Salve!
Questa è la mia terza fic. Spero vi susciti qualche
emozione. Parla di una ragazza (che ho inventato). Si chiama Sasha ed è malata
terminale. Questi sono i suoi ultimi attimi di vita. Lasciatemi qualche commentino…
È finita. È finita veramente
questa volta. Lo sapevo, io me lo sentivo: mi hanno diagnosticato una malattia
al cuore. Una malattia terminale, la stessa che aveva la nonna. Mi sono sentita
morire già da subito, quando me l’hanno detto. Mi hanno riferito che sono tipo
cardiopatica, ma qualcosa di più grave. Mi è successo mentre eravamo in
palestra a scuola. Stavo facendo il salto in alto, la disciplina per cui sono
più portata, quando ho sentito un dolore lancinante al petto, talmente acuto da
spezzarmi il respiro. Sono caduta e sono rimasta lì. Mi ricordo confusamente i
miei compagni, le mie amiche e il prof intorno a me, preoccupati a morte.
Morte. In ogni frase che
scrivo questa dannatissima parola emerge sempre. Maledizione, non so più cosa
fare.
Un po’ di tempo fa ho fatto
una visita generale e mi hanno detto che ero sana come un pesce, tiroide a
parte. Ma questo lo sapevo già, quindi ero contenta. Poi è successo
quell’episodio in palestra.
Hanno chiamato in fretta
un’ambulanza. È venuta la PAM, me lo ricordo ancora. Cercavo di memorizzare i
dettagli dell’ambiente, dettagli inutili, per rimanere cosciente. Ho resistito
fino a metà viaggio verso l’ospedale San Martino.
Ora sto un po’ meglio, sono
sdraiata su un lettino d’ospedale con le flebo alla mano e il respiratore al
naso. Porca puttana, mi ricordo di mia nonna. Capisco come si sentiva, lo
capisco solo adesso. Quello che nessuno potrà mai comprendere a fondo è questo:
mia nonna aveva quasi ottant’anni, la sua vita l’aveva già vissuta, ma io ne ho
solo sedici e ci sono ancora un bordello di cose che vorrei fare: innamorarmi,
finire il libro, diventare una famosa scrittrice…
Tutte cose che ho sempre sognato di fare, ma che adesso mi vengono
tassativamente impedite. Le mie lacrime di dolore e rabbia bagnano la stoffa
bianca del cuscino d’ospedale.
I miei genitori mi sono
sempre stati accanto. Mio padre vuole piantare un casino all’ospedale perché è
proprio lì che ho fatto la visita generale. È lì che mi hanno detto che ero
sana come un pesce. Ed è lì che mi trovo, morente a sedici anni, sdraiata in un
freddo lettino d’ospedale, in una fredda stanza che non è la mia.
La mia mamma mi ha portato l’IPod e le casse. Ho promesso all’infermiera che l’avrei
tenuto basso per non disturbare gli altri pazienti.
Molti miei amici non ce
l’hanno fatta a venire, non ne avevano la forza. Sono venute a trovarmi solo poche
amiche, anche Luisa e Giulia, le mie colleghe di scrittura, direttamente dalla
Sardegna. Per tirarmi su mi hanno letto dei nuovi pezzi del nostro libro, hanno
attaccato i loro bellissimi disegni sulla testata del mio letto e hanno giurato
che avrebbero scritto di Avril in memoria di me. Mi sento Gesù Cristo…
Le mie compagne mi hanno
portato le foto di classe dei due anni passati con tutte le dediche della
classe per me e mia mamma invece mi ha portato Zack e
Didi, i miei due pupazzi preferiti. Mio cugino e la
sua fidanzata mi hanno portato le mie caramelle preferite. Sono davvero
commossa, non credevo che tutti tenessero così tanto a me. Questo rende ancora
più difficile andarsene. È per loro, per le persone che amo che sto lottando
come una pazza disperata per rimanere in vita, nonostante le infermiere con la
loro insopportabile pietà mi ricordano che è troppo tardi, anche se non
direttamente. Dicono che sto resistendo molto più del previsto, che sono una
vera vichinga, una leonessa. Io mi sento un agnellino fragile.
In questo momento sono
sdraiata su un fianco, gli occhi asciutti e vuoti, aspettando la fine. Poi,
all’improvviso un’infermiera fa capolino sull’uscio della porta. È Anna, la mia
preferita, l’unica che non ha la compassione dipinta sul viso mentre mi assiste.
“Sasha, sei sveglia?” Mi
sussurra.
“Si.” Rispondo. La mia voce è
talmente roca da spaventarmi.
“Hai una visita.” Mi annuncia
dolcemente Anna.
“Fallo entrare.” Dico, anche
se mi viene più spontaneo chiedermi chi è. Ormai sono sola: nessuno ce la fa a
vedermi morire. Nessuno è così forte da tenermi la mano mentre il mio angelo
custode mi guida in paradiso. Nessuno.
Il mio IPod intona piano “So
Nice So Smart”, direttamente dalla colonna sonora di Juno. Che ironia: anche
lei era sdraiata in un letto d’ospedale quando durante il film c’era questa
canzone in sottofondo. Altre lacrime mi scivolano sulle guance. C’era una cosa
importante che non avevo mai ammesso a nessuno, nemmeno a me stessa: non avevo
ancora superato la seconda delusione d’amore, la più seria. Michael…
Poi, come in una visione, è
lì, sulla porta. Ha un’aria terribilmente preoccupata e sembra esausto:
dev’essere venuto di corsa.
“Non farla affaticare.” Lo
minaccia Anna.
Mentre Michael annuisce ed
entra, mi vengono in mente le parole di Masini, quelle che gli ho dedicato per
due anni e mezzo : e allora ti saluto, brutto stronzo. Ovviamente era “bella
stronza”. Brutto stronzo, però, si addiceva di più alla mia situazione attuale.
Lo vedo chinarsi davanti a
me, il viso a pochi centimetri dal mio. Mi tocca la mano. Non posso fare a meno
di notare che ha di nuovo i capelli lunghi e che si è tagliato la barba. È così
che lo preferisco.
Il mio primo istinto è quello
di mandarlo a fanculo, ma poi penso che sarebbe crudele da parte mia farlo
crogiolare nei sensi di colpa, così decido di gettare un macigno sul passato e
gli sorrido con fatica. Quanto tempo è che non sorrido a qualcuno?
Lui, il mio amore proibito
ricambia e mi toglie delicatamente il ciuffo dalla fronte.
“Avevo paura di non trovarti
più… Ho sofferto come un cane durante il tragitto.” Confessa.
“E perché ti sei fatto tutta
questa strada con il cuore in gola?” Chiedo a bassa voce.
“Perché volevo scusarmi con
te prima che…” Gli si blocca la voce.
“Prima che muoio?” Chiedo
atona. Ormai mi sono arresa all’evidenza. Non voglio passare gli ultimi attimi
di vita che mi rimangono piangendo il mio destino.
“Si…” Ha abbassato la voce.
“Volevo dirti anche che tu mi piaci moltissimo, davvero. Da sempre. Non ti ho
mai amata, ma credo che la ragazza che voglio al mio fianco debba assomigliarti
almeno un po’.”
Gli sorrido. “Grazie per
essere stato sincero con me.” Finalmente,
aggiungo nella mia testa.
Sembra sollevato. “E’ il
minimo che ti devo.” Spiega. “E dato che sono stato una merda con te, starò al
tuo fianco finchè la tua anima rimarrà su questa terra.”
Sono commossa. Non è da lui
dire queste cose. Non credevo nemmeno che usasse questo tipo di frasi.
Mi stringe la mano, quella
sana e per circa un’ora rimaniamo così, immobili, senza parlare. Piano piano
inizio a sentirmi sempre più male: il cuore batte prima velocissimo, poi a
malapena lo sento. Ho la vista annebbiata e mi sale la nausea dal terrore.
Michael evidentemente se ne
accorge e si alza. Non ho la forza di muovermi e per un attimo temo che se ne
stia andando, proprio come tutti. Credo che il solo pensiero basterebbe a farmi
fuori.
Ma invece eccolo di nuovo al
mio fianco, come aveva promesso. Si sdraia dietro di me e mi passa un braccio
sulla vita, stringendomi nuovamente la mano. Lo sento posare la guancia sulla
mia. Mi viene da sorridere tra le lacrime di paura. Anche se non ha la barba,
avverto lo stesso un pizzicorino piacevole.
Guardo la mia immancabile
sveglia: sono le dieci e mezzo di sera. Mi resta poco tempo da vivere, lo
sento. Michael mi da un piccolo bacio sulla guancia, vicino all’orecchio. Lo fa
sicuramente per confortarmi, ma mi manda in subbuglio. Sento il viso rovente.
Il bip perpetuo della macchina a cui sono attaccata aumenta improvvisamente di
frequenza. Michael si spaventa, cerca di calmarmi, ma non ho bisogno di lui.
Ormai ho messo il guinzaglio ai miei sentimenti e riesco a domarli piuttosto
facilmente.
È inutile, quel miserrimo
sforzo mi ha sfinita. Con la mano delle flebo toccò la crocetta di nonna e
capisco che è il momento di andarmene.
“Michael…” Sussurro, la voce
nuovamente roca.
È sull’attenti. “Dimmi…”
Sono le ultime forze che mi
rimangono :“Dì ai miei genitori che gli voglio bene. Sto per andarmene. Addio,
unico amore della mia vita. Ti proteggerò dal cielo. Vai e sii felice.”
“No…” Sussurra con la voce
incrinata.
Il mio corpo si rilassa tra
le sue braccia. Il mio ultimo respiro è lungo e intenso, mi riempie i polmoni,
mi inebria.
La canzone che accompagna la
mia morte è The Rose, di Bette Midler. Me ne vado nel momento più triste,
quello che mi ha sempre fatta piangere. Dico addio anche a tutti i miei angeli
custodi, che mi hanno accompagnata nella vita e mi hanno fatto ridere nei
momenti difficili.
La vita è bella. La vita è
brutta. Quante volte l’ho pensato.
Ho vissuto davvero la vita. L’ho
pensato una sola volta. Quando sono morta.
Alcuni dicono, l’amore è un
fiume
che sommerge la canna tenera.
Alcuni dicono, l’amore è un rasoio
che ti fa sanguinare l’anima.
Alcuni dicono, l’amore è una fame,
un bisogno doloroso e senza fine.
Io dico, l’amore è un fiore,
e tu il suo unico seme.
E’ il cuore che teme di essere rotto
che non impara mai a ballare.
E’ il sogno che teme di svegliarsi
che non rischia mai.
E’ colui che non sarà preso,
chi non sembra dare,
e l’anima timorosa di morire
quella che non impara mai a vivere.
Quando la notte è stata troppo solitaria
e la strada troppo lunga
e pensi che l’amore è solo
per il fortunato e per il forte,
ricorda che nell’inverno
in profondità, sotto la neve invernale
c’è il seme che con l’amore del sole
diventa una rosa a primavera
The Rose – Bette Midler (traduzione)
Ecco, è finita… è la prima fic drammatica che pubblico. Quel libro, “La figlia della mia migliore amica” mi ha fatta riflettere, e il risultato è stato questo esperimento! Spero che non debba mai capitare a nessuno! Fatemi sapere cosa ne dite, eh?