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Autore: icered jellyfish    04/07/2014    4 recensioni
[ THE BIG FOUR | CROSSOVER – Rise of the Guardian/Tangled/How to train your dragon/The brave ]
| Nonostante il pizzico di rabbia verso se stessa – nonostante il frenetismo della sua camminata e nonostante i lineamenti contratti del suo volto –, Rapunzel era la primavera. |
| Si sentiva come l'autunno; come una foglia secca staccatasi dal ramo di qualche albero – forzata, purtroppo, ad accettare le decisioni direzionali della corrente, ad accettare la balia del vento. E in fondo, lui l'autunno un po' lo era. |
| Erano perfettamente dello stesso colore, come se con l'uso dello strumento contagocce ne fosse stato estratto dalle sue iridi l'esatto codice – e forse non se ne accorgeva nemmeno, di quanto contrastante apparisse in uno scenario torbido come quello, perché Jack ricordava l'inverno. Jack era l'inverno.
| [...] essere stata per più di quaranta – interminabili – minuti chiusa dentro quel locale, le aveva fatto scordare cosa si provasse ad essere coccolata da una coperta luminosa come quella – ed era assurdo che lei, l'estate in persona, con una giornata come quella si ritrovasse prigioniera in quattro mura per così tanto tempo, perché lei, l'estate, lo era davvero. |
Genere: Generale, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hiccup Horrendous Haddock III, Jack Frost, Merida, Rapunzel
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Sabato, è solo un giorno della settimana







C A P I T O L O   U n i c o

“ Sabato, è solo un giorno della settimana







Se anche solo una nuvola avesse osato infiltrarsi nell'intensa ed enorme pennellata azzurra del cielo di quel sabato mattina, probabilmente al posto di semplici e delicate decorazioni, sarebbero apparse più come fastidiose macchie di sporco sopra la perfetta monocromaticità di una tela accurata ed uniforme.
Le iridi boschive di Rapunzel – radiose, come le foglie più alte degli alberi, le uniche che riuscivano ad essere accarezzate dalla luce – osservarono velocemente e con nervosismo lo schermo appena illuminato del telefono, riducendola a constatare ancora una volta quanto in ritardo fosse per la sua lezione di arte settimanale.
Ravviò dietro l'orecchio una ciocca dei suoi impossibili capelli dorati – un interminabile fiume di splendido grano baciato dal Sole –, per poi toccarsi distrattamente la spessa intrecciatura che teneva unita l'intera chioma – forse per constatarne la sua integrità, o forse per avvertire sotto i polpastrelli le incurvature dell'acconciatura come sorta di fugace anti–stress.
Era uscita di casa fuori orario di 
esattamente cinque minuti, e questo in realtà non avrebbe comportato grandi variazioni sulla sua puntualità, se solo la sede del corso non fosse stata momentaneamente spostata, per un mese, dalla parte opposta della città, ma quei cinque minuti ora complicavano tutto, perché erano stati sufficienti a farle saltare tutta la sua organizzazione.
L'avevano riempita di fretta, costringendola ad adoperarsi in quella che riteneva essere una ridicola mezza corsa – una camminata accelerata, una sorta di piccola marcia che la obbligava a tenere duri i muscoli delle gambe fino a farle sentire addosso la stanchezza già dai primi cento metri.
Respirò diverse boccate d'aria, asciugandosi le piccole gocce di sudore formatesi accanto alle tempie per via del caldo martellante, e maledicendosi mentalmente, per non aver impostato la sera prima la sveglia sul cellulare – ed era snervante da morire, non avere nessun altro all'infuori di lei, da incolpare.
Nonostante il pizzico di rabbia verso se stessa – nonostante il frenetismo del suo portamento e nonostante i lineamenti contratti del suo volto –, Rapunzel era la primavera.
Lo era nella perenne luce dei suoi occhi – curiosi e vivi, incapaci di non emanare coinvolgimento e freschezza, inetti nell'arte dell'inganno –, e lo era attraverso le sue labbra – due piccole e morbide fragole, chiare e vellutate come petali di angelici fiori di un campo accarezzato dal vento tiepido.
Lo era sempre, lo era con tutta la sua linfa vitale, con i suoi zigomi pieni e colorati appena della più lieve ed innocua tonalità di rosa – boccioli pronti a sbocciare per affacciarsi sul mondo.
Lo era. Lo era e basta, senza spiegazioni che giustificassero il tutto, perché non c'era bisogno di chiarimento alcuno al riguardo, e l'unica che non se ne rendeva conto – né di cosa rappresentasse né il motivo –, era proprio lei.
I suoi piedi – avvolti da quotidiani sandali in pelle scura – continuavano a percorrere tutte le mattonelle rossicce del marciapiede di corso Roma, ma per quanto il suo passo non fosse rallentato – anzi –, tutta la sua fretta e il suo impegno non erano stati ripagati a dovere, poiché accanto a sé la grossa figura di un eco–bus ad ampie vetrate la superò prima ancora che potesse rendersi conto che era proprio quello che doveva prendere. Metri più in là, la fermata sembrava una meta ormai irraggiungibile, ma se si fosse lasciata abbattere da quell'idea e dalla rassegnazione, probabilmente Rapunzel quel sabato avrebbe saltato la sua amata lezione settimanale – e questo non lo avrebbe permesso, perché ci teneva troppo per rinunciare anche solo ad un appuntamento.
Aumentando gradualmente l'andatura, cominciò a correre verso il mezzo ormai fermo davanti alla panchina di sosta. La gente aveva iniziato a scendere e a salire, ma lei era ancora troppo lontana per poter anche solo sperare di giungere in tempo, sicché decise che annunciare verbalmente il suo arrivo, sarebbe stato l'ultimo tentativo rimastole, arrivata a quel punto.
Un solo «aspetti!» era bastato a farsi notare, e per sua fortuna il conducente si dimostrò gentile al punto di attendere che lei arrivasse – salvandole, senza saperlo, il corso di disegno.
Ringraziando e tirando un sospiro di sollievo, Rapunzel si mise a sedere sul primo sedile accanto al finestrino e osservò, ancora una volta, la limpidezza del colore del cielo, bramando, inconsciamente, di potersi appropriare di quel colore tanto puro e incontaminato – e mentre alle ore 10.15 in punto l'autobus ripartì, lei abbassò lo sguardo per scrostare un pezzetto di smalto dalle unghie.
    Hiccup non era certo di aver trovato il miglior part–time possibile, ma considerando i suoi pressanti impegni universitari, quello era l'unico lavoro capace di fornirgli qualche incasso senza rubargli il tempo che non aveva.
Il piccolo chiwawa color crema davanti a lui saltellava con una cadenza ritmica quasi fastidiosa – le sue gambette sottili si muovevano in maniera fin troppo scattante per i suoi gusti, e l'enorme testa che sovrastava quell'insensato corpicino da topo, contribuiva ad incrementare la sua antipatia nei confronti di quella particolare razza di cane.
Masticò delicatamente il labbro inferiore, per poi bagnarseli entrambi appena con la lingua – scocciato, dalla perenne presenza di quel cagnetto nella sua vita, ma la Signora Button gli pagava fin troppo bene quell'ora al giorno, per convincerlo ad rinunciare a fare da dog–sitter al piccolo Zanna Curva.
Da sempre lo aveva ritenuto uno stupido nome – e quindi perfetto, per quella palla di pelo rasato – e per quanto una sarcastica battutina a riguardo avrebbe tanto voluto farla, il bizzarro canino che spuntava più lungo di ben un centimetro fuori dalla bocca della bestiola, gli forniva purtroppo ogni risposta ai suoi possibili disappunti – senza contare che, ricordandosi ogni volta il suo di nome, re–ingoiava automaticamente ogni parola nella sua bocca ancor prima che provasse a fuoriuscire.
Sbuffò, rivolgendo gli occhi – muschio soffice ed umido, come quello vicino ai laghi più illibati delle foreste montane – 
al cielo, e si lasciò pervadere dalla perfezione di quella giornata tanto azzurra da far male alle cornee.
Iniziò a giocherellare con le due treccioline che aveva tra i capelli castani – non ricordandosi nemmeno da quanto tempo fossero lì in mezzo e per mano di chi –, ripercorrendo con meticolosa attenzione ogni loro singola ciocca – captando tattilmente tutti i dettagli della loro tessitura, come se volesse contare ogni accavallamento che le componeva.
Lo rilassava incredibilmente quella procedura involontaria – in cui incappava diverse volte al giorno – e per motivi a lui sconosciuti, ogni volta lo portava a pensare alle più svariate ed assurde cose.
Non c'erano ostacoli a disturbare la monotonia cromatica sopra di lui, e questo lo aggradava più di quanto se ne rendesse conto – uno sfondo così ampio e privo di sbavature, era lo scenario perfetto per immergere qualsiasi tipo di fantasia o pensiero, così tanto che si sentiva addirittura parte di esso, come se ci stesse volando in mezzo, come se ne fosse padrone.
Un drago, ci sarebbe voluto un drago da cavalcare, per affrontare l'immensità di quello spazio più grande e sorprendente di quanto potesse immaginare, per arrivare fino al confine di quell'apparente pace e incontrare così quello della tempesta – tuffandosi, sotto la fitta pioggia di lacrime delle nuvole, per poi uscirne e ritornare nella quiete del paradisiaco celeste accanto.
Un viaggio alle prese con l'aria che scivola sulla pelle, con l'adrenalina della terra che manca sotto i piedi, e con il senso d'infinito a gonfiare i polmoni – e quell'involucro dell'anima che comunemente la gente chiama corpo –, ma per quanto conoscesse già di suo l'impossibilità di quell'assurda e sospirata fantasticheria, uno sgradevole odore lo riportò bruscamente alla realtà – ad uno scenario senza poesia.
Sciolse le spalle, lasciandole cadere rassegnatamente giù e abbandonando ogni irrealistico sogno nella miscela di azoto e ossigeno – arrendendosi, davanti allo schiaffo in pieno volto che la mediocrità di quel suo periodo fatto solo di mastodontici libri di testo ed esami gli aveva appena dato, davanti all'impossibilità di permettersi, almeno per il momento, il lusso di rinunciare a raccogliere con un sacchetto quelle terribili e disgustose noccioline rilasciate a terra poco prima di svoltare in corso Roma,
esattamente alle ore 10.15.
Si sentiva come l'autunno; come una foglia secca staccatasi dal ramo di qualche albero – forzata, purtroppo, ad accettare le decisioni direzionali della corrente, ad accettare la balia del vento. E in fondo, lui l'autunno un po' lo era.
Lo era con le sue miriadi di lentiggini sul volto e sul corpo – briciole di caldo terriccio che impreziosivano la sua pelle olivastra –, con la sua capigliatura sbarazzina – fogliame ricolmo di riflessi rossicci e color corteccia.
Lo era con il verde selvaggio dei suoi occhi – quello che si poteva riscontrare solo ed esclusivamente nei boschi a fine settembre, tra le radici incastrate nel terreno vivo anche se stanco.
Lo era. Lo era e basta, senza spiegazioni che giustificassero il tutto, perché non c'era bisogno di chiarimento alcuno al riguardo, e l'unico che non se ne rendeva conto – né di cosa rappresentasse né il motivo –, era proprio lui.
Convincendosi ancora una volta che sarebbe bastato tenere duro ancora per un paio d'anni – almeno fino alla laurea, almeno fino alla libertà –, si piegò dunque, per afferrare e impacchettare il regalo di quella dolce creatura che ora lo osservava con apparente soddisfazione e superiorità – con il musetto sfibrantemente, innocentemente snob.
Sforzò un sorriso sarcastico e velatamente omicida nei suoi confronti, per poi rialzarsi e buttare nel cestino dell'umido il suo magnifico dono – anche se lì dentro, avrebbe preferito infinitamente di più buttarci il mittente.
    Jack aveva ormai deciso che si sarebbe rimesso in pari – e non ci sarebbe stato incrocio stradale, semaforo o bisbetico passante che lo avrebbe fermato, perché quel che era successo era una tragedia, e lui adesso avrebbe rimediato ad ogni costo.
Lo schermo rettangolare della 
PSP che teneva stretta fra le mani, raffigurava un complesso scenario innevato e piuttosto agguerrito – condito di quelli che sembravano essere pericolosi nemici e svariate difficoltà.
Il suo volto squadrato trasudava un meticoloso impegno da ogni poro – forse anche troppo, poiché più che impegno il suo sembrava essere ossessivo accanimento.
Non avrebbe mai perdonato quell'aggeggio elettronico per avergli fatto uno scherzo così infimo come quello della sera prima, perché bloccarsi dopo innumerevoli avanzamenti ed evoluzioni – dopo esponenziali incrementi di punti esperienza e magia –, non era stato affatto un risvolto di suo gradimento, ma in fondo lo considerava l'amore della sua vita, e nonostante tutto non era stato in grado di fargli del male – di punirlo fisicamente con pugni o sbattendolo da qualche parte.
No, non lo avrebbe mai fatto, perché senza di lei le sue giornate sarebbero risultate meno speziate ed interessanti – e non gli importava se sua madre non la ritenesse una buona compagnia e la considerasse folle e sbagliata per un ragazzo della sua età, perché se lui, in quel momento,
era fuori casa, era solo per fare la spesa che lei gli aveva ordinato di fare. E avrebbe solo dovuto ringraziarlo, per questo.
Non ricordava esattamente dove avesse messo il biglietto con appuntata l'intera lista delle cose da comperare, ma sinceramente non era interessato più del tanto a ricordarsi, in quell'istante preciso, quale fosse la collocazione nei suoi pantaloni di quel pezzo di carta – e se anche lo avesse dimenticato, aveva pur sempre con sé il cellulare. Forse.
Prima un tasto e poi un altro, velocemente, scattante, per finire poi con l'usarli entrambi ripetutamente per una combo perfetta che lo soddisfò più di quanto già non fosse evidente dall'esterno – perché lui amava il centro dell'attenzione, ed essere osservato, notato, non lo intimidiva affatto.
Scosse trionfante la chioma nivea, dando vita a mille riflessi argentei e color polvere di Luna, per poi posare lo sguardo, sopra di lui, nello stesso azzurro dei suoi occhi.
Erano perfettamente dello stesso colore, come se con l'uso dello strumento contagocce ne fosse stato estratto dalle sue iridi l'esatto codice – e forse non se ne accorgeva nemmeno, di quanto contrastante apparisse in uno scenario torbido come quello, perché Jack ricordava l'inverno. Jack era l'inverno.
Lo era con la sua pelle bianca e fredda – coi suoi lineamenti scolpiti come se fosse di gelido e duro ghiaccio –, con la leggiadria spirituale del suo esile fisico.
Lo era con il candore naturale della sua capigliatura assurdamente invivida – poiché ci aveva pensato la vita a volerlo così, come un cristallo di neve, come una violenta bufera pronta a stravolgere tutto e tutti con il suo solo passaggio, in ogni occasione.
Lo era. Lo era e basta, senza spiegazioni che giustificassero il tutto, perché non c'era bisogno di chiarimento alcuno al riguardo, e l'unico che non se ne rendeva conto – né di cosa rappresentasse né il motivo –, era proprio lui.
Mancavano solo pochi livelli prima di raggiungere finalmente il traguardo perduto, e anche nell'attraversare le strisce pedonali di corso Roma, alle 10.15 in punto, la sua compulsiva attenzione continuò a rimanere incollata sul combattimento in atto sullo schermo della console, perché quella volta avrebbe salvato ogni avanzamento – e né il pullman appena partito accanto né lo scodinzolare del chiwawa al suo fianco, lo avrebbero distratto dal suo obiettivo.
    Merida non poteva credere a tutto quel che stava accadendo all'interno del Bar Randelli – e a tutte le scuse che la commessa del bancone della pasticceria le stava cercando di rifilare.
Eppure era stata chiara, il giorno prima, nell'ordinare tre grossi vassoi di pasticcini freschi e personalizzati sulla base delle particolari esigenze di sua madre, quindi davvero non riusciva a comprendere per quale motivo la ragazza in divisa color pastello di fronte a lei, si agitasse tanto col suo gesticolare senza senso – col suo comporre frasi disarticolate e totalmente prive di accezione, arrancando goffe ed improbabili difese
sulla professionalità del suo esercizio e la sua persona.
La torta che le stava porgendo tra le mani non avrebbe salvato la situazione – e nemmeno le altre dieci proposte nel freezer vicino –, perché per quanto deliziose apparissero, gli ordini della regina di casa Archer, erano stati chiari ed pretenziosi – e solo lei sapeva cosa avrebbe significato tornare a casa con un palese arrangiamento dell'ultimo minuto.
Quella donna ci teneva fin troppo a questioni di quel calibro – all'impatto che quella dolce portata conclusiva avrebbe avuto con la sua presenza in tavola – e, se fosse dipeso dalle sue decisioni, Merida si sarebbe sinceramente accontentata di una delle torte offerte come alternativa, ma purtroppo per lei – e per la pasticcera –, la deliberazione non poteva in alcun modo essere sua.
Certamente la torta che aveva davanti era qualcosa di straordinariamente elaborato – degna delle più esigenti richieste e orgoglio di un pranzo o una cena perfetta –, perché con tutte le straordinarie e minuziosamente finiture disposte su ogni superficie della stessa – con tutte le raffinate guarnizioni a caratterizzarla persino sui profili –, non c'era dubbio alcuno che sarebbe stata calzante per simboleggiare il compleanno dei suoi tre piccoli fratelli, ma purtroppo, per quanto discrete, le dimensioni non sarebbero state sufficienti a soddisfare la considerevole quantità di invitati all'evento – e a quel punto non c'era rimprovero o accusa che avrebbe risolto quel problema che sembrava non avere ormai alcuna via d'uscita.
Sbatté le palpebre lentamente – coprendo, per qualche frazione di secondo, le sue iridi di ortensia blu, la cavansite di cui parevano esser fatti i suoi occhi – catturando in contemporanea una profonda boccata d'aria, riempiendosene il petto per poi rigettare fuori un respiro liberatorio.
Guardò fuori dalla vetrata accanto alla porta d'ingresso; il cielo che sovrastava corso Roma era sereno e brillante come non lo ricordava da tempo, ed essere stata per più di quaranta 
– interminabili – minuti chiusa dentro quel locale, le aveva fatto scordare cosa si provasse ad essere coccolata da una coperta luminosa come quella – ed era assurdo che lei, l'estate in persona, con una giornata come quella si ritrovasse prigioniera in quattro mura per così tanto tempo, perché lei, l'estate, lo era davvero.
Lo era con i fuoco tra i suoi capelli – lunghissimi ed infiniti riccioli incandescenti, una valanga fatta di pericolosa lava dal quale era difficile distogliere lo sguardo o anche solo pensare di salvarsi.
Lo era col suo esuberante e contagioso sorriso – dal quale filtrava la più rovente e meravigliosa risata, capace di far avvertire l'infrangersi del mare sugli scogli, capace di ricordarti quanto meraviglioso e irraggiungibile fosse il Sole che scurisce la pelle.
Lo era col suo essere ustionante in ogni cosa facesse, col suo essere inafferrabile nonostante i continui inseguimenti e il desiderio di possederla – di tenerla per sempre per sé, felicemente ed egoisticamente. Col brillare della porcellana di cui sembrava essere fatta, coi colori dei suoi effervescenti abiti.
Lo era. Lo era e basta, senza spiegazioni che giustificassero il tutto, perché non c'era bisogno di chiarimento alcuno al riguardo, e l'unica che non se ne rendeva conto – né di cosa rappresentasse né il motivo –, era proprio lei.
C'era sempre un modo per sfuggire dai guai, e Merida
in fondo riteneva se stessa la persona più distratta al mondo. Mettendosi una mano sulla coscienza – conscia che un errore come quello sarebbe stata perfettamente capace di farlo anche lei –, mise l'altra in tasca per tirar fuori il suo telefono ormai deteriorato dalla sua innata disattenzione.
Forse non era quel che sua madre si sarebbe aspettata per festeggiare gli importanti quattro anni dei suoi tre giovani combina guai, ma mancava ormai troppo poco per trovare scappatoie migliori di quella – e per quanto qualcuno si sarebbe domandato per quale motivo gli Archer avevano optato per due torte completamente differenti tra loro, alla festa, valeva la pena tentare di fare una telefonata a casa per proporre il suo compromesso – e, arrivato ormai un orario così allarmante come le 10.15, dopo il sesto, disperato squillo, dall'altra parte della cornetta finalmente qualcuno le rispose.
    Se l'autista dell'eco–bus non avesse avuto la gentilezza di aspettare Rapunzel alla fermata, se il cane della Signora Button non avesse bloccato Hiccup poco prima di girare l'angolo, se la PSP di Jack avesse salvato i dati dei suoi progressi la sera prima, e se la commessa del Bar Randelli non avesse confuso l'ordinazione di Merida con quella di qualcun'altro, per la prima volta in assoluto, alle 10.15 di quel particolare e comune sabato dell'anno, primavera, estate, autunno e inverno, forse, si sarebbero incontrate.






F I N E




    » N O T E    A U T R I C E ;

Io inizio sempre descrivendo il cielo o qualche paesaggio. Vabbeh.
Oddio, non ci credo che finalmente ho finito questa shot – così come non riesco a credere di essere ritornata nella sezione. x°
Mi mancava DA MORIRE scrivere sui The Big Four, e mi faceva male al cuore entrare nella sezione e non ritrovare più in prima pagina qualcosa di mio, così, eccomi qua! Con una nuova, piccola storia che mi aspettavo sarebbe venuta fuori molto più corta hahaha.
Dettagli, però; infatti spero possiate solo essere contenti di questa lunghezza a me inaspettata! E soprattutto spero che il risultato – l'intero contenuto – possa esservi piaciuto o anche solo essere stato appena di vostro gradimento. c:
Cosa dire di più specifico, ora... Ho voluto rappresentare Rapunzel, Hiccup, Jack e Merida come quattro perfetti estranei che però simboleggiano, con ogni fibra del loro corpo, le quattro stagioni dell'anno – e trovavo assai carina l'idea che, se si fossero incrociati, si sarebbe verificata l'anomalo, esclusivo ed impossibile incontro, di questi periodi dell'anno tutti assieme. Figurativamente parlando, naturalmente. x°
Spero siano stati percepibili e piacevoli i riferimenti ai loro film di origine – per Rapunzel la pittura, per Hiccup il voler volare con un drago e il nome del chiwawa, per Jack la neve che qui ho inserito come scenario del gioco sulla play station e l'amore per lo stare al centro dell'attenzione/essere notato, e per Merida i pasticcini – e, ancor di più, spero sia stato un successo questo stile un po' diverso da quello che sono solita usare.
Qui ho infatti 'raccontato' in maniera bizzarra quattro diversi avvenimenti che sono accaduti nell'arco dello stesso momento di una giornata qualunque – un normalissimo sabato –, e mi sono lasciata ispirare dal film 'Il curioso caso di Benjamin Button' – più nello specifico, dalla parte in cui la voce narrante parla dell'incidente che manda in ospedale Daisy Fuller.
Mi aveva/ha davvero affascinato l'intreccio di tutti quegli avvenimenti, che sono stati capaci di determinare la sorte di una persona, e quindi baboh, ho voluto provare anche io a fare qualcosa di simile. x°
Omaggio al film, è il cognome della sciura padrona di Zanna Curva – Button, ovviamente.
Oh, Archer, come intuibile, è 
per ovvi motivi  il cognome che ho voluto assegnare a Merida. Lo avevo già scritto in un'altra fiction che, per quanto mi riguarda, utilizzerò sempre questo. Quindi è giusto per specifica. x°
Come soundtrack accompagnatrice, ho ascoltato per la maggior parte del tempo Cosmic love di
Florence + The Machine, quindi potrei considerare questa canzone un po' la colonna sonora di tutto lo scritto.
Daje, saluto ora, che sennò come al solito supero la lunghezza della storia, con le note autrice. x°
Un grazie sincero anche solo per le vostre silenziose ed eventuali letture, se voleste lasciarmi un commentino, non potreste che farmi piacere però. :))
Per tutti quelli che hanno aggiunto la raccolta Tè alla vaniglia alle preferite/seguite/ricordate, un grazie anche a voi! La raccolta non è stata affatto abbandonata, è solamente in standbye per il momento. Siate fiduciosi, la porterò avanti – e non manca molto al suo termine.  ;D
[ Uh, domandina così, random: quanti di voi seguirebbero una long fic scritta da me, con un original character, su Il Pianeta del Tesoro? Ce l'ho pronta fatta e finita sul mio pc, e non so se pubblicarla o meno. o: ]
Adios now, e alla prossima! ♥


© a u t u m n
   
 
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