solo in apparenza, che la solitudine non è possibile perché i newyorkesi sono tutti gentili e alla mano e con molta voglia di sapere la tua storia. Mi avevano detto mi sarei trovato bene, perché c’è sempre bella musica, bei film e belle persone con cui ci sono sempre belle cose da fare. Ma New York è fredda, triste, ed io sono così solo che ho finito per leggere tutti i romanzi che prima, quando avevo Sam, Charlie e Brad, non avevo neanche avuto il tempo di comprare. La verità è che, quando mi sono svegliato a casa tua, ho trovato il letto vuoto e un tuo biglietto con le istruzioni su dove lasciarti le chiavi (a proposito, la casetta degli uccelli è un bel posto per lasciare un mazzo di chiavi). Non è una cosa che mi sarei aspettato da un newyorkese. Non ti avrei chiesto il tuo nome, né che cosa hai studiato al college, qual è il tuo gruppo preferito o qual è il tuo appuntamento ideale, non ti avrei chiesto niente del genere, ma avrei accettato un’altra delle tue sigarette, e avremmo potuto fare una timida colazione insieme. Questo sarebbe stato abbastanza newyorkese. Invece tutto quello che mi rimane è un biglietto scritto in stampatello. Ora fantastico su di te, e sulle conversazioni che avremmo potuto avere.
Dicevo, non avevo mai capito quelli che dicono che New York non è che un paesino, che le persone si incontrano e rincontrano, finché non ti ho visto stamattina, disinvolto e anonimo davanti alla vetrina della libreria del signor Shakespeare. All’inizio non ti avevo riconosciuto, finché non ho notato il modo in cui tenevi la sigaretta tra le dita, con l’indice e il medio alla base del filtro, con quel modo tutto europeo di fumare, come fossi una versione matura di Ian Curtis. Credimi quanto ti dico che avrei voluto correrti incontro, poi ho cominciato ad avere paura che tu non ti ricordassi di me, ho cominciato ad avere paura che ridessi di me e ho continuato ad avere paura anche quando te ne sei andato con passo lento dalla vetrina del signor Shakespeare. Ho sorriso ripensando a Sam che mi diceva che a New York non è raro incontrare per caso Woody Allen, un vecchio amico che non vedevi da anni o te, in quest’occasione. Io continuavo a risponderle con aria saccente e ironica, quando mi diceva queste cose, facendo notare a mia sorella quante persone vivono a New York, e quanto sia difficile… Insomma mi sbagliavo, perché oggi eri là, a guardar quella vetrina confusionaria, e io potevo vederti, come un amante nascosto la cui unica arma per non cadere vinto dal più romantico dei sentimenti è l’osservazione. Ma non ho avuto la forza di fermarti, di rincorrerti e forse, anche se l’avessi fatto, sarei rimasto in silenzio, o avrei detto qualcosa di molto stupido. Ti avevo perso per sempre, così credevo, per la seconda volta. 
Poi ho cominciato a pensare, con quell’entusiasmo e quella gioia liceale che un tempo avevo e condividevo con tutti, ballando stupidamente con Sam sui lenti ai balli di fine anno, nelle palestre strapiene di coppiette. Ho pensato che se mi eri capitato davanti alla libreria del signor Shakespeare, ci saresti ricapitato con ogni probabilità, è stato allora che ho svuotato la vetrina, liberandola di tutti gli insapori bestseller che stavi osservando qualche attimo prima, li accatastavo con furia e senza cura. Ho sostituito quei libri inutili con tutte le copie di Baudelaire e Marlowe da novantanove centesimi che riuscii a trovare, andai anche in magazzino, nel caso me ne fosse sfuggita qualcuna. Ora, se mai ripassassi da queste parti, ti sarà impossibile non venirmi a cercare e, nel caso i libri che richiamano i nostri nomi falsi non bastassero, troverai quel tuo biglietto, quello delle chiavi, attaccato sul vetro, all’interno della vetrina. Saprai che sono qui, con ogni certezza, e mi verrai a cercare. È come se improvvisamente sapessi di non essere più solo, perché a New York le persone si rincontrano: e mi basta questo per sapere che ripasserai davanti alla mia vetrina; e so che entrai in questa libreria, perché New York è come un paesino: le persone si trovano, e hanno sempre voglia di parlare.
So che ci ameremo.
 

  
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