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Autore: Piebavarde    03/07/2014    1 recensioni
Francesca Molinari è una ragazza con la testa sulle spalle, una dose incredibile d'orgoglio e iattanza e la nomina di rappresentante di classe della IV C. Snob, selettiva, nevrastenica e acida come un limone, Francesca ha sempre mostrato alla gente una maschera di superbia e indifferenza.
La sua saccenteria verrà però contrastata dal nuovo professore di letteratura italiana: Marco Fanti.
Marco è quel che il mondo definisce lo "scapolo d'oro": amato dalle sue alunne e invidiato dai suo colleghi, il professore sembra esser la saggezza fatta uomo. La mente tra i libri e le riviste d'auto sportive, e le parti bassi sempre tra le gambe di qualche donna; questo è il tipo d'uomo rappresentato dal professore tanto ambito tra le lenzuola, che tenterà di frenare la spocchia della sua alunna sognatrice.
Se i principi della fisica iniziassero ad intervenire sulla vita di questi due individui?
Se Newton avesse avuto ragione?
Cosa accadrebbe se una forza F agisse inconsapevolmente su una massa M, provocando un'accelerazione A?
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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LA SECONDA LEGGE DEL MOTO DI NEWTON.
L'accelerazione acquistata da un corpo è direttamente proporzionale alla forza risultante a esso applicata e inversamente proporzionale alla sua massa.
                              
 
 
Sapete cos’è la forza?
La forza è un vettore.
Un vettore detiene tre caratteristiche.
Esso si distingue per: direzione, verso e modulo o intensità.
La forza è però un vettore particolare, perché possiede una caratteristica in più, rispetto agli altri vettori.
Per quanto concerne la forza, infatti, è altrettanto importante il punto di applicazione di quest’ultima.
Gli altri vettori sono frecce che viaggiano nello spazio, possiamo dire.
La forza, soltanto essa, può vantare una meta particolare, possiede ovvero un punto di applicazione.
La forza decide di non sprecare se stessa per vagare a zonzo.
La forza determina un punto e lo attacca.
Questo punto si chiama semplicemente punto di applicazione della forza.
Quale sia il punto, questo lo decide la forza.
Su quale degli infiniti punti essa debba attaccare, condurre un accerchiamento, una campagna militare; quale punto mitragliare, colpire con una freccia, spintonare, scazzottare, schiaffeggiare, calciare, premere; solo lei lo sa.
Quando la forza attacca un punto, pertanto un sistema, pertanto un corpo, pertanto una massa, essa determina un’accelerazione.
Se il corpo poi è inerte, si potrebbe dedurre che la forza considerata abbia scombussolato il suo stato.
Se il corpo, però, accelera, l’inerzia tende a fermarlo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo I.
Dinamico deriva dal greco "δύναμις", forza.
“Dovrete essere dinamici”
 
 
 
- Allora -, esordì Gaia, aggrovigliandosi le dita in cerca di un’illuminazione, - La dinamica è una branchia della meccanica.
 
Evidentemente nella testa aveva solo e soltanto una matassa di idee confuse. Molto confuse. Estremamente confuse.
 
Quante volte e in quanti altri contesti Gaia Fallani aveva già ed erroneamente fatto riferimento alla branchia dei pesci?
 
E quante volte e in quanti altri contesti le si era fatto notare l’errore?
 
E quante volte e in quanti altri contesti si intestardiva non riuscendo ad imparare dai propri sbagli?
 
Né una rotella in azione, nella testolina di Gaia, né un neurone che funzionava. Né il fantomatico criceto che girava, girava, girava.
 
Come la testa di Francesca.
 
La ragazza poggiò il capo sul banco, celando lo sguardo scuro. I suoi lunghi capelli bruni le ricoprirono le spalle, formando una specie di tendina tuttotondo. Era stanca; ed era ancora gennaio.
 
E poi Gaia sbagliava, commettendo sempre lo stesso errore.
 
Questo fece nascere nell’animo di Francesca una specie di monotonia-malinconia. Le si accese una spia nel cervello volta ad indicarle il lento succedersi delle giornate, tutte uguali.
 
Tutte noiose e tutte “la dinamica è una branchia della meccanica”.
 
Francesca si sentì stufa di quella situazione, estremamente stufa. Agognava la fine di tutta quell’uniformità delle giornate illudendosi che presto sarebbe finita, seppur fosse ancora gennaio.
 
Per l’esattezza era l’8 di gennaio ed era appena tornata dalle vacanze natalizie.
Sicuramente non le erano bastate. Si domandò stiracchiandosi quanti giorni mancassero alla chiusura della scuola.
 
Troppi, si rispose.
Troppi, come i dubbi di Gaia Fallani circa la lingua italiana.
 
La sua compagna di banco sghignazzò notando quello che si potrebbe definire il suo status perenne, di persona affranta e annoiata al contempo.
Si avvicinò al suo orecchio e sussurrò: - Dormigliona, perché non ti prepari per la prossima ora?
Francesca aggrottò le sopracciglia, si alzò con placida calma e osservò la sua amica con curiosità.
 
Fece scorrere i suoi occhi improvvisamente preoccupati sulla figura esile di Matilde, convinta che volesse prenderla in giro. Che, come al solito, volesse distrarla dai suoi riposini scolastici punzecchiandola con una delle sue.
 
Poi Francesca puntò l’attenzione sugli occhi verdi e sinceri della sua amica. La sua migliore amica.
 
-L’hai dimenticato, vero?
-Cosa?
-L’assegno della prof Giusti: “Il teatro nel ‘600”.
 
Francesca roteò gli occhi: non aveva mai avuto problemi con l’italiano, non l’aveva mai studiato, non ne aveva mai sentito il bisogno; era come se le cose le sapesse e basta, così, per magia, dopo aver dato un’occhiata veloce al libro.
 
Perché mai avrebbe dovuto iniziare proprio l’8 di gennaio, quando mancavano per l’esattezza 153 giorni alla fine dell’anno scolastico?
 
-Lo sai che non lo farò comunque-, rispose, lasciando sottintendere mediante un leggero sorriso un ringraziamento velato.
 
Matilde fece spallucce e afferrò il libro di letteratura italiana.
 
Così tra un errore della Fallani e l’altro, tra cui intercorrevano i suoi vari “ehm” “hmm” impacciati, l’ora di fisica passò, per lasciar spazio a quella di italiano.
 
Angelica Giusti, spumeggiante professoressa di italiano, era, come solitamente capitava, in netto ritardo.
 
La “secchia” della classe, Gaetano Borbone, fece scattare il suo sguardo attento sulle lancette dell’orologio di pelle che teneva allacciato al polso.
 
-Sono le 9.42-, sibilò esterrefatto.
 
Francesca si voltò gongolante verso il bel secchione, nonché suo migliore amico.
 
-Perché mai ti lamenti, Borbone?- lo canzonò tirandogli qualche pelo di una sottospecie di barba, che Gaetano chiamava fieramente proprio barba, quando si avvicinava più che altro ai peli del mento di una capra; -Tu odi la letteratura italiana, non è così?
 
Lui assottigliò gli occhi allontanando il capo dalle dita di Francesca: -Non scherzare-, disse esterrefatto, -Se per ogni sua ora perderemo questo stesso tempo, entro fine anno non riusciremo a completare l’intero programma!
 
Matilde proruppe in una sonora risata proprio quando le nocche di una mano colpirono lievemente la porta della IV C.
 
Tutti si voltarono verso la soglia.
 
-Studente nuovo? – domandò Ettore Ciaglia verso il nuovo venuto.
 
L’altro sorrise avanzando verso la cattedra e vi si sedette.
 
-Tutti composti. E tu,- intimò ad Ettore,- accomodati pure al tuo posto.
 
L’intera IV C, classe raccomandabile e diligente, osservò quell’uomo – che avrebbero pur potuto chiamare ragazzo- scorrere con gli occhi il registro di classe.
 
-Venti!- esclamò con amarezza, parlando più a se stesso che ai ragazzi -Troppi, estremamente troppi.
 
-Ma quanti anni ha?- sussurrò dubbiosa Matilde all’orecchio di Francesca.
 
Lei fece spallucce e lo osservò studiandolo.
 
Aveva degli incredibili occhi verdi, che saltavano subito all’attenzione, e dei capelli castano chiaro, con dei riflessi biondi, tutti scompigliati, come se avesse appena corso trenta rampe di scale. O come se avesse appena finito di fare del sano e selvaggio sesso.
 
Francesca deglutì.
Non era una similitudine consona.
 
Portava dei jeans che gli calzavano a pennello. Vestiva poi una camicia azzurra ben stirata.
Pensò che quell’uomo fosse sicuramente sposato, o perlomeno convivesse con una donna: solo un individuo di sesso femminile avrebbe saputo stirare una camicia con così tanta diligenza tanto da farla apparire appena comprata.

Ahia, stava cadendo nei luoghi comuni: non era certo un buon segno.
 
Però aveva delle sopracciglia forse un po’ troppo folte.
Non in modo esagerato, ma in modo che avesse anch’egli un difetto, non troppo difettoso da deturparne la bellezza.
 
Francesca deglutì ancora.
Doveva pensare a lui come un insegnante.
Cercò qualche altro difetto.
 
Ecco! Il naso era un po’ troppo grande.
Non era vero.
Cioè, non era abnorme, ma neanche minuscolo.
 
Francesca deglutì una terza volta: doveva sforzarsi.
 
Il professore si alzò sorridendo, per poi sedersi sulla cattedra con le gambe penzolanti.
 
Quell’uomo, seppur con qualche imperfezione, era incredibilmente bello e affascinante, notò stralunata.
E poi aveva la barba.
 
A Francesca piacevano gli uomini con la barba, soprattutto se l’avevo non troppo folta. Come quell’uomo lì.
 
Ma quell’uomo lì era il suo insegnante.
Di letteratura italiana.
 
Fermi tutti.
Ma quello lì era il suo insegnante?
 
Quando lo vide schiudere le labbra, Francesca trattenne il fiato. Sperò fosse un uomo qualsiasi che avrebbe loro propinato un laboratorio qualsiasi. Magari quello di economia, che Francesca attendeva da tanto.
 
Ma un professore, magari quello no.
 
Francesca deglutì un’ultima volta, speranzosa.
 
-Ragazzi, sono il vostro supplente di italiano, mi chiamo Marco Fanti. Forse starò con voi questo e il prossimo anno-, quell’imbecille di Rita Neri squittì senza ritegno alcuno, battendo le mani, -sempre che la preside mi ritenga adatto. Perché l’anno prossimo avrete gli esami, no?- domandò retoricamente; nessuno gli rispose dato che fece intendere ai suoi alunni che conosceva già la risposta. Continuò –La professoressa Giusti aspetta un bambino-, annunciò chiarendo ogni dubbio sul perché sarebbe stato lì anche l’anno successivo, -e ha chiesto di venir sostituita. La vostra e la IV A sono le mie uniche classi: la quinta non mi è stata assegnata per motivi di inesperienza.
 
Fece un gesto con la mano, per far comprendere che lui l’esperienza l’aveva eccome.
 
Francesca lo trovò ridicolo e mentre il resto della parte femminile della classe ridacchiò estasiata, lei poggiò il mento sul palmo della mano.
 
-Chi è il rappresentante di classe?-, domandò lo pseudo professore.
 
Francesca Molinari levò in aria il braccio cercando l’attenzione del prof.
 
Lui le lanciò un’occhiata veloce, per poi riportare gli occhi sul registro che in quel momento teneva tra le mani.
 
-Vieni un attimo qui, ehm…-, la osservò in cerca del suo nome.
 
-Molinari-, rispose lei raggiungendolo.
 
Lui le porse il registro con sguardo affabile: -Ho bisogno del tuo aiuto …-, diede una frettolosa occhiata all’elenco prima di cederlo alla ragazza, e aggiunse,- … Francesca. Prendi qualche foglio e scrivi su di essi il nome dei tuoi compagni di classe. Poi vai dal bidello,  chiedi il nastro adesivo e una forbice. Distribuisci i fogli, così i tuoi compagni possono appendere al banchetto il proprio nome.
 
Francesca gli voltò le spalle alzando scettica un sopracciglio.
 
E quell’uomo avrebbe dovuto insegnarle Ugo Foscolo.
 
Il suo Ugo Foscolo.
 
U-G-O F-O-S-C-O-L-O.
 
E non riusciva a ricordare neanche venti nomi.
 
Si gettò sulla sua sedia per poi domandare gentile a Gaetano dei fogli, il nastro adesivo e la forbice.
Lui aveva sempre tutto.
Fogli.
Nastro adesivo.
Forbice.
Fazzoletti.
Caramelle.
Penne.
Ovatta.
Sì, persino l’ovatta.
Gaetano era un bazar.
 
Le allungò una manciata di fogli spiegazzati e il resto dell’occorrente, così Francesca prese a scrivere un elenco di nomi che lei conosceva a memoria, senza l’aiuto del registro.
 
A differenza di qualcun altro.
 
-La professoressa mi ha informato che siete arrivati al teatro. Ottimo. Avete già fatto Shakespeare con l’insegnante di inglese?
 
Shakespeare non si fa.
 
E non è “inglese”, bensì “letteratura inglese”.
 
Francesca storse il naso.
 
Prese a scrivere i nomi con una grafia molto piccola.
 
Gaetano gli rispose che sì, stavano già affrontando Shakespeare con la professoressa di letteratura inglese.
 
-A me piace Shakespeare!-, esclamò il professore, come se a qualcuno potesse minimamente fregare.
 
-Anche a me, tanto-, gli fece sapere Rita Neri, congiungendo le mani. –A proposito-, aggiunse lei, mentre Francesca intuì dove sarebbe andata a parare, -la professoressa ha deciso di saltare Romeo e Giulietta. Magari potremmo studiarlo con lei.
 
Marco Fanti si portò l’indice sul mento sfregandolo. Aveva una faccia da “perché no?” e osservava la Neri con sguardo furbo.
 
-Potremmo metterlo in scena!
 
Che idee malsane che  aveva questo insegnante.
 
Francesca intervenne, prima che lo facesse Gaetano con la sua stessa lamentela.
Voleva subito far capire al professor Fanti come stavano le cose: la prof Giusti era un’ottima insegnante, che non perdeva tempo in cavolate del genere e loro dovevano assolutamente concludere il programma, perché per il prossimo anno non avrebbero potuto portarsi arretrati.
 
-Professore, non possiamo perdere tempo.
 
Tentò Francesca, ma lui la degnò di poca attenzione perché aveva già spostato lo sguardo su Gaia Fallani che in quel momento aveva sviluppato una chissà quale capacità cognitiva utile a farle venire in mente, in modo repentino, una brillante idea.
 
-Potremmo vederci il pomeriggio! Può chiedere il permesso alla preside.
 
Il professore sorrise raggiante ed indicò Gaia con l’indice destro, -Sei un genio!-, osò affermare.
 
-Fallani, risparmia il tuo genio per le interrogazioni di fisica-, intervenne Francesca incrociando le braccia al petto, acida, come sempre. –Io dovrei studiare il pomeriggio.
 
-Infatti!-, cantilenò Gaetano. –Non tutti spendono il pomeriggio a farsi la manicure.
 
-Sempre meglio di stare gobbi sui libri!-, esclamò con perfidia Gaia, facendo svolazzare con un tocco della mano i suoi boccoli biondi.
 
Che serpe.
Che arpia.
Che strega!
 
-Potremmo rappresentare Macbeth e tu potresti fare una delle tre streghe-, fece finta di proporre Francesca, correndo in aiuto del suo migliore amico, assottigliando gli occhi e osservando la megera con disprezzo.
 
-E tu la seconda!
 
-Ragazzi, basta!- intervenne finalmente il professore, che fino ad allora spostò gli occhi da un lato all’altro della classe per seguire meglio il battibecco, come se fosse stato lo spettatore di una partita di ping-pong.
 
Marco Fanti scese dalla cattedra avanzando fino al fondo dell’aula.
 
Francesca ritornò a scrivere.
Adoperò una calligrafia molto minuscola, da far sanguinare gli occhi.
 
Quella era un’iperbole.
Il suo professore avrebbe saputo riconoscerla?
Ne dubitò.
 
-Possiamo vederci il pomeriggio solo per qualche ora. Due al massimo.
 
-Professore?-, domandò Ettore Ciaglia alzando con timidezza una mano, -Posso chiedervi perché ci tenete tanto a farlo?
 
Francesca odiava tanto quando si dava agli insegnanti del “voi”.
Quasi grugnì indispettita.
Lo trovava poco musicale.
 
A Francesca Molinari non andavano giù parecchie cose.
 
-La professoressa Giusti mi ha detto che aveva già in mente uno spettacolo teatrale per voi; ha detto che ne fa uno ogni anno e che non vi aveva mai coinvolti-, si giustificò lui, poggiandosi al termosifone spento.
 
-Ma perché proprio Romeo e Giulietta?- domandò ancora Ettore.
 
Francesca alzò lo sguardo verso il professore, aspettando una risposta.
 
Lui fece spallucce, -La vostra compagna ci tiene-, rispose indicando Rita.
 
-Propongo di votare-, si intromise Francesca.
 
Il professore le sorrise, complice.
 
Francesca volle deglutire, ma non aveva saliva a disposizione.
Non più.
 
Le si avvicinò con passo spedito, tenendo le mani nelle tasche del jeans, mentre farfugliava: -Rappresentante di classe, eh? Siete sempre molto democratici. Troppo.
 
Quando le fu vicino, si sporse verso di lei, per farle presente un dato oggettivo di rilevante importanza: -Tanto da non saper contare quanti esponenti di sesso femminile ci sono e quanti di sesso maschile.
 
Lei lo osservò, cauta.
 
Poi lui indicò il suo banco e disse: -Ho notato che non ne hai affatto bisogno-, rivolgendosi al registro, che afferrò un secondo più tardi per poi avviarsi verso la cattedra.
 
Francesca incrociò le braccia al petto, astiosa, fin troppo.

Quello era il suo professore.
Insomma, sì, era giovane.
Ma era pur sempre il suo professore.
Gli doveva il giusto e dovuto rispetto.
 
Sospirò, cercando di trattenere il vulcano in procinto di eruttare; poi disse, pacata: -Nutro molta fiducia nella mia classe.
 
Lui si voltò verso di lei, perché fino ad un attimo prima aveva dato le spalle ai suoi alunni per frugare nella sua ventiquattrore, seppur adoperando un tono asciutto, come se stesse insegnando un qualcosa di enormemente scontato a una bambina poco sveglia, esclamò con uno sguardo interdetto: -Non esiste la classe!
 
Francesca accusò il colpo.
Si fece forza per non boccheggiare e serrò le labbra.
Aveva ragione.
 
Lì non c’era una classe.
Lì c’erano venti teste, venti teste pensanti.
Venti teste, che pensavano ognuna per se stessa.
 
-Allora, ragazzi-, declamò il professor Fanti, -quanti di voi vogliono rappresentare “Romeo e Giulietta?”
 
Si levarono in aria dodici mani.
La maggioranza.
 
Probabilmente il professore si voltò a fissarla, ma Francesca fece finta di essere occupata a trascrivere gli ultimi due nomi. Poi si levò in piedi in silenzio ed iniziò a distribuire i foglietti con il nastro adesivo che aveva personalmente tagliuzzato e incollato sui fogli per tutti i suoi compagni, per trovarsi qualcosa da fare, pur di non seguire il professore; il professore che lei aveva screditato. Dinanzi ad un’intera classe.
 
No, la classe non esisteva.
Dinanzi a venti teste. Venti teste pensanti.
Di cui dodici non la pensavano sicuramente come lei.
 
Il professor Fanti si fece prestare un libro di testo e iniziò a sfogliarlo; diede un’occhiata ai voti e chiamò Gaetano alla cattedra, per farsi ripete un po’ il programma affrontato precedentemente.
 
Disse che chiamava proprio lui perché aveva il voto più alto.
 
Non era vero.
 
Gaetano aveva 9.
 
Ma Francesca aveva 10.
 
Le venti teste pensanti ne erano consapevoli, ma preferirono starsene in silenzio.
 
La loro brillante rappresentante aveva fallito. Miseramente fallito.
 
Francesca si accucciò sulla sedia temendo che la sua percentuale di credibilità fosse calata.
Perché il prof non aveva chiamato lei?
Non voleva troppe rogne?
La considerava fastidiosa?
E per questo motivo l’avrebbe punita abbassandole la media?
 
Matilde allungò una mano afferrando il braccio di Francesca per poi accarezzarglielo.
 
La campanella suonò e il professore si levò in piedi. Raccattò le sue poche cose e le infilò nella ventiquattrore.
 
-Ragazzi,- annunciò puntando il dito verso la lavagna, -cosa c’è scritto qui?
 
Tutti portarono lo sguardo verso il secondo principio della dinamica, che Gaia aveva precedentemente scritto in modo errato durante l’interrogazione di fisica, utilizzando le lettere maiuscole anche per la massa e l’accelerazione.
Vi era impressa una formula.
 
F=MA
 
-Effe è uguale ad emme per a-, precisò Ettore con spavalderia.
 
-E che cos’è?- continuò il professore fingendosi ignorante.
 
-Il secondo principio della dinamica-, rispose prontamente Gaetano, prima di aggiungere:-E no, non siamo indietro con il programma. Il professore l’ha saltato lo scorso anno. Forse per mancanza di attenzione, non so.
 
Marco Fanti sghignazzò.
 
-E cosa significa “dinamica”? Dovreste saperlo: frequentate il Liceo Classico.
 
E fu ancora Gaetano a regalare una risposta alla domanda dell’insegnante: -Deriva dal greco e significa “forza”.
 
-Interessante-, commentò fra sé e sé il professore.
 
Francesca intuì che il suo insegnante conosceva già il significato di quella parola.
 
-Mi raccomando: è così che dovrete essere con me, dinamici; non voglio lamentele, non sposto nessun compito né alcuna interrogazione. Lavorerete con forza, per l’appunto, ogni pomeriggio per lo spettacolo teatrale. Domani ci vediamo? Sì? Bene, organizzeremo gli appuntamenti pomeridiani. Buona giornata.
 
Ah, quelle erano le sue raccomandazioni per un buon anno scolastico.
Un buon anno scolastico con lui e il suo insegnamento.
 
Voleva quei ragazzi dinamici?
Sicuramente i commenti a sfondo sessuale di Rita Neri furono dinamici.
Puntuali.
Fuori luogo.
E tremendamente condivisi da ogni membro femminile della classe.
 
Francesca avrebbe solo voluto sbarazzarsi di quell’uomo, per poi occultarne il cadavere.





 

Ave, popolo.
Avevo inizialmente cancellato questa storia per motivi...di percorso, diciamo. 
La ripropongo ora, dopo un paio di mesi.
Spero vi piaccia.
Alla prossima!
 

 
 
   
 
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