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Autore: Ignis_eye    18/07/2014    3 recensioni
In un macabro castello arroccato su un dirupo, vive una famiglia di nobili vampiri. Ginevra, la contessina, salva la vita a una ragazza mezz'elfa, ritrovandosi ad essere la sua padrona pur non volendolo.
Come se una serva indesiderata non bastasse a scocciarla, si aggiunge un altro problema: una guerra tra vampiri. E qual è il metodo migliore per tessere alleanze se non... un matrimonio?
Seguite le vicende di Ginevra ed Elena, vi accorgerete di quanto le mostruosità più grandi siano in realtà quelle tipicamente umane.
Genere: Azione, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri, FemSlash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Violenza
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Qualcosa raspò alla porta.
Grattava disperatamente, voleva fuggire; grosse schegge si staccavano dalla porta massiccia e profondi graffi si univano alle venature naturali del legno.
La serratura cedette e l’uscio si aprì, chiudendosi violentemente per colpa della corrente.
Gli occhi di Ginevra scrutarono l’oscurità: grazie alla sua vista sviluppata poteva vedere benissimo anche al buio, e il suo udito finissimo aveva sentito chiaramente la porta sbattere dall’altra parte del castello.
Era una roccaforte completamente ristrutturata per accogliere centinaia e centinaia di visitatori, se non fosse che un mostro lo infestava.
Già cinque persone erano morte per colpa sua e Ginevra era intenzionata a stanarlo e catturarlo. Non che le importasse molto degli umani, sia chiaro, solo le  dava fastidio che qualcuno li facesse fuori con tanta leggerezza nel suo territorio.
La vampira annusò l’aria. Sì, c’era qualcosa, qualcosa di grosso, ed era passato in tutte le stanze del castello lasciando il suo odore forte e nauseabondo.
La magia che scorreva nelle sue vene ribolliva agitata nel sentire un’altra energia nelle vicinanze, pulsava nel suo cuore, impregnava tutto il suo essere rendendola sensibile alla presenza di altri mostri come lei.
Si diresse verso la porta in legno e la spalancò, ritrovandosi nel corridoio. Il cigolio dei cardini si propagò in modo sinistro tra quelle pareti massicce.
Lo attraversò completamente in pochi istanti, poi scese due rampe di scale e si ritrovò in una sala dal pavimento pieno di schegge.
«Vieni fuori, mostriciattolo…» sussurrò ghignando.
La caccia la divertiva all’inverosimile, era come una droga che la rendeva più aggressiva del solito.
Percepì dei passi sulle scale che portavano ai sotterranei, sembravano passi di cane.
Rasentò il muro stuccato di recente e scese silenziosamente la scala ritrovandosi nei sotterranei umidi e freddi.
L’odore di umidità stagnante e polvere permeava l’aria ma non comprometteva affatto il suo fiuto.
I suoi occhi azzurri, chiarissimi e attraversati da venature simili a crepe nel ghiaccio, rilucevano nell’oscurità come quelli di un felino, rendendola decisamente spaventosa.
«Ti conviene venire fuori, tanto prima o poi ti trovo!».
Ormai era vicina, poteva sentire il suo respiro in una delle stanze in fondo al corridoio di pietra. Si incamminò lentamente e i passi echeggiavano mentre si avvicinava alla sua preda.
Ghignò scoprendo i canini bianchi e letali.
«Toc toc, è permesso?».
Con un calcio privo del minimo sforzo, abbatté una porta di legno rinforzata in metallo, irrompendo in una sudicia cella.
Il mostro era davanti a lei, raspava per terra, ringhiava e rantolava, si sentiva in trappola.
Ginevra si umettò le sottili labbra rosse, pregustando già il sapore di quella battaglia: era sempre divertente combattere contro un mostro mutaforma perché  potevano scappare facilmente e questo rendeva tutto più impegnativo.
Lo riconobbe subito come un cerbero, un cane a tre teste. Questo in particolare, era grande poco più di una grossa pecora e aveva l’aspetto di un mastino dal pelo nero e gli occhi ambrati iniettati di sangue.
Le tre teste si muovevano ognuna per conto proprio, come se fossero appartenute a tre animali diversi. Schioccavano le mascelle possenti mostrando le zanne e le lingue rossastre.
Ginevra adesso sembrava più una bambina in un negozio di caramelle che una cacciatrice: non aveva mai visto un cerbero e ne era rimasta affascinata.
Lui l’attaccò improvvisamente tentando di morderla, ma lei era troppo veloce  e lo schivò facilmente. Colpì la testa a sinistra con un pugno che ne distrusse la mascella, lasciandola cadere a penzoloni.
Le altre due ringhiavano ma non sentivano il dolore della testa spaccata, continuavano a fare baccano come se nulla fosse successo, mentre questa penzolava inerte gocciolando sangue sul pavimento.
«Grrr! Bau bau!». Il suo verso risuonava in quella stanza spoglia, risultando molto fastidioso.
«Ahahah! E’ inutile che ti lamenti tanto, ormai sei mio!».
Così Ginevra gli spappolò la testa più a destra, con un gancio che partì dal basso e che l’attraversò completamente, schizzando sangue e cervello su tutto il muro.
“Tsk… mi sono sporcata il polsino della camicia” pensò “piccoli inconvenienti, grandi risultati”.
Con le sue mani sporche di sangue stava per frantumare anche l’ultima testa, quando il mostro si tramutò in decine e decine di serpenti, scivolando fuori dalla cella e risalendo al piano terra.
Erano velocissimi e si disperdevano in ogni direzione, tanto che Ginevra preferì seguire solo un piccolo gruppetto che si inoltrava nel boschetto che circondava il castello.
L’edificio si trovava a pochi kilometri dalla città e l’unico modo per arrivarci era seguire piccole stradine tortuose ricolme di cartelli che indicavano la direzione da seguire.
Pedinò le bisce dall’alto, saltando di albero in albero: non le sarebbero scappate.
Aveva letto molti libri su quel tipo di mostro e sapeva che per rigenerare le gravi ferite subite, doveva recuperare le forze mangiando un essere magico.
“Mi basterà essere lì quando lo farà, poi lo sconfiggerò” pensò facendo un balzo di una decina di metri “In fondo, è solo un cerbero di piccole dimensioni, sarà un gioco da ragazzi”.
Un quarto di luna crescente fece capolino dalle nubi, illuminando timidamente il bosco e la vampira che attraversava radure e saltava ruscelli.
Alta, pelle chiara, capelli biondi che arrivavano fino alle scapole, fisico magro e atletico. Una bellezza, in poche parole.
I rettili saettavano come fulmini scuri sul terreno sconnesso causando un leggero fruscio nell’erba.
Si stavano avvicinando alla periferia della città, infatti le case (prima rarissime) stavano aumentando parecchio.
Le bisce non si fermarono, avanzarono ancora.
“Cosa fanno? Non pensavo avessero il coraggio di avvicinarsi così alla città” pensò Ginevra superando una casa con un balzo “Di solito odiano tutto quel caos”.
Ormai Ginevra cominciava a stufarsi, quando vide che altri serpenti si univano a quelli che seguiva e si trasformarono di nuovo in cane. Questo perdeva parecchio sangue, ma se correva ancora, significava che aveva trovato una preda.
Corse oltre le prime case cittadine, inciampando qualche volta sull’asfalto e spaventando i gatti al suo passaggio.
Rantolava in modo disgustoso perché l’aria creava delle bolle nelle due trachee morte e ora ricolme di sangue.
Svoltò improvvisamente a destra e finì nel giardino trascurato di una casa abbandonata.
Grattò la porta e la sfondò, entrando come una furia.
Ginevra lo seguiva, silenziosa come un’ombra, correndo a velocità sovrumana e arrestandosi davanti alla casa. Guardò tra le assi marce che tappavano una finestra, e vide il mostro saltare addosso a qualcosa, qualcosa di così ben nascosto che nemmeno Ginevra era riuscita a percepire prima. No, era impossibile che non avesse sentito quell’essere, proprio lei che con i suoi occhi poteva squarciare l’oscurità più buia.
Avvicinandosi capì perché i suoi sensi non l’avessero calcolata: era solo una giovane mezzana, un’insignificante, insulsa mezzana.
Il cane l’aveva morsa ad una gamba spezzandogliela in più punti e facendo uscire l’osso, poi l’aveva graffiata su tutto il corpo, non risparmiandole nemmeno il volto.
Ginevra guardava la scena nascosta da un rampicante cresciuto senza cure, decisa a non intervenire per salvarla.
«Ahhh! Vattene, lasciami stare! Vai via!».
La mezzana opponeva resistenza, tentava di resistere ad ogni attacco del cane, non si dava per vinta.
«Lasciami, mostro! Vattene!» urlò menando fendenti con un vecchio tubo marcio.
Il cerbero aveva la bocca sporca di sangue, ringhiava e mostrava le zanne alla malcapitata che tremava come una foglia ma cercava in tutti i modi di scappare.
Si alzò sulla gamba sana e gli spaccò una sedia in testa senza risultati a parte una zampata che le ruppe il naso.
“Quella ragazza ha fegato”.
Lei provò a colpirlo ancora con un bastone raccattato tra la sporcizia, ma lui le ruppe la mano con una serie di scricchiolii simili a rametti spezzati.
La giovane ragazza, forse appena diciottenne, urlò di dolore sostenendo quello che rimaneva della sua mano destra, ora solo una massa informe di carne e sangue.
La bestia ringhiava e solo quando fu a pochi istanti dall’ucciderla, lei si lasciò andare ad un pianto disperato, struggente e malinconico.
«Aiuto! Vi prego, aiutatemi!».
Sapeva di essere sul punto di morire, aveva paura ed era cosciente che sarebbe morta sola e  lontano da tutti, ma invocava lo stesso soccorso.
«Aiuto! Aiuto!».
Quelle lacrime e quei singhiozzi erano così angoscianti che scossero perfino Ginevra. Mentre assisteva impassibile a quella carneficina, la sua mente ritornava al passato, riportandola in un luogo e a una situazione simile.
 
«Lasciatemi! Quella roba è mia!» urlò l’uomo.
«Sta zitto!» gli ordinò il ladro, prendendolo a pugni.
«Già, chiudi il becco» ripeté un altro «Adesso la tua roba è nostra, smettila di infastidirci  sennò ti facciamo fuori!».
Il giovane uomo, un mezzano, ferito e derubato, non aveva certo intenzione di lasciare che si portassero via i suoi unici averi.
Si alzò barcollante e li attaccò, prendendo più botte di quante riuscisse a darne.
 
Il cane si acquattò e mostrò le zanne; i resti delle due teste morte gocciolavano ancora sangue che cadeva e seguiva le fughe del pavimento disegnando una rete scura.
Stava per staccare la testa della giovane con un solo morso, quando una spranga gli si conficcò nel cranio, uccidendolo e immobilizzandolo al pavimento polveroso.
La mezzana lanciò un urlo di paura quando vide la vampira in piedi davanti a lei che la fissava con un solo occhio aperto, luminoso come quello di un felino.
 
 
Cadde a terra e non si sarebbe più rialzato se una Ginevra dall’aspetto di una tredicenne non avesse ucciso i due ladri  in poche mosse.
«Come stai?» gli domandò con tranquillità, come se lui non fosse stato a terra sanguinante.
«Sono stato meglio» sussurrò l’uomo, che faceva fatica anche solo a muovere la bocca.
«Dimmi, chi devo ringraziare per essere ancora in vita?» domandò con uno sforzo enorme.
«Sono Ginevra, una vampira. Tu chi sei?».
«Z-Zefiro, un mezzano. Coff coff!».
 
 
«Chi sei?» chiese la cacciatrice.
«Elena» le rispose tremante «sono una mezzana».
«Lo so, da tempo so riconoscere quelli come te» disse pacatamente.
Era accasciata ad un muro della carta da parati cadente e consumata dall’umidità; il suo sangue l’aveva già sporcata in più punti con schizzi rossi, e il viso della giovane era irriconoscibile.
La mano penzolava inerte dal polso, la gamba rotta era piegata all’indietro e l’osso spuntava dal polpaccio.
Elena stava per parlare, ma un’energia potentissima la attraversò in un attimo, curando tutte le sue ferite.
Guardò la propria mano destra: la vampira l’aveva toccata e con un incantesimo curativo aveva completamente sanato le sue ferite. Anche la gamba che prima era ridotta quasi a un moncone deforme.
Come testimonianza dell’accaduto sul suo corpo non era rimasto nulla.
La ragazza guardò incredula la vampira, non poteva credere a quello che aveva appena fatto. Nessuno salva la vita ai mezzani.
 
 
Tossì sangue, per lui c’era poco da fare. Ginevra, che a quell’epoca era ancora una ragazzina e il suo cuore era ancora in grado di provare compassione, lo curò con delle formule magiche, riportandolo a come era prima dell’aggressione.
Zefiro si guardò meravigliato: era completamente guarito!
Della colluttazione restavano poche tracce: i due cadaveri e il suo sangue sparso sull’erba, ma sulla sua pelle non era rimasta nemmeno una cicatrice.
Tremava senza sapere nemmeno il perché, forse per la sorpresa o forse per l’emozione, fatto sta che gli restava solo una cosa da fare.
«Ginevra» le disse inginocchiandosi «la vita di un mezzano vale ben poco, ma tu mi hai salvato. Da ora in poi, io sarò il tuo umile e fedele servo».
 
 
«Io mi chiamo Ginevra. Sono una vampira» la informò.
«Lo sospettavo, ho visto i tuoi denti…».
«Da me non devi temere nulla, non ti farò del male».
Elena era ancora spaventata per l’accaduto, era pallida come un fantasma e le tremavano le labbra.
Ciocche di capelli castani le ricadevano sul viso sporco di terra, indossava abiti consunti e probabilmente non suoi.
Più o meno una senzatetto.
«Grazie per avermi salvato la vita» le disse ancora accasciata a terra «D’ora in poi, per ripagarti del dono che mi hai fatto, io sarò tua serva devota».
 
 
«Cosa?! Non se ne parla!» gli urlò adirata «Non ho bisogno di un servo! Non ti voglio!».
Zefiro era spiazzato: chiunque accetterebbe subito un’offerta simile, perché significa avere pieni poteri sulla persona, significa poterne disporre a proprio piacimento.
«Come mai non posso essere tuo servo? Non ho altro modo per ringraziarti!».
Ginevra, che nonostante l’aspetto di una tredicenne aveva ormai una cinquantina d’anni, non condivideva l’idea della schiavitù, proprio non le piaceva.
«Che ti importa?! Sei solo un mezzano, vattene e non scocciarmi!» lo liquidò bruscamente.
«Invece lui resterà con te».
Ginevra si voltò di scatto: era suo padre, non si era accorta del suo arrivo.
«Padre, io non voglio un ser-».
«Lui sarà il tuo attendente personale, farà anche da valletto, da domestico e da lacchè, così come prevede l’obbligo di servitù» ordinò.
Ginevra sapeva che se il padre dava un ordine con quel tono, bisognava ubbidire. Lo guardava con occhi di fuoco.
«Va bene» acconsentì riluttante. Poi, rivolgendosi a Zefiro soffiò: «Non credere che ti tratterò bene».
Così tutti e tre si avviarono verso il castello dove Ginevra viveva con la famiglia. Poco distante dalla radura dove Zefiro era stato attaccato, Aronne , il padre di Ginevra, aveva portato il suo cavallo.
«Mezzano, per stare al nostro passo dovrai usare il cavallo. Lui sa la strada, devi solo tenerti stretto».
Il giovane non fece nemmeno in tempo ad afferrare le redini che l’animale era già partito al galoppo.
Quando furono soli, Ginevra disse al padre:
«Perché mi hai obbligata a tenerlo? È debole e forse anche analfabeta. Cosa me ne faccio? ».
«Figlia mia, i motivi sono due: salvandogli la vita, hai deciso tu al posto del destino che certamente l’avrebbe lasciato morire. Per questo, adesso dovrai tenerlo per sempre».
“Figuriamoci” pensò “ in men che non si dica, gli donerò la libertà in qualche modo e-”.
«Il secondo motivo» continuò Aronne «è che sei una vampira nobile, perciò devi essere in grado di assumerti certi doveri. La responsabilità dell’avere un servo tutto tuo ti sarà di aiuto per il futuro. E ricorda che i mezzani possono essere validi aiutanti».
E con questo concluse. Ginevra aveva già capito di non poterci fare niente e, mentre il padre correva a gran velocità lasciandola momentaneamente indietro, sussurrò:
«Come vuoi, padre, ma questa è la prima e l’ultima volta che salvo la vita a un mezzano».
 
 
Ginevra guardò Elena; Era così contrariata che arrivò addirittura a spalancare l’occhio sinistro, occhio che solitamente teneva chiuso per via di una cicatrice che andava dal sopracciglio, attraversava la palpebra e arrivava allo zigomo.
“Non voglio avere un’altra serva… avevo detto che Zefiro sarebbe stato il primo e l’ultimo. In che guaio mi sono cacciata…”.
 Se suo padre avesse scoperto che aveva rifiutato un’occasione simile, le avrebbe fatto una ramanzina lunga cent’anni, non le avrebbe dato un attimo di tregua, ma volle provarci lo stesso.
«Non ti voglio» affermò fredda come il ghiaccio.
La mezzana sembrava quasi disperata dal suo rifiuto.
«Non posso ripagarti in nessun altro modo».
Ginevra sospirò, la storia si ripeteva.
“A quanto pare i mezzani ce l’hanno nel sangue”.
Restò pensosa per minuti che sembrarono secoli, guardando fuori dalla finestra sgangherata e appoggiandosi ad un tavolo tarlato di quella che un tempo era la cucina.
«Accetto. Sappi però che sono una pessima padrona».
L’altra non sembrò turbata. Era una mezzana, quelli come lei vivevano come pezzenti, avrebbe sopportato bene, o almeno lo sperava.
«Ormai ti appartengo, non importa cosa farai di me».
«Bene, allora seguimi fino al mio castello».
Quando furono sul portico scricchiolante, Ginevra indicò la falce di luna che vegliava sul cielo notturno.
«Guardala bene, stupida ragazzina, perché d’ora in poi potrai piangere per la tua stoltezza solo davanti a lei. Nessuno ascolterà le tue suppliche, prega che lo faccia almeno la luna».
Elena non proferì parola, restò zitta e immobile.
Cosa voleva dire con quella frase? Non lo capiva.
E non capiva nemmeno come un solo occhio potesse guardare con così tanta rabbia.



Angolo dell'autrice:
Non so come mi sia venuta in mente la scellerata idea di scrivere un'altra storia mentre ne ho già una in corso, fatto sta che è successo XD
Per una serie di motivi (come l'impegno con la storia sopra), l'aggiornamento non sarà regolare e ne chiedo scusa in partenza.
In questo capitolo il tempo e lo spazio non sono ben definiti, ma andando avanti con la storia capirete tutto; inoltre, ogni capitolo verranno fuori particolari sulle varie razze magiche e sul passato delle protagoniste.
Concludo dicendo che le recensioni (positive e negative) sono sempre ben accette, e vi lascio con qualche domanda:
Come mai tanta cattiveria da parte di Ginevra?
Perchè Elena è arrivata alla drastica decisione di rinunciare per sempre alla libertà?
Lo scoprirete più avanti!

P.S: Se vi va, leggete anche l'altra storia che sto scrivendo, si chiama "Guerra del plenilunio".
La trama è il conflitto tra licantropi e mannari ed è sempre yuri ;)


Ignis_eye

 
  
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