Chocolat.
Capitolo 1 -
Pulito, profumato, giacca, cravatta e ventiquattr'ore. Senza bicchiere di Starbucks in mano, però.
Aria
limpida, libera da smog.
Oh, che infinito culo.
Fu questa la
prima cosa che notai ed il mio primo commento su quel luogo, mentre
scendevo dalla mia bellissima BMW 650i rossa tirata a lucido, la mia
ventiquattr'ore stretta in mano, l'auricolare all'orecchio e gli
occhiali da sole ad impedirmi che la luce presente in quel paese
localizzato in un ben poco chiaro "culo al mondo" mi
ferisse le cornee. Davvero, il Sole francese era terribile.
Le
mie scarpe in pelle lucida si posarono sul selciato a mattoncini
grigi, mentre mi guardavo intorno con un sopracciglio sollevato:
alberi, case, archi - Ehy, archi? Archi architettonici? Oh, esistono
ancora?-, persiane – persiane? – e caratteristici
portoni blu.
Di legno.
Ma dove diamine ero finito? Nella patria
dell'anticristo?
Parigi, dov'ero stato fino a sei ore di auto
prima, era anche accettabile per un newyorkese assuefatto allo
Starbucks come me; auto, vetrine, persone al cellulare, uomini con
giacca e cravatta e donne su vertiginosi tacchi a spillo... in quel
posto, invece, a Monpazier, un paesino di poco più di 500
abitanti
in Aquitania, non c'era niente di tutto questo. Fruscii del vento, un
solo uomo dal volto stropicciato dalle rughe che teneva un bastone
accanto a sé, seduto su di una panchina all'ombra, e alberi.
Silenzio, poi, tranne il cinguettio degli uccellini. Strano: a New
York c'erano solo i piccioni. E loro facevano schifo, erano parassiti
con le ali. Peggio dei topi.
Sospirai profondamente, umettandomi
le labbra prima di estrarre il mio Blackberry dalla tasca per
controllare se avessi ricevuto chiamate di qualche genere o messaggi
che mi erano sfuggiti. Mi morì qualcosa dentro non appena mi
accorsi
che non c'era campo. Sentii un pezzo del mio cuore disintegrarsi
distintamente mentre sollevavo in aria l'apparecchio, mi spostavo di
un paio di passi, ma niente. E con quelle tacche di campo nulle non
avrei avuto neanche Internet.
Isolato.
«Merda.» Imprecai a
denti stretti, passandomi nervosamente una mano tra i capelli. Solo,
isolato e sperduto. Neanche Heidi si era presa un'inculata
così
grande. Perlomeno lei aveva quella capra a farle compagnia, io
neanche quella.
E come se non bastasse, in quel modo non avrei
neanche potuto avvertire Susan del mio arrivo qui, né avrei
potuto
salutare Indio ed Exton come invece avevo promesso loro.
Ma
ovviamente chi se ne fregava della vita privata di Robert! Tanto a
chi sarebbe toccato andare in un luogo sperduto tra i boschi se non a
me? Kilmer era stato categorico su chi mandare in Francia,
probabilmente per togliermi dalle palle, tra l'altro. Che gli stavo
sul cazzo era una verità universalmente conosciuta.
Per cui
adesso mi trovavo a dover studiare nei minimi particolari una
bottega, doverci scrivere una recensione e conoscere le tecniche di
lavoro dei proprietari. Due inglesi, se non sbagliavo. Il
ché era un
bene, perlomeno non avrei avuto problemi per farmi comprendere in un
francese smozzicato a denti stretti – quella lingua del cazzo
tutta
R mosce ed eleganza. Una lingua da froci, io l'avevo sempre detto.
No, ehy, niente in contrario ai gay. Il mio migliore amico, Chris, lo
è.
Ma tornando a noi, lì, in quella piazza surriscaldata dal
sole, c'era l'ingresso dell'hotel dove avrei alloggiato per tutto il
mio soggiorno a Monpezier – circa un mesetto, quindi. Un mese
sperduto nel nulla dove il massimo passatempo a cui avrei potuto
ambire sarebbe stato contare quanti mattoncini c'erano sotto ai miei
piedi.
Mi ritrovai a sospirare pesantemente mentre già sentivo
la mancanza della mia televisione e mi dirigevo a passo sostenuto
verso la porta sopra alla quale l'insegna in legno recava la scritta
"Hôtel
de France". Fantasiosi nel nome, niente da dire. Si erano
sforzati per essere originali.
Ma che potevo pretendere da quel
posto, se neanche ero sicuro che avessero l'acqua corrente calda?
Arrivato alla porta, comunque, la mano non occupata dalla
valigetta si pose sulla maniglia, permettendomi a quel modo
l'ingresso nell'albergo. Un campanello tintinnò, ed
evidentemente
era il miglior metodo che possedessero lì per avvertire
dell'arrivo
di un nuovo cliente.
Mi guardavo intorno mentre avanzavo nella
piccola ma accogliente e colorata hall, per poi giungere al bancone e
prendermi gli occhiali da sole per portarmeli sopra la testa.
Passò
qualche momento prima che una signora bassa e grassoccia, con due
gote rosse come peperoni ed i capelli raccolti con una pinza in
maniera scompigliata, mi rivolgeva un "bonjour!" a dir poco
trillante. Più del campanello.
Mh, incoraggiante.
Non potei
fare nient'altro se non stirare le labbra in un appena abbozzato
sorriso, prima di rispondere al saluto: «Bonjour
a vous. Je peux parler en anglais?»
Le rivolsi quella manciata di
parole biascicate del più che ristretto vocabolario francese
che mi
ritrovavo, l'accento così pesante di cui mi accorsi perfino
io
stesso. Speravo solo che potessimo comunicare in qualche modo,
perché
le premesse non erano state delle migliori... Ed ora che ci pensavo
era davvero perfetto e coerente con se stesso: un mese da passare da
solo, sperduto in mezzo al nulla, senza campo al cellulare e senza
poter parlare perché nessuno mi avrebbe compreso, nonostante
la mia
lingua madre fosse quella più parlata a livello mondiale.
No, in
realtà forse era il cinese mandarino quella più
parlata, ma chi
diamine se lo cagava il cinese mandarino? Tanto era inutile
continuare a rimuginarci su: non avrei mai avuto un bel soggiorno
come invece aveva tentato di farmi credere Susan. Certo, lei se ne
sarebbe rimasta a Parigi un altro paio di giorni e poi sarebbe
tornata in America. La faceva facile, lei!
E no, se volete
saperlo, a parer mio non ero assolutamente esagerato! Ero abituato
alla vita a New York: ore di punta, eterogeneità della
popolazione e
taxi che passavano ad ogni ora. Qui invece avevo solamente visto un
vecchio ed una donna che mi sorrideva di un sorriso così
tirato e
teso da risultare quasi imbarazzante, per quanto lo rendeva ampio. Mi
ricordava Joker, ed inoltre sospettai per un istante che fosse stata
presa da una paralisi, ed in effetti sarebbe stato un problema,
perché dubitavo esistessero ospedali prossimi. Poi
però parlò,
sollevandomi dai miei timori: «Mais oui, posso comprenderla!
Stia
tranquillo!»
Oh, gioia. Allora forse non ero finito proprio tra
i cavernicoli!
Mi ritrovai a tirare un sospiro di sollievo a
quella rassicurazione, mentre sbattevo per un istante le palpebre e
poi mi sforzavo di fare un sorriso più convincente alla
donna,
annuendo subito dopo e riprendendo nella mia lingua, più
sicuro:
«Oh, perfetto. Ho prenotato una camera a nome
Downey.»
Solo
quando la donna tirò fuori un quaderno vidi le mie speranze
sgretolarsi in maniera inesorabile, proprio davanti a me. Se fino a
cinque secondi prima avevo pensato che forse – e dico forse
– non sarebbe stato così male soggiornare
lì, che forse non erano
poi così tanto primitivi, spaziare lo sguardo impanicato per
il
bancone mi aveva fatto ricredere: non c'era un computer. Come cazzo
era possibile? Mancava poco e persino in Nigeria avrebbero avuto i
computer, ma la donna non ne possedeva uno. E dovevo ammetterlo:
quell'assenza di elementi che facevano parte della mia
quotidianità
mi disturbava. Insomma, come facevano? Come avrei fatto!? Dov'erano
le macchinette del caffè? Dov'erano i mega schermi
pubblicitari? Lì
non c'era niente di tutto il progresso a cui ero abituato.
Però...
perlomeno avevano il telefono fisso.
Dai, Robert: forza e
coraggio.
Oltre
a tutte le mancanze che già avevo ampiamente notato, a
quanto pareva
non avevano i facchini, in quell'hotel. E stupido io che mi ero
stupito, ovviamente.
E per questo fui costretto ad uscire dalla
struttura, riattraversare la piazza assolata, lanciare uno sguardo al
vecchietto ancora immobile sulla panchina, raggiungere l'auto,
prendere il trolley e fare il percorso a ritroso aggiungendoci un
paio di rampe di scale (ma che domande sono? Ascensore? Di che cazzo
stai parlando?), fino a quel punto, nel quale riuscii finalmente a
chiudermi la porta alle spalle con un lungo sospiro esasperato.
Ed
entrai solamente per trovarmi di fronte un letto da due piazze, uno
specchio da parete, una piccola televisione (Andai subito a toccarla
per vedere se era vera e non di cartone. Addirittura era a schermo
piatto, da che sembrava) ed un armadio. Nient'altro. Oh, il comodino
accanto a letto. Un mese della mia vita speso lì dentro. Che
degrado, Rob... non mi aspettavo di certo il cioccolatino sul
cuscino, ma... che degrado, Signore santissimo!
Dopo un ennesimo
sospiro per restare calmo ed aver finito di studiare la stanza con
sguardo sconfitto, estrassi di nuovo il cellulare di tasca, in cerca
di qualche segno di vita. Ma niente. Caput. Morto.
No, adesso
stava diventando davvero un problema l'arretratezza di quel luogo:
dovevo chiamare Susan per informarla che ero ancora vivo, che
diamine! Magari lei si stava facendo la manicure, o i capelli, e non
se n'era neanche accorta, ma se invece lo aveva fatto? Mi avrebbe
rotto un timpano a suon di grida via cornetta. E non mi piaceva molto
quell'eventualità: avevo già abbastanza disagi
senza che ci si
mettesse una sordità parziale.
Insomma, come avrei fatto a
comunicare senza nessun mezzo tranne i piccioni viaggiatori? Dovevo
chiedere alla proprietaria – Jacqueline? Sophie? Uno di quei
nomi
delicatini francesi, insomma – di poter fare una telefonata,
perlomeno avrei tranquillizzato mia moglie. Se lei si fosse ricordata
che io ero partito, ovvio.
Preferii lasciarmi cadere sul letto
con uno sbuffo, gli occhi chiusi, spalmato completamente su quel
materasso a braccia aperte rivolte verso il soffitto.
Dovevo fare
il punto mentale della situazione: dunque, ero arrivato a Monpazier,
gioia e tripudio nei nostri cuori, mi ero sistemato in albergo e,
durante la strada percorsa in auto da Parigi a Monpazier, avevo
inviato un messaggio a Kilmer per informarlo che ero giunto a
destinazione. Lui mi aveva risposto che avrebbe voluto ricevere
un'e-mail la sera stessa con le prime foto della bottega e le prime
informazioni sui proprietari. In breve, una superficiale ed iniziale
conoscenza di ciò a cui puntava. Ed in mancanza di una
qualsivoglia
possibilità di comunicare col mondo esterno, quello moderno,
tanto
valeva mettersi a lavoro già da subito e cercare poi il modo
per
mandargli quella stracazzo di e-mail. Mi riusciva a rompere i
coglioni anche in un altro continente...
Feci schioccare la
lingua contro al palato, e prima di darmi al lavoro, decisi di farmi
una doccia veloce, così da togliermi di dosso la pesantezza
del
viaggio. Il bagno era un buco, neanche Thorin Scudodiquercia ci
sarebbe mai entrato per intero, ma pace fatta. Tanto avevo capito che
andazzo tirava.
Pulito,
profumato, giacca, cravatta e ventiquattr'ore.
Non che fossi
cambiato granché in quella mezz'ora che mi ero concesso per
darmi
una sistemata, ma perlomeno non puzzavo come uno zingaro.
In quel
momento stavo tentando di comunicare con la proprietaria dell'hotel
–
Amélie, ecco qual era il suo nome – tramite gesti
e parole
smangiucchiate in una o l'altra lingua. Alla fine però ero
riuscito
a capire che sì, nella piazza della banca c'era un wi-fi
libero a
cui avrei potuto collegarmi col mio portatile (no, non fate quelle
facce: non ci credevo neanch'io) e che certamente, se non avevo
campo, potevo fare tutte le telefonate che desideravo col telefono
dell'albergo. E fu per questo che chiamai Susan, che mi
liquidò con
"Mh. Mh. Ah, ok. Sì. Perfetto, Robert, a presto.".
Soddisfazioni della vita di coppia, eh? Che invidia... notare il
sarcasmo, tra parentesi.
Comunque, informata mia moglie, potei
finalmente chiedere ad Amélie dove avrei potuto trovare la
bottega
che cercavo. E fortunatamente era ad un paio di strade sopra quella
dell'hotel, avrei potuto andarci a piedi. Oh, che sorpresa. Un posto
così vicino in una così grande metropoli!? Ma chi
l'avrebbe mai
detto!
Fatto era che, nonostante le mie previsioni, riuscii a non
trovare la bottega. E sì, mi sentivo preso per il culo da
tutta la
fottuta Europa, da tutti i dannati francesi e perfino da me stesso.
Ma porca puttana, avrei volentieri cominciato a buttare di sotto dal
Paradiso tutti i santi. Uno per uno. Lì, in mezzo alla
strada. Poi
però individuai il vecchietto. Esatto, quello che avevo
visto al mio
arrivo in quel posto in culo ai lupi.
Mi guardava male, mentre
faceva tre passi su di un mattone. Evidentemente non capiva come
diamine potessi essere ovunque, nel suo paese. Il forestiero arrivato
a disturbare la quiete della tranquilla vita di provincia –
anche
se a mio avviso quel luogo era perfino inferiore alle province, in
quanto a importanza. Però cercavo quel cazzo di negozio, e
mi
servivano informazioni. Fu per questo che mi stampai in faccia un
improbabile sorriso gentile tutto denti, mi tolsi gli occhiali e
avanzai baldanzoso verso di lui, sperando di avere un'aria
bendisposta. In realtà, dall'espressione che mi rivolse,
dovevo
sembrare più un coglione che altro. Non badai a quel
dettaglio,
però, e gli chiesi tutto ciò che mi serviva
sapere. D'altro canto,
ero sulla disperazione andante.
«Oh, bonjour monsieur! Je peux
demander vous un information?» Non avevo idea se mi avesse
capito.
Non avevo neanche idea se fosse una frase corretta, escludendo la
formula d'inizio – il "bonjour monsieur". Ero un caso
disperato. Sarei morto lì e mi avrebbero ritrovato dopo
anni.
Tuttavia, qualcosa di senso quasi compiuto dovevo averlo detto,
perché mi annuì dopo avermi squadrato da capo a
piedi, gli occhi
piccoli e affilati, adombrati dalla coppola blu scuro che portava in
testa, ridotti a due fessure indagatrici.
Io presi un bel respiro
prima di proseguire nel mio francese stentato: «Ou est "Le
Goût
du péché"?»
Esatto: persino la bottega aveva un nome del
cazzo. "Il Paradiso del peccato"... ma stiamo scherzando?
Inizialmente pensavo fosse un sexy shop. Oppure un modo carino per
indicare una dark room di una discoteca gay. Ed invece no, era una
cioccolateria caratteristica di Monpazier. Kilmer mi aveva dato
chiare disposizioni: avrei dovuto anche chiedere delucidazioni sul
nome.
Comunque, a discapito di quei miei pensieri un tantino
terrorizzati da ciò che mi sarebbe aspettato di
lì a poco, il
vecchio dischiuse le sue labbra, mostrandomi le gengive in quello che
evidentemente doveva essere una sorta di sorriso. Poi tese un braccio
e, col dito nodoso, mi indicò un'insegna all'angolo della
strada con
su scritte, in corsivo, le parole che io avevo pronunciato un solo
attimo prima:
Le
Goût
du
péché
Oh,
perfetto. Avevo fatto la figura del coglione anche davanti ad un
vecchio.
Gli rivolsi un "merci" sbrigativo mentre gli
davo le spalle e mi dirigevo a passo sicuro verso il negozio che
quell'uomo mi aveva indicato.
Giunsi davanti alla bottega e mi ci
piazzai di fronte, squadrandola: vetrine ampie e ben fornite, ad una
prima occhiata, muri esterni candidi ed una porta la cui
metà
superiore era in vetro e quella inferiore in legno. Sulla lastra che
permetteva di vedere l'interno, c'era un cartellino attaccato con su
scritto "open". Oh, inglese, adorato inglese.
Batteva il
Sole sulla facciata del negozio (in effetti avevo trovato ben pochi
posti all'ombra, ora che ci pensavo), ed era... pittoresco. Come ogni
altra fottuta casa barra negozio che si trovava per le strade del
paesino. C'era un grande platano all'altro lato della strada,
però,
che di tanto in tanto, mosso dal vento, copriva e scopriva con la sua
ombra i muri e le vetrine de "Le Goût",
creando giochi di luce che facevano sì che quel luogo
diventasse
ancora più particolare.
In breve, era strano. E mi ricordava
vagamente una casa greca. Santorini.
Al muro, accanto alla
porta, c'era attaccato un mazzo di fiori viola. Mazzo che era stato
messo a testa in giù, ed io piegai il capo verso destra,
avvicinandomi verso quella composizione, le sopracciglia aggrottate.
Sollevai la mano che non stringeva la valigetta e presi con
delicatezza uno di quei fiorellini conici tra indice e pollice,
avvicinando il viso al mazzetto ed annusando: riconoscevo l'odore
solo vagamente.
«E' lavanda. La conosce?»
Distolsi la mia
attenzione da quel fiore, il cipiglio ben marcato ancora presente per
spostare poi lo sguardo verso la fonte di quella voce maschile che
tradiva un sorriso, lo si percepiva bene. E così mi trovai
davanti
un uomo biondo, occhi azzurri, labbra piegate in una curva gentile,
fermo davanti alla porta d'ingresso del negozio e braccia incrociate
al petto. Accento inglese.
Oh, Dio salvi la regina ora e sempre!
Ok, non ero inglese, ma avrei potuto parlare e capire!
Mi presi
qualche attimo per squadrare quell'inglese (sì, adesso
dovevo farlo
sapere a tutti: era inglese
ed
era
anglofono):
maglietta bianca con scollo a V, grembiule in vita, occhiali da vista
e jeans. E se non ero completamente scemo, doveva essere o quel
McGregor, o l'altro... Lars?
«Mia moglie usa un bagnoschiuma con
questo profumo, se non sbaglio.» Risposi alla sua domanda con
un
sorriso di cortesia, tirandomi gli occhiali in testa e porgendogli la
mano, prima di presentarmi: «Io sono Robert Downey, sono
quello che
dovrebbe scrivere su questa bottega, cercare i sapori e tutto il
resto... lei è il proprietario?» Domandai
successivamente,
lanciando una veloce occhiata all'interno. Lui mi fece attendere un
po' per la stretta di mano, perché prima si pulì
la destra sul
grembiule, evidentemente per evitare di sporcarmi – anche se
non
capivo: aveva le mani sporche e usava una maglietta bianca? Che
cretino... - e solo allora ricambiò la mia presentazione con
un
ampio sorriso, annuendo frettolosamente e spingendosi gli occhiali
sul naso per sistemarseli: «Uno dei due, esatto. Sono Jude
Law e...
be', sì: sono il cioccolataio.»
Walking_Disaster's
corner:
Eccomi qui, di nuovo. Dovevo.
Questa FF
è nata ieri sera a cena. Non chiedetemi perché o
come: è venuta e
basta. Mangiavo il pesce spada coi pomodori mentre pensavo ad un Jude
cioccolataio.
Collegamenti mentali avvenuti?
"E se uno
dei due fosse uno chef? O un pasticcere? > Ehy, c'è
Lezioni di
cioccolato, domani! > Ehy... e se fosse un cioccolataio?
> Come
la tizia di Chocolat, con Johnny Depp." Ed infatti il titolo
della FF è ripreso dall'omonimo film con Johnny caro.
Dire che
la sto già amando è dire poco. Non mi stupirei se
diventasse una
delle mie figlie predilette... sì, be', tutte le storie per
un
autore sono importanti, ma c'è sempre qualcuna che surclassa
le
altre, no? Ecco, questa, con tutta probabilità,
sarà una delle mie
pupille – anche se, ovviamente, devo vedere come si
svilupperà.
Passando al capitolo:
Monpezier esiste davvero, come esiste
davvero a Monpezier l'hotel de France e come è vero che ci
sono poco
più di 500 abitanti. Mi sono presa un po' di
libertà per quanto
riguarda le descrizioni degli ambienti (porte blu, case bianche)...
volevo qualcosa che rimanesse impresso, che fosse caratteristico e
che potesse far stranire Rob, anche se, non essendo mai stata a
Monpezier, quest'ultimo potrebbe essere il paese più anonimo
della
Francia XD
Passiamo ai personaggi: abbiamo un Rob che, fisicamente
parlando, è Tony Stark. Cinico, che affogherebbe nel
caffè,
impaurito da quelle che lui vede come cose indispensabili nella sua
vita e che invece non ha in paese (come il wifi o internet sul
telefono). Jude invece è come Rob lo ha descritto... vestito
in
maniera molto semplice (anche se non mancano ovviamente le maglie con
scollo a V, obv <3). E per il momento sappiamo solo questo, ma
il
prossimo capitolo è dal pov di J, per cui capiremo qualcosa
in più
:)
Per i restanti pg citati, escluso il vecchietto e Amélie che
sono miei miei, penso non ci sia bisogno di spiegare chi sono o chi
non sono. Tranne Chris, forse, ed intendo Chris Evans (Captain America,
tanto per intenderci)
Poi... i piccioni-parassiti con le ali e il puzzare come
uno zingaro sono OVVIAMENTE riferimenti ad AGOS, che io amo.
Unica
nota da fare: Rob ha 39 anni e Jude 37.
Ah, e il francese di Rob è smozzicato come il mio, per cui
non mi stupirei se trovaste errori nelle frasi francesi! Ho studiato
solo alle medie la lingua, per cui sono un po' tanto arrugginita,
nonostante le varie ricerce su internet. Quindi, se qualcuno nota degli
errori, non esiti a farmelo sapere <3
Sicuramente mi sto
dimenticando qualcosa, ma... dettagli. Lo dirò nelle NDA del
secondo
capitolo.
Voglio invece ringraziare LelaAndHerLonelyShadows
perché mi supporta sempre, mi aiuta in ogni progetto in cui
mi
imbarco e perché è diventata la compagna dei miei
scleri su...
*Coff*CulodiRob/LabbradiJude*Coff*
Va be' oh, non ho nient'altro
da dire se non che vi regalo un cioccolatino di Jude se mi lasciate
una recensione.
Ci vediamo al prossimo capitolo,
WD
Oh:
probabile il rating diventerà rosso, prima o poi :3